La Procura di Prato ha aperto un fascicolo per lesioni multiple aggravate in
seguito a un’aggressione subita domenica sera da alcuni lavoratori e
sindacalisti del Sudd Cobas, in presidio da dieci giorni di fronte al ristorante
“La Scintilla” per protestare per i turni di lavoro imposti dai proprietari,
cittadini cinesi. La colluttazione ha causato sette feriti. In un comunicato, il
procuratore Luca Tescaroli sottolinea “la diffusione del dilagare delle
manifestazioni delittuose nel Pratese”, in particolare per la “contrapposizione
tra appartenenti al sindacato e datori di lavoro di nazionalità cinese, che con
crescente frequenza genera il ricorso alla violenza“. Secondo la ricostruzione
degli inquirenti, effettuata con l’aiuto delle immagini delle telecamere, lo
scontro è nato dopo che un cinese di 45 anni ha trascinato per un braccio un
partecipante al presidio, di nazionalità pakistana, per portarlo dentro il
ristorante: gli altri manifestanti hanno aiutato il compagno a divincolarsi e ne
è nata la rissa. Dal locale sono usciti due uomini, anche loro cinesi: uno
lanciava acqua sui manifestanti, un altro cercava di portare via il cinese
45enne. Lo scontro è proseguito dentro il locale. Il ferito più grave è il
45enne, con prognosi di dieci giorni per trauma facciale; la proprietaria del
locale, una cinese di 41 anni, ha riportato contusioni a un braccio. Altri
cinque manifestanti originari del Pakistan hanno richiesto cure mediche; uno di
loro ha avuto lesioni guaribili in sette giorni, per contusioni cervicali subite
a causa di colpi di bottiglia e per un morso che gli ha lacerato il mignolo
della mano destra. Le indagini vengono condotte anche dalla Digos di Prato.
L'articolo Prato, aggressione a un presidio sindacale di fronte a un ristorante
gestito da cinesi: le immagini proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Sul poster dietro al lettino dello studio c’è scritto che l’idrocolonterapia è
“indolore, efficace e senza rischi”. Un’ambientazione quasi da film horror,
scoperta stamattina dai poliziotti della Squadra mobile. A Prato, un uomo di 53
anni è finito agli arresti domiciliari per il presunto servizio abusivo di
idrocolonterapia nello studio della moglie, medico endoscopista. Secondo le
indagini, poi, tre pazienti donne sarebbero state vittime di violenze sessuali
durante le sedute dell’uomo. Due di loro hanno trovato il coraggio di denunciare
gli abusi.
Sull’arrestato, ex guardia giurata, le ipotesi di reato sono esercizio abusivo
della professione medica e violenza sessuale. Anche sulla moglie, la titolare
dello studio, c’è l’ipotesi di esercizio abusivo della professione medica, per
aver indirizzato i pazienti alle sedute del marito. Gli arresti domiciliari del
50enne sono stati disposti dal gip su richiesta della Procura di Prato. Con un
comunicato, il procuratore Lusca Tescaroli invita chiunque abbia subìto degli
abusi o condotte prevaricatorie a esporre denuncia.
Lo studio è dall’altra parte di una tenda scura. Decorazioni e oggetti
orientaleggianti sulle pareti. Sempre sul poster si legge: “idricolonterapia,
l’acqua che depura, rivitalizza e dona benessere”. Accanto, il macchinario per
le sedute, che dai filmati sembrerebbe essere un’apparecchiatura prodotta da una
azienda tedesca. Le sonde utilizzate per i trattamenti erano conservate in
prossimità di bidoni della spazzatura, delle condizioni igienico-sanitarie
pericolose per i pazienti dello studio medico.
La titolare dello studio pubblicizzava l’idroncolonterapia sui social come una
pratica medica. L’idrocolonterapia consiste nel lavaggio dell’intestino
attraverso l’introduzione nel retto di acqua dolce filtrata. Secondo l’Iss,
questa pratica invasiva non ha nessuna utilità, ma può invece procurare danni
anche molto gravi come la perforazione del colon.
L'articolo Idrocolonterapia abusiva nello studio medico: 53enne ai domiciliari
per abusi sessuali proviene da Il Fatto Quotidiano.
Chi ha rapito Yixian Yang? Siamo a Prato. È sabato notte quando l’uomo esce
stordito da un karaoke della periferia ovest in compagnia di una donna e un
uomo, suoi amici. Succede tutto in un attimo: il gruppo nota un’auto scura da
cui scendono due uomini che si presentano come poliziotti e caricano Yang di
forza. L’uomo da allora scompare, insieme all’auto e ai due “agenti”.
La Procura di Prato fa subito chiarezza: nessun reparto in servizio in
quell’area (via Udine) a quell’ora (le 4.20 di notte). Erano due falsi
poliziotti. A togliere ulteriori dubbi ci pensano le testimonianze degli amici.
Parlano di due uomini occidentali che si presentano come forze dell’ordine,
intimano a Yang di salire sull’auto in italiano ma non mostrano alcun documento
o tesserino. L’allarme parte domenica mattina quando la moglie, non vedendo
rientrare il marito, chiama i due testimoni. Gli uomini sono apparentemente
sconvolti dall’accaduto ma non hanno chiamato aiuto. Il motivo potrebbe
risiedere nel passato di Yang.
L’uomo è ricercato in Cina, accusato di una truffa collegata a un giro di
scommesse illegali su WeChat e destinatario di una misura cautelare. Secondo le
autorità cinesi avrebbe guadagnato in questo modo oltre sei milioni di euro.
Intanto le ricerche faticano perché la zona è industriale, le vie sono tutte
uguali così come i capannoni che le ordinano. Si cerca di tracciare un profilo
dell’uomo, che frequentava abitualmente il locale e spendeva tanto ma – si dice
– senza dare nell’occhio. Sono sotto controllo i suoi conti bancari e i tabulati
telefonici.
Le piste intanto si sprecano: c’è l’ipotesi di sequestro mascherato da arresto,
l’idea di un regolamento di conti nella comunità cinese e la tesi estera che
coinvolgerebbe persone legate al giro di scommesse. Appaiono difficili le
supposizioni su un intervento di autorità straniere e su una sparizione
volontaria con finto rapimento. Tutte congetture che al momento non trovano
riscontro anche se il fascicolo aperto dalla Procura parla di scomparsa sospetta
con ipotesi di sequestro di persona.
Nel mentre, su WeChat l’ampia comunità cinese della zona segue con apprensione
la vicenda. Diffusa anche una foto dell’uomo e l’invito a contattare i
carabinieri allo 0574-7051, nel caso di notizie.
L'articolo Il mistero di Yixian Yang, il ricercato cinese rapito da due falsi
agenti a Prato sabato notte proviene da Il Fatto Quotidiano.
Una perquisizione record contro praticamente l’intera popolazione del carcere La
Dogaia di Prato, sempre più fuori controllo, è in corso dalla tarda notte. Il
procuratore di Prato ha emesso un decreto di perquisizione e sequestro contro
564 detenuti (solo ventinove dei quali sono indagati). Gli interessati sono
reclusi in tutti i reparti: Alta Sicurezza, Media Sicurezza, senza escludere i
Semiliberi e le aree comuni. Questa misura straordinaria, spiega il procuratore
Luca Tescaroli in un comunicato diffuso nella mattinata, è “resa necessaria dal
peculiare fenomeno criminale pulviscolare che, pur concentrandosi
prevalentemente nelle sezioni ottava, quinta, sesta e decima, irradia i propri
effetti ad ampio raggio nella struttura carceraria”. La situazione descritta dal
procuratore è quella di un’isola di illegalità dove sotto il cartello dello
Stato dominano di fatto i detenuti più pericolosi e violenti: consegne di droga
con i droni che entrano nella Dogaia tranquillamente, minacce ai detenuti con
permesso di uscita per costringerli a fare da corrieri, talvolta ingerendo ovuli
pieni di droga, pressioni per sfruttare ogni contatto con l’esterno, compresi i
colloqui con i familiari, e poi telefonini e internet a go go per coordinare con
la tecnologia le attività illegali dalla cella. I detenuti gestiscono i loro
social dalla cella così da mostrare all’esterno chi comanda. Dentro e fuori,
anche dopo la condanna. Dalla cella al web.
E non è quindi sorprendente che al termine dei controlli le forze dell’ordine
abbiano rinvenuto sei dosi di hashish, una di cocaina, sessantadue pasticche di
sostanze “verosimilmente stupefacenti”, 14 lame artigianali, un cutter, un
cacciavite, cinque punteruoli artigianali, uno smartphone privo di sim, uno
smartwatch e denaro contante.
Il problema della Dogaia era già stato oggetto di altre operazioni limitate nel
passato. Vista la difficoltà di restaurare la legge il procuratore Tescaroli ha
scelto di ricorrere a una perquisizione totale. Come si è potuti arrivare a
questo punto? Nel comunicato il procuratore enumera i fattori scatenanti: “La
possibilità di movimento concessa ai detenuti, soprattutto coloro che svolgono
attività lavorative in seno alla struttura, sono ammessi ai permessi premio e
sono semiliberi, nonché le possibili connivenze di alcuni appartenenti alla
polizia penitenziaria”.
Per il procuratore in questo buco nero “l’uso della violenza e della minaccia da
parte di detenuti nei confronti di altri” punta “all’approvvigionamento di
sostanza stupefacente del tipo cocaina, hashish, eroina e
anfetamine/metanfetamine all’esterno del carcere, per il tramite di detenuti
permessanti o semiliberi, destinatari anche di intimidazione e violenza, ovvero
mediante consegna durante i colloqui di quanto occultato nelle parti intime dei
familiari che si sono recati a colloquio, o invio di plichi destinati ai
detenuti, celati all’interno di indumenti o cibi, o lanci di involucri, ovvero
l’impiego di droni che trasportano plichi contenenti stupefacenti, nonché alla
vendita e distribuzione dello stesso e nell’introduzione e impiego di telefoni
cellulari e di social network, come i profili Tik Tok, che più detenuti
continuano a gestire”.
Il procuratore ritiene di avere individuato un’altra problematica: l’uso delle
strutture che dovrebbero aiutare il reinserimento nella società in senso opposto
alla loro finalità. Scrive Tescaroli: “La struttura di accoglienza Jacques Fesh
(ubicata a Prato, in via Pistoiese) è risultata essere un luogo strategico per
convogliare la droga, alla quale sono risultati avere accesso incontrollato
detenuti in permesso autorizzati a uscire dal carcere”. La questione da
risolvere urgentemente è quella dei droni. La tecnologia che ha cambiato la
guerra nel mondo muta anche i traffici nelle celle di casa nostra: “Alcuni
detenuti gestiscono l’approvvigionamento con l’impiego di droni in grado di
trasportare plichi, al cui interno viene occultato stupefacente, cellulari,
coltelli e tirapugni”. Ovviamente il servizio della consegna in carcere si paga
caro: “I rischi che si affrontano per l’introduzione dello stupefacente
comportano un aumento esponenziale del prezzo per l’acquisto della droga, che
spesso risulta versato dai molti consumatori in carte ricaricabili, come le
Postepay, riconducibili ai detenuti o a soggetti a loro vicini. A titolo
esemplificativo, secondo le indicazioni provenienti da un detenuto che ha
intrapreso un percorso collaborativo, per l’acquisto di 0,7 grammi di cocaina ha
pagato 500 euro”.
A nulla sono serviti i primi interventi mirati: “Il fenomeno non è stato
neutralizzato il 28 giugno 2025 con le attività di perquisizioni svolte su scala
ridotta in seno al carcere La Dogaia”. E già perché con quelle perquisizioni
“non sono stati individuati gli apparecchi nella disponibilità di detenuti
correlati a diciassette IMEI che sono risultati attivi (12 IMEI nell’alta
Sicurezza e 5 nel reparto Media Sicurezza) e quelli utilizzati per l’impiego di
ventuno utenze risultate nella disponibilità di detenuti (diciotto rientranti
nel circuito alta Sicurezza e tre nel reparto media Sicurezza), nonché il
congegno elettronico che ha consentito e consente a più detenuti di gestire dal
carcere il proprio profilo Tik Tok”. Meglio è andata invece sul fronte droga:
“Sono invece stati sequestrati, dal luglio 2024, trenta quantitativi di droga (
1.145 gr. di hashish, 163,09 di cocaina, 4,61 di eroina e 0,66 di
anfetamine/metanfetamine), occultati in camera di pernottamento, da familiari
sulla loro persona, allorché si recano ai colloqui, e all’interno di pacchi
spediti; quarantanove telefoni cellulari e alcuni routers sono stati rinvenuti e
sequestrati”.
Chi sono gli indagati? Ventinove detenuti di nazionalità dominicana, tunisina,
marocchina, egiziana, italiana, polacca e albanese, a vario titolo, per
estorsione, violenza privata, acquisto e vendita di stupefacenti, accesso
indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti e
detenzione e porto di armi. Un dominicano e un tunisino, operativi nell’ottava
sezione della Media Sicurezza, sono risultati avvalersi di due detenuti in
permesso, destinatari di aggressione fisica, per costringerli, con violenza e
minaccia, a prestarsi per portare clandestinamente all’interno dell’istituto
penitenziario lo stupefacente al rientro dalla fruizione dei permessi loro
concessi. Scrive il procuratore: “L’aggressione dell’ 8 aprile 2025 risulta
essere stata eseguita colpendo il detenuto vittima con calci e pugni al volto e
in varie parti del corpo che gli provocavano lesioni personali, consistite in un
trauma cranio-facciale all’interno della camera di detenzione ove era ristretto,
rappresentandogli che l’aggressione costituiva solo l’inizio, ove non si fosse
prestato a portare lo stupefacente all’interno dell’istituto pratese, rientrando
dal permesso. L’aggressione del 16 maggio 2025 è consistita nel colpire la
vittima con un punteruolo rudimentale all’avambraccio sinistro e nella zona
inguinale sinistra, all’interno della camera di sicurezza ove era ristretto,
sempre per costringerlo a portare lo stupefacente, rientrando dal permesso”. Non
solo: “Tre detenuti si approvvigionavano di cellulari e armi (coltelli e
tirapugni) impiegando un drone con una lenza lunga venti metri impiegata per
trasportare i plichi contenenti detto materiale sino alla finestra della loro
cella, priva di rete anti lancio, da dove prendevano il materiale, previe intese
con un soggetto in libertà deputato a manovrare il drone, contattato con
un’utenza cellulare”. La novità è la collaborazione da parte dei detenuti stufi
di subire angherie. “Sei detenuti, destinatari di atti di violenza e di minacce
di morte anche con l’impiego di armi, hanno assunto atteggiamento di
collaborazione con quest’ufficio denunciando le intimidazioni, le violenze e i
soprusi patiti, nonché indicando i canali di introduzione e i soggetti che
gestiscono l’attività correlata all’approvvigionamento e alla vendita di
stupefacente”. Il procuratore Tescaroli lancia un appello: “I detenuti vittima
sono invitati a denunciare quanto accade all’interno della struttura carceraria
pratese, tenendo conto che sussiste la possibilità di ricorrere ad appropriate
misure di tutela nei loro confronti, come si è già provveduto a fare per coloro
(i sei citati) che hanno fornito un concreto apporto alle investigazioni”. E c’è
anche una richiesta al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Scrive
Tescaroli: “Le investigazioni espletate rivelano la necessità di munire la
struttura carceraria pratese di telecamere e di reti anti lancio per tutte le
finestre delle camere di detenzione occupate dai detenuti per neutralizzare
l’impiego di droni con riprese continuative e ostacolare l’apprensione di plichi
portati dai droni dalle celle, nonché di munire l’istituto di sistemi antidrone
e di personale adeguato a garantire un compiuto servizio di vigilanza armata per
prevenire il sorvolo degli stessi. Emerge, poi, l’esigenza di schermare la
struttura in modo da impedire l’utilizzo della rete internet e di quella
telefonica dall’interno della struttura carceraria. Inoltre, è emersa l
‘esigenza di sottoporre a contro ili sanitari, con esami radiologici (lastre), i
detenuti permessanti al rientro in carcere per neutralizzare l’impiego di detto
canale per introdurre lo stupefacente”. I decreti di perquisizione e sequestro
sono stati eseguiti da un contingente di circa 800 esponenti delle quattro forze
dell’ordine, Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria.
L'articolo Maxi-perquisizione nel carcere di Prato: “I detenuti gestivano
traffico di droga usando droni e minacciando altri carcerati” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
A pochi giorni dall’aggressione a un picchetto di lavoratori in sciopero, al
centro Euroningro, a Prato si assiste a un nuovo assalto, questa volta nei
confronti degli operai Elafilo. Stando alla ricostruzione del sindacato di base
Sudd Cobas – e come mostra il video – lavoratori e sindacalisti sono stati
strattonati e il presidio divelto. “C’è stato anche il tentativo di investire
una attivista. Per fortuna nessuno si è fatto male, ma si conferma il dato
inquietante di un gruppo di padroni che organizza sistematicamente la violenza
per difendere lavoro nero e sfruttamento”.
Il sindacato di base ha raccontato cosa è successo in passato: “Dopo essere
stata costretta a regolarizzare i lavoratori della produzione di elastici per
abbigliamento dopo uno sciopero in primavera, la Elafilo ha cambiato strategia e
deciso di adottare la tecnica ‘chiudi e riapri’. Fabbrica smantellata dal giorno
alla notte, macchinari spostati chissà dove e operai lasciati senza lavoro,
stipendi e TFR. Per questo la protesta si è spostata in via Genova, dove la
stessa impresa svolge il confezionamento dei capi”. E ancora: “Abbiamo già
dimostrato più volte che queste azioni sono destinate a fallire. Sono già tre le
aziende della Euroingro che hanno già ceduto e firmato di accordi 8×5 con il
sindacato. Con le altre due, sono riprese le trattative”.
Il sindacato di base lancia con l’occasione la fiaccolata del 30 novembre “per
ricordare gli operai che hanno perso la vita nel rogo del Teresa moda. Nella
notte tra il 30 e 1 dicembre 2013 Prato a fatto i conti con le più gravi
conseguenze dello sfruttamento: la morte. A 12 anni da quell’evento dove 7
lavoratori cinesi persero la vita, c’è ancora chi prova a difendere il suo
diritto a sfruttare. Ma oggi c’è anche una comunità in lotta che vuole difendere
i diritti di tutti i lavoratori e le lavoratrici”.
L'articolo Ancora un’aggressione ai danni di lavoratori in sciopero a Prato:
“Hanno cercato di investire un’attivista” – Video proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il Tribunale di Prato ha assolto con formula piena Mario Cusimano, il tecnico
manutentore che era accusato di omicidio colposo e rimozione dolosa delle
cautele anti-infortunistiche nel procedimento sulla morte di Luana D’Orazio,
l’operaia 21enne che aveva perso la vita il 3 maggio 2021 mentre lavorava
all’interno dell’Orditura Luana di via Garigliano, a Montemurlo (Prato). Mario
Cusimano si è sempre proclamato innocente e anche per questo, a differenza dei
titolari di fatto e di diritto dell’Orditura Luana, Daniele Faggi e Luana
Coppini, che hanno patteggiato rispettivamente due condanne a un anno e sei mesi
e due anni di reclusione (con la sospensione condizionale della pena), lui ha
scelto di farsi processare col rito ordinario. Il pubblico ministero Vincenzo
Nitti aveva chiesto una condanna a due anni e otto mesi di reclusione.
Secondo gli accertamenti effettuati dal consulente nominato dagli inquirenti
all’epoca delle indagine, l’ingegner Carlo Gini, l’orditoio per la campionatura
al quale lavorava Luana D’Orazio aveva i dispositivi di sicurezza disattivati.
L’incidente sarebbe avvenuto mentre il macchinario viaggiava ad alta velocità,
una fase in cui le saracinesche di protezione dovrebbero rimanere abbassate. Ma
non solo. Lo stesso macchinario era utilizzato in maniera non conforme.
La 22enne, infatti, secondo la perizia, rimase agganciata a una sbarra che
sporgeva più del dovuto rispetto a quanto stabilito dal costruttore. Trascinata
dentro al motore, tirata per la maglia, il corpo di D’Orazio girò per due volte
“in un abbraccio mortale”, come scrisse Gini nella perizia. Dopo 7 secondi il
compagno di lavoro intervenne spegnendo il macchinario. La giovane donna a quel
punto era già morta a causa dello “schiacciamento del torace”. Il blocco del
cancello di sicurezza dell’orditoio di D’Orazio, mamma di un bambino di 5 anni,
avrebbe fruttato l’8% di produzione in più rispetto a un macchinario con il
dispositivo di sicurezza integro. Una percentuale che però, secondo
l’approfondimento disposto dalla procura di Prato, non avrebbe fruttato “alcun
guadagno per l’azienda”, essendo quello un macchinario da campionatura.
L'articolo Luana D’Orazio, assolto il tecnico manutentore. Era accusato di
omicidio colposo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Una nuova aggressione a un picchetto di lavoratori in sciopero a Prato, al
centro distribuzione Euroningro, al Macrolotto 1. Stavolta a farne le spese sono
stati due poliziotti della Digos, feriti mentre cercavano di frapporsi tra gli
aggressori, un gruppo di oltre una ventina di persone dei nazionalità cinese, e
i manifestanti, operai pakistani assistiti dal sindacato di base Sudd Cobas.
“Siamo stati attaccati da una trentina di persone, tra cui tra cui erano
riconoscibili alcuni padroni delle aziende interne alla Euroingro – si legge in
una nota diramata dal sindacato – Anche le forze dell’ordine presenti sono state
aggredite, una agente scaraventata a terra. Due persone sono state portate via
dalle forze dell’ordine. Tutto è avvenuto anche sotto gli occhi dei media, che
avevamo convocato alla Euroingro per una conferenza stampa. Oggi gli sfruttatori
hanno deciso di sfidare tutto e tutti, per rivendicare un loro presunto diritto
a sfruttare indisturbati e senza proteste, di poter continuare a tenere
lavoratori a nero e costringerli a lavorare 12 ore al giorno per 7 giorni alla
settimana”.
Dietro la Euroningro, segnala ancora Sudd Cobas, ci sarebbero alcuni degli
imprenditori già coinvolti in un precedente simile, legato all’azienda
Textprint: “Chi c’è a capo della Euroingro? Da visura tra i consiglieri delegati
troviamo ancora Zhang Sang Yu, detto Valerio, titolare di fatto della Texprint”.
Uno dei lavoratori in sciopero, Hassan, ha testimoniato di essere stato
“costretto a stare rinchiuso in un container per dieci ore, senza acqua e cibo,
il tutto in occasione di un controllo”. Sul caso ha diramato una nota anche la
Procura di Prato, guidata dal procuratore Luca Tescaroli, che ha comunicato il
fermo di tre cittadini cinesi coinvolti nell’aggressione. Le accuse dei pm sono
di lesioni a pubblico ufficiale e resistenza.
L'articolo Prato, cittadini cinesi aggrediscono gli operai durante uno sciopero:
feriti due poliziotti della Digos | Il video proviene da Il Fatto Quotidiano.