Estorsione, usura, associazione mafiosa e truffa ai danni dello Stato. Sono
alcune delle accuse con le quali il giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Lecce Alberto Maritati ha emesso 13 arresti in carcere e un’altra
misura di custodia cautelare, eseguite dai carabinieri di Brindisi nella stessa
provincia e in quelle di Lecce e Chieti, nei confronti di altrettanti soggetti
ritenuti affiliati al clan della Sacra corona unita “Pasimeni-Vitale-Vicentino”,
egemone nella città di Mesagne, dove l’associazione mafiosa pugliese affonda le
sue radici.
Nell’inchiesta della pm antimafia di Lecce, Carmen Ruggiero, sono contestati, a
vario titolo, anche i reati di concorso esterno, lesioni personali, detenzione
d’armi da sparo e associazione a delinquere finalizzata al traffico di
stupefacenti. Il giudice ha anche disposto il sequestro di un immobile e di
un’attività commerciale – per un valore di circa 600mila euro – che sarebbe
servita come base logistica e operativa del clan. Tra gli arrestati figura
Daniele Vicientino, detto “Il Professore”, volto storico della Scu mesagnese.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, a impartire gli ordini ai presunti
capi dei sottogruppi sarebbe stato il capo dell’organizzazione direttamente dal
carcere. Le indagini sono partite dal Nucleo Investigativo brindisino tra il
giugno 2020 e il giugno 2022, a seguito del ritorno in libertà di uno dei
presunti leader dell’organizzazione, Tobia Parisi. Stando all’inchiesta, anche
durante il tempo della sua detenzione, sarebbe rimasta pervasiva l’attività del
clan nel territorio interessato, in parte grazie all’aiuto di un soggetto
semi-esterno, operante sul territorio brindisino e al centro di un’altra
indagine della Procura e Squadra Mobile di Brindisi.
L’organizzazione dell’associazione – dalla ricostruzione – sarebbe stata questa:
il capo impartiva direttive dal carcere al nipote, presente nel territorio e
portavoce “ufficiale”. Il clan si sostentava in parte attraverso un codificato
sistema di estorsioni: riscosso il “punto” o “pensiero” dagli spacciatori
nell’area, cioè una sorta di tangente sugli stupefacenti smerciati, i fondi
venivano utilizzati per mantenere il boss e gli affiliati in cella e per
assicurare supporto economico alle loro famiglie. L’organizzazione era dedita
anche all’usura, concedendo prestiti a tassi altissimi, e al riciclaggio di
denaro attraverso reti di scommesse in canali non autorizzati.
Tutto ciò sarebbe stato accompagnato da metodi – chiaramente – non accomodanti:
pestaggi, estorsioni armate ai danni di imprenditori e commercianti e violente
intimidazioni sarebbero solo alcuni dei soprusi scoperchiati dall’indagine.
Sarebbero stati forti anche i rapporti con i capi di altri gruppi della
cosiddetta frangia dei “mesagnesi” e altri leader della Sacra Corona. I vari
vertici concordavano strategie comuni per la gestione di alcuni illeciti,
mantenendo separate le rispettive sfere di competenza territoriale.
L'articolo Brindisi, colpo alla Scu: 13 arresti, nel mirino il clan
Pasimeni-Vitale-Vicentino proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Antimafia
“Il carabiniere Walter Giustini non ha fatto indagini su Stefano Delle Chiaie,
ma si è limitato a riferire le dichiarazioni di Maria Romeo”. A sostenerlo è
Sonia Battagliese, avvocato del militare, attualmente sotto processo a
Caltanissetta con l’accusa di aver depistato le indagini sulle stragi di Capaci
e via d’Amelio. La legale ha contattato Il Fatto dopo aver appreso delle
dichiarazioni di Salvatore De Luca, procuratore capo della città nissena, in
commissione Antimafia.
A proposito dell’indagine sul ruolo dell’eversione di destra nelle stragi, il
magistrato ha detto di considerare “singolare che si insista su un certo filone
legato alla pista nera. Mi riferisco alla pista di Stefano Delle Chiaie a
seguito delle dichiarazioni rese da Maria Romeo e anche dal luogotenente Walter
Giustini“. E ancora ha ribadito: “Dalle dichiarazioni di Romeo e Giustini e
dalle presunte dichiarazioni del collaboratore Alberto Lo Cicero, che non ci
sono mai state, viene fuori una pista che giudiziariamente vale zero tagliato.
Ripeto: zero tagliato“.
Parole che hanno provocato la reazione della legale del carabinieri. “Prendo
atto di quanto dichiarato dal procuratore De Luca in commissione Antimafia, ma
preciso che il mio cliente, il luogotenente Walter Giustini, non ha mai condotto
alcuna indagine su Stefano Delle Chiaie“, dice l’avvocato Battagliese. “Il 9
maggio del 2022 – prosegue – si è limitato a riferire all’autorità giudiziaria,
cioè allo stesso dottor De Luca, quanto appreso su Delle Chiaie dalla signora
Maria Romeo“.
La questione è complessa e gira attorno al collaboratore di giustizia Alberto Lo
Cicero, autista di Mariano Tullio Troia, boss di Cosa Nostra e simpatizzante
dell’estrema destra noto come ‘u Mussolini. Oggi deceduto, Lo Cicero era
sentimentalmente legato a Maria Romeo, sorella di Domenico, autista di Stefano
Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale. A gestire Lo Cicero quando era
ancora solo un confidente fu proprio Giustini. Interrogato a Caltanissetta il 9
maggio del 2022, il carabiniere raccontò di aver saputo da Lo Cicero in una fase
“antecedente alla strage di Capaci” che Salvatore Biondino era l’autista del
capo dei capi, Totò Riina. Informazioni che Giustini avrebbe poi riportato ai
suoi superiori, cioè i capitani Marco Minicucci e Giovanni Arcangioli, ma anche
al sostituto procuratore Vittorio Teresi.
I racconti di Lo Cicero, ha sostenuto il carabiniere, avrebbero anticipato di
mesi i racconti di Baldassare Di Maggio e avrebbero potuto portare all’arresto
di Riina prima delle stragi. Fu sempre Lo Cicero a parlare di Delle Chiaie? “Non
lui, ma la Romeo ci ha citato i rapporti tra Delle Chiaie e il fratello. Però in
maniera estemporanea. Ci portò delle foto del fratello e Delle Chiaie mi sembra
fosse però un convegno”, ha dichiarato il carabiniere, intervistato da Marco
Lillo sul Fatto Quotidiano nel maggio del 2022. La procura di Caltanissetta,
però, non ha creduto né a Giustini e neanche a Maria Romeo, chiedendo e
ottenendo di processare entrambi per false informazioni ai pm. Il gip Santi
Bologna parla di “reiterate condotte depistanti mediante dichiarazioni false o
calunniose” per “creare una vera e propria cortina fumogena volta a spostare
l’interesse degli inquirenti dall’originario focus investigativo”. L’avvocato
Battagliese, però, puntualizza: “Vedremo come si concluderà il processo, però
devo puntualizzare che il mio assistito non ha mai compiuto indagini dirette o
rilasciato dichiarazioni relative a un ruolo di Delle Chiaie nelle stragi. Tra
l’altro è una pista che non ha mai acceso l’interesse degli inquirenti né
all’epoca dei fatti e neanche oggi”.
L'articolo “Il carabiniere Giustini non ha mai indagato sul ruolo di Delle
Chiaie e le stragi” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Maxi-operazione contro i clan mafiosi e il narcotraffico a Palermo. L’inchiesta
– coordinata dalla Dda del capoluogo siciliano guidata dal procuratore Maurizio
de Lucia – ha fatto luce su un vasto traffico di stupefacenti e ha svelato i
nuovi organigrammi di uno dei principali mandamenti mafiosi della città.
50 MISURE CAUTELARI
Eseguite dalla polizia misure cautelari nei confronti di 50 persone: sono
accusate, a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, intestazione
fittizia di beni, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti
e spaccio. Per 19 di loro il gip ha disposto la custodia cautelare in carcere,
per 6 gli arresti domiciliari mentre per gli altri 25 è stato emesso un
provvedimento di fermo. L’operazione ha visto impegnati oltre 350 agenti della
Polizia di Stato.
“STRETTO RAPPORTO TRA COSA NOSTRA E CAMORRA”
“È stato documentato un rapporto stretto tra i clan mafiosi di Palermo con un
clan della Camorra, da cui la mafia si riforniva per la droga”, ha detto il
procuratore aggiunto di Palermo Vito Di Giorgio nel corso della conferenza
stampa: “Siamo in presenza di organizzazioni fortemente strutturate capaci di
commerciare ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti anche in periodi di
tempo molto brevi”, ha aggiunto. Al centro ci sono due diverse inchieste della
sezione Antidroga della Squadra Mobile, coordinate dalla Dda. Tra ottobre 2022 e
agosto 2023 sono state individuate due le bande di narcos: una faceva base a
Palermo ed era caratterizzato da rapporti molto forti tra gli affiliati legati
da vincoli di parentela: l’altra, invece, operava in Campania e forniva la merce
ai siciliani. Alcuni componenti della banda campana tenevano rapporti con i
palermitani e trattavano anche per conto di un clan camorrista che ha riversato
importati quantitativi di droga non soltanto nella provincia di Palermo, ma
anche in quella di Catania. La seconda indagine dell’Antidroga ha portato alla
scoperta di una cellula criminale palermitana che ha organizzato un grosso
traffico di cocaina, hashish e marijuana tra Palermo e Trapani. La droga sarebbe
arrivata dalla zona di Marsala. Gli indagati apparterrebbero ad ambienti
criminali di rilevante caratura e già indagati per mafia: prova del ruolo svolto
dalle “famiglie” di Cosa nostra nell’approvvigionamento e nello smercio degli
stupefacenti. “Nel corso delle investigazioni, inoltre, sono stati messi a segno
sequestri per un totale di circa due quintali e mezzo di hashish e quattro
chilogrammi di cocaina, con conseguente arresto in flagranza di dodici persone”.
IL MANDAMENTO DELLA NOCE TRA VECCHI E NUOVI BOSS
Il maxiblitz di oggi “dimostra che Cosa nostra è tutt’altro che sconfitta” ha
detto il Procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia nel corso della
conferenza stampa. L’operazione ha colpito anche il mandamento mafioso
palermitano della Noce. L’indagine ha permesso di ricostruire posizioni e ruoli
nelle famiglie mafiose di Noce, Cruillas ed Altarello, e di ricostruire le
attività illecite nel territorio. Il vuoto di potere, generato dagli ultimi
arresti, avrebbe dato spazio a nuovi personaggi intenzionati a scalare le
posizioni di vertice del clan. Oltre agli aspiranti boss nel mirino degli
investigatori sono finiti nomi noti con curricula di tutto rispetto all’interno
di Cosa nostra. Tra loro un anziano boss, in grado di decidere le strategie del
clan. Identificato anche il nuovo capo del mandamento che avrebbe preso il
comando in virtù della sua parentela con un ex reggente: “In linea di continuità
familiare ad una trascorsa gestione, poiché risulta essere imparentato con un
già ‘reggente’, oggi in carcere”. Nelle casse delle cosche – ha accertato
l’indagine – continuano a finire i soldi delle estorsioni: sei quelle messe a
segno a carico di negozi e attività imprenditoriali della zona.
IL CANALE TELEGRAM CON LA FOTO DI SCARFACE
È stata scoperta anche una centrale di smercio virtuale, creata grazie ad un
canale Telegram e ritenuta più sicura dalla banda. Per accreditarsi e far capire
nel settore che i leader erano loro usavano sul profilo aperto sul canale la
foto di Al Pacino nel ruolo di Tony Montana nel film Scarface, dicono gli
investigatori. Gli indagati annotavano scrupolosamente in un “libro mastro” i
soldi incassati col narcotraffico: una contabilità precisa con tanto di appunti
sul tipo di stupefacenti, sui pagamenti delle partite di droga e sui compensi
settimanali di tutti gli associati. Materiale prezioso per gli investigatori.
L'articolo Maxi-operazione antimafia a Palermo, 50 misure cautelari: “Nel
traffico di droga rapporti stretti Cosa nostra-Camorra” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
C’è il caso limite del Comune di Marano, 57 mila abitanti in provincia di
Napoli, che è stato sciolto per condizionamento mafioso ben cinque volte, di cui
tre negli ultimi nove anni. Ma sono tante le amministrazioni locali su cui la
scure della legge varata nel 1991 si è abbattuta a ripetizione. Ventidue Comuni
italiani sono stati sciolti tre volte, per esempio San Luca, paese aspromontano
considerato la culla della ‘ndrangheta, ma che fa 3300 abitanti, certo non tutti
mafiosi o complici. E sono ben 60 quelli sciolti due volte, fra i quali Casal di
Principe, Caivano, Nettuno… Numeri che suonano come un campanello d’allarme: il
commissariamento per mafia funziona davvero, se così spesso si riparte da zero?
Lo Stato può cancellare con un colpo di spugna un risultato elettorale, può
mandare a casa sindaco, giunta, e tutti i consiglieri comunali, di maggioranza e
di opposizione, collusi e no, se poi non riesce a garantire una svolta nel segno
della legalità? Proprio a San Luca, al commissariamento per mafia si è aggiunto
quello per la mancata presentazione di liste elettorali. Non si rischia di
allontanare ulteriormente i cittadini dalla politica?
Sono le domande che si pone Avviso pubblico, la rete degli enti locali contro le
mafie e la corruzione, che ha presentato a Roma oggi, martedì 2 dicembre, il
dossier Il male in Comune, ricco di dati e proposte per rendere più efficace
questa legge-bandiera del movimento antimafia. Dal 2 agosto 1991 al 30 settembre
2025 sono stati 402 gli scioglimenti di enti locali per infiltrazioni mafiose
decisi dal Consiglio dei Ministri e promulgati da decreti del Presidente della
Repubblica: in media uno al mese, per 34 anni. Tenendo conto dei citati
scioglimenti plurimi, sono stati colpiti 288 Comuni e 6 Aziende sanitarie
provinciali. Solo in 24 casi i giudici del Tar e del Consiglio di Stato hanno
annullato il provvedimento.
Altra nota dolente: ben 62 sindaci di Comuni sciolti sono tornati trionfalmente
sulla poltrona alle consultazioni successive: 31 di nuovo come sindaci, 29 come
consiglieri comunali, due come assessori. C’è poi un dato curioso. Indovinate
quali governi hanno “sciolto” di più, anche in relazione alla loro durata?
Quelli di Gentiloni e Monti, sostenuti da maggioranze trasversali. A proposito:
sull’insieme dei Comuni che hanno subito il provvedimento, il 50% era retto da
maggioranze civiche, il 28% dal centrodestra e il 22% dal centrosinistra.
Gli scioglimenti per mafia non fanno quasi più notizia, salvo qualche sussulto
quando toccano il Nord. Ma il 96% dei casi riguarda le quattro regioni d’origine
delle mafie tradizionali: Calabria, Sicilia, Campania e Puglia. E due terzi sono
concentrati in cinque sole province: Reggio Calabria, Napoli, Caserta, Palermo e
Vibo Valentia. Raramente la politica nazionale si scalda. È successo nel 2024
con Bari, quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi insediò una
commissione d’accesso, a seguito di un’indagine antimafia, tre mesi prima del
voto amministrativo che vedeva favorito il centrosinistra (la cosa è finita in
nulla, quasi un anno dopo).
E su quello che succede al termine del commissariamento, di solito cala il
silenzio. “Nel caso dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria lo
scioglimento è stato inutile, in entrambe le occasioni, perché le commissioni
hanno solamente gestito il giornaliero, l’ordinario”, è la testimonianza di
Santo Gioffrè, medico e politico che nel 2015 è stato nominato commissario
straordinario dell’ente. “La situazione che hanno lasciato dopo i due
scioglimenti è rimasta immutata. Il rischio è che il commissariamento assomigli
a una foglia di fico, che non si risolve nessuna delle problematiche
strutturali. È un problema che si riscontra anche con alcuni Comuni”.
“Uno dei tratti ricorrenti in tutti i Decreti di scioglimento e nelle Relazioni
prefettizie analizzate sono le forme di sostegno elettorale da parte di
esponenti della criminalità organizzata“, si legge nel dossier. Qualche esempio?
Ad Aprilia (Latina) “tra i sottoscrittori delle liste figurano esponenti di
famiglie mafiose”; a Quindici (Avellino) è stato costruito “un sistema
fraudolento di false dichiarazioni di residenza per garantire il successo
elettorale”. Stando alle relazioni finali delle commissioni d’accesso, i settori
più condizionati dalle mafie sono gli appalti, la gestione del patrimonio
pubblico, l’urbanistica, il (mancato) contrasto all’abusivismo edilizio.
I motivi per “sciogliere” non mancano, ma secondo Avviso pubblico (e non solo,
vedi MillenniuM n. 95) è ora di mettere mano a una sostanziosa riforma. Del
resto, in quel lontano 1991 quella legge fu varata “di fretta perché, fu la
risposta emergenziale che il Governo dell’epoca diede alla cosiddetta ‘faida di
Taurianova‘”, scrive il sociologo Vittorio Mete. Al culmine della guerra fra due
‘ndrine rivali del paese in provincia di Reggio Calabria, una delle vittime finì
decapitata nella piazza principale. La storia fece il giro del mondo, anche
perché i giornali dell’epoca raccontarono che la testa mozzata venne lanciata in
aria e bersagliata di colpi in un macabro tiro a segno.
Quando emerse che uno dei boss ammazzati era consigliere comunale della
Democrazia cristiana, ecco la corsa ad approvare la nuova normativa. Che,
secondo Mete, “non dà gli strumenti necessari per adempiere alla promessa di
ripristinare la legalità e scacciare dal Comune i mafiosi e altri affaristi. Una
commissione straordinaria – che a dispetto del nome che porta non ha più poteri
di quelli ordinariamente assegnati al Consiglio, alla Giunta e al Sindaco – e
che resta in carica al massimo per un paio di anni, fa quel che può”. Un
“provvedimento tampone” che può avere un’efficacia immediata contro
l’infiltrazione mafiosa, “ma arranca quando si tratta di metter mano alle sue
cause”, chiarisce lo studioso. Così succede che “commissaria oggi, commissaria
domani” i cittadini si stufino e dicano in sostanza: “Governate voi che avete il
bollino dello Stato e lasciateci in pace”. Come a San Luca.
Il dossier, curato da Claudio Forleo e Marco De Pasquale dell’Osservatorio
Parlamentare di Avviso pubblico, raccoglie numerose proposte di riforma. Per
esempio, introdurre la possibilità di licenziare i dipendenti comunali “dei
quali è stata acclarata chiaramente infedeltà e coinvolgimento grave”, scrive
Antonio Reppucci, prefetto e commissario straordinario proprio del Comune di San
Luca. I comuni commissariati per mafia sono spesso in dissesto finanziario, e
per marcare davvero la differenza fra il prima e il dopo lo Stato dovrebbe
fornire “risorse umane e finanziarie” eccezionali. Terminato il
commissariamento, sarebbe poi utile un monitoraggio in collaborazione fra
prefettura, forze di polizia e i nuovi organismi politici eletti.
Altre proposte vanno da una riorganizzazione dei tempi dell’intervento, per non
lasciare un comune per tre mesi nell’incertezza se sarà sciolto o meno, a una
migliore selezione del personale prefettizio, oggi attuata con “criteri
burocratici”, scrivono i giuristi amministrativi Renato Rolli e Dario Samarro,
mentre potrebbe avvenire pescando “da un albo nazionale di commissari
specializzati”, con “competenze specifiche nel contrasto alla criminalità
organizzata”. Il dossier sottolinea infine che i documenti relativi allo
scioglimento e al lavoro dei commissari prefettizi sono riservati. Rendere
pubblici, per quanto possibile, i problemi più seri incontrati nella macchina
comunale e le soluzioni adottate rinsalderebbe il rapporto coi cittadini. Che
spesso vedono i commissari come corpi estranei.
L'articolo Comuni sciolti per mafia, una legge da riformare: “Licenziare i
dipendenti collusi, informare di più i cittadini” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Se da un lato non mancano figure ecclesiastiche che hanno ceduto alla paura o
al compromesso, dall’altro ci sono sacerdoti che, vivendo il Vangelo fino in
fondo, hanno interferito con gli affari e le logiche di potere delle mafie,
pagando talvolta con la vita la loro fedeltà alla giustizia”. A parlare è don
Marcello Cozzi, sacerdote lucano che, impegnato da sempre nella difesa dei più
fragili e nella denuncia delle ingiustizie, ha fatto della sua missione un
cammino dentro le zone d’ombra della società. Nel suo libro Non interferite. Il
sangue dei preti sull’altare delle mafie (Edizioni San Paolo) racchiude le
storie di sacerdoti che non hanno avuto paura della criminalità organizzata,
invitando tutti a non restare indifferenti dinanzi al male che cerca di
infiltrarsi nei luoghi della fede e della vita civile.
Don Cozzi, cosa le ha fatto sentire l’urgenza di scrivere questo libro?
Innanzitutto, la necessità di ricordare che don Pino Puglisi e don Peppe Diana
non sono stati gli unici preti ad essere stati ammazzati dalle mafie, ma anche
tanti altri, dei quali non si conoscono i nomi e le storie. Quindi ci ho tenuto
a restituire dignità a tutti quei preti invisibili che lottano contro le mafie
e, in questa guerra, ci hanno rimesso la vita, non ricordati da nessuno. In tal
modo attesto che c’è sempre stata anche una Chiesa martire, simbolo di quella
foresta che cresce in silenzio a dispetto del rumore di un albero che cade.
Il rapporto tra Chiesa e mafia ha origini fortemente radicate nel passato?
È una storia antica di connivenze, ma anche di contrasti. Affonda le sue radici
nell’antichità stessa del fenomeno mafioso, non solo per la necessità che da
sempre le organizzazioni criminali hanno avuto di accreditarsi anche
culturalmente e religiosamente presso la Chiesa, ma anche per il controllo che
hanno voluto esercitare su di essa, come su ogni altra dimensione della società.
Questi sacerdoti che, sin dall’Ottocento, hanno combattuto contro ogni forma di
mafia – e a causa del loro impegno e del loro rifiuto di ogni compromesso sono
stati ammazzati – hanno rappresentato una sorta di guida per il suo cammino
sacerdotale?
Indubbiamente le storie di don Puglisi e don Diana, nel mio percorso
ecclesiastico, hanno rappresentato un importante punto di riferimento. Però,
quando ho iniziato ad approfondire le storie di questi preti che, già secoli
prima, lottavano contro la prepotenza criminale e mafiosa per difendere poveri e
oppressi di vario tipo, è come se fossi stato travolto da una montagna di
testimonianze sacerdotali che, indubbiamente, mi hanno arricchito non solo per
il loro impegno, ma anche per la loro profonda spiritualità.
Ha deciso di ripercorrere le loro battaglie per celebrarli giustamente, ma anche
per ricordare alle nuove generazioni qual è la strada della giustizia da
intraprendere, per mostrare vite da emulare?
Indubbiamente sì, urge diffondere la cultura della legalità e della solidarietà
tra i giovani. Ma non nascondo che mi piacerebbe far conoscere queste storie
anche all’interno del mondo ecclesiale, per dimostrare che non esistono preti
antimafia. Sono preti e basta, come diceva don Puglisi, che hanno semplicemente
vissuto e annunciato il Vangelo della liberazione dall’oppressione mafiosa, e
per questa interferenza sono stati ammazzati.
Nel suo piccolo sente di aver raccolto il loro testimone?
Non spetta a me dirlo, però finora ho vissuto il Vangelo come impegno al fianco
delle persone svantaggiate, quindi sento di far parte della stessa grande storia
che mira ad annunciare la liberazione. Qui in Basilicata la presenza mafiosa non
si percepisce nel modo più convenzionale, quindi è più complesso l’impegno per
l’affermazione della giustizia.
Qual è stato l’avvenimento che ha avviato questo suo impegno?
In particolar modo, l’incontro, nel 1991, con una ragazza che si faceva di
eroina. Un giorno, raccontandosi, mi mise per iscritto l’organigramma di chi le
procurava la droga, le piazze di spaccio, i nomi di chi stava all’apice. In quel
momento ho capito che non potevo approcciarmi al problema della
tossicodipendenza solo dal punto di vista del disagio sociale, dovevo mettere
mano a quella macchina nascosta che speculava sulla fragilità di tanti giovani.
La droga era ed è un business di mafia, non potevo voltarmi dall’altra parte.
In quello stesso anno, quando era prete da meno di un anno, incontrò anche una
vittima di usura.
Sono certo che il Padreterno, attraverso certi incontri, ci indichi la rotta. Ai
tempi non sapevo niente di usura, ma percepii subito che quella persona non era
libera, viveva oppressa dai debiti e strangolata da chi approfittava della sua
condizione di fragilità. Sentii che quella persona mi apparteneva e con lei
tutti quelli che vivevano quella schiavitù.
Per tale motivo, anni dopo, ha fondato la Fondazione antiusura “Interesse uomo”?
In seguito a quell’incontro e ad altre storie simili, in collaborazione con la
Provincia di Potenza, nel 2002, costituii questa fondazione che, attraverso
sportelli attivi in tutta Italia, aiuta economicamente coloro che non hanno più
accesso al credito ordinario – soprattutto imprenditori e commercianti –
evitando che finiscano nella morsa degli usurai.
Volge lo sguardo anche all’educazione alla legalità, infatti ha fondato e guida
l’Istituto di ricerca e formazione interdisciplinare sulle mafie. Qual è il suo
obiettivo?
L’Irfi è nato due anni fa, con la benedizione del cardinale Mimmo Battaglia, con
l’intento di aiutare le nostre Chiese, particolarmente nel Sud Italia, ad
affrontare i fenomeni mafiosi. Non si tratta solo di avviare ricerche sul
rapporto tra Vangelo e religiosità mafiosa, ma creiamo anche strategie pastorali
affinché, in certi contesti particolarmente aggrediti dalla presenza mafiosa, le
comunità parrocchiali e gli stessi preti possano essere sostenuti.
È impegnato anche nell’accompagnamento spirituale dei collaboratori di
giustizia. Com’è iniziato questo percorso?
Nel 2000, ricevetti una telefonata dalla compagna di un collaboratore di
giustizia che voleva parlarmi, da lì è partito questo mio delicato impegno. In
questi anni avrò incontrato più di un centinaio di collaboratori di giustizia,
tutte storie diverse, segnate da violenza e morte. Per me è importante che
questi accompagnamenti siano un incontro tra umanità, non per mettere la
bandierina della redenzione a un peccatore incallito che mi chiama per essere
confessato. Ho imparato ad ascoltare e a non fermarmi alla superficie, con la
consapevolezza di avere davanti una persona che, nel ridurre a brandelli
l’umanità di altri, ha distrutto anche la propria. Sono sempre più convinto che,
per rendere efficace la lotta alla mafia, bisogna scendere in quell’inferno,
parlare con il suo ventre molle, incontrare queste persone normali che hanno
commesso azioni mostruose, senza mai smettere di chiedersi il motivo. Proprio
come feci con uno dei più noti pentiti, Giovanni Brusca.
Secondo la sua esperienza, cosa servirebbe per annientare l’”interferenza” tra
Chiesa e mafia e far prevalere la giustizia?
Una volta a un collaboratore di giustizia calabrese chiesi cosa, secondo lui,
avrebbe potuto fare la Chiesa per contrastare le mafie. Mi rispose che dobbiamo
parlarne di più, dobbiamo denunciare maggiormente, in quanto loro spesso hanno
approfittato dei nostri silenzi e a volte li hanno percepiti come consensi.
Dobbiamo uscire da certe ambiguità, andando nelle periferie. Credo che, oggi più
di prima, la Chiesa sia chiamata a stare qui, dove, come diceva Papa Francesco,
c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni.
L'articolo “Un pentito mi disse: la più grande arma contro la mafia? Parlatene
di più”: la Chiesa che si batte contro la criminalità nel libro di don Marcello
Cozzi proviene da Il Fatto Quotidiano.
A Bologna va in onda la seconda giornata del convegno sul Diritto alla Verità,
organizzato dal movimento delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino. “Il
diritto alla verità deve essere affermato a livello normativo”, ha detto il
fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio al Fatto Quotidiano. Dopo la
prima giornata segnata dagli interventi di Roberto Scarpinato, di Gaetano
Azzariti e della vicedirettrice del Fatto Quotidiano Maddalena Oliva (si possono
rivedere qui), all’interno della Sala Borsa si confronteranno avvocati come
Fabio Anselmo, magistrati come Luca Tescaroli, storici come Angelo Ventrone.
Alla fine della giornata, l’intervento dei familiari delle vittime della mafia e
terrorismo e dell’avvocato Fabio Repici. Il convegno gode del patrocinio del
comune di Bologna. Trasmettiamo in diretta la seconda giornata dell’evento.
DOMENICA 30 NOVEMBRE 2025
ore 9.30 – Avvocati – Coordinatore Fabio Repici (Avvocato):
* Fabio Anselmo – Avvocato;
* Giancarlo Maniga – Avvocato;
* Ettore Zanoni – Avvocato.
ore 11.30 – Magistrati – Coordinatrice Elena Marchili (Magistrato Ordinario in
Tirocinio):
* Roberto Giovanni Conti – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Giuseppe Gennari – Giudice presso il Tribunale di Milano;
* Raffaello Magi – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Luca Tescaroli – Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato.
ore 13.30 – pausa pranzo
ore 15.30 – Storici – Coordinatrice Antonella Beccaria (Giornalista e Storica):
* Davide Conti – Storico e consulente della procura di Bologna e di Brescia;
* Antonella Salomoni – Professoressa ordinaria di Storia della Shoah e dei
genocidi presso l’Università di Bologna;
* Angelo Ventrone – Professore ordinario di Storia contemporanea presso
l’Università di Macerata;
* Cinzia Venturoli – Professoressa a contratto di Storia contemporanea presso
l’Università di Bologna.
ore 17.30: intervento di Daniela Marcone – Vicepresidente di Libera
ore 17.40 – Familiari delle vittime – Coordinatore Nino Morana (nipote di Nino
Agostino):
* Sergio Amato – Figlio del Magistrato Mario Amato;
* Salvatore Borsellino – Fratello del Giudice Paolo Borsellino e Fondatore del
Movimento Agende Rosse;
* Daniele Gabbrielli – Vice-presidente dell’Associazione tra i familiari delle
vittime della strage di via dei Georgofili;
* Sonia Zanotti – Sopravvissuta alla strage di Bologna.
Fabio Repici – Proposte conclusive e progetto normativo all’esito del confronto
e delle idee raccolte
Salvatore Borsellino – Conclusioni del convegno e messaggio alla società e alle
istituzioni
L'articolo Diritto alla verità, la diretta tv del convegno delle Agende rosse di
Borsellino con Anselmo, Tescaroli e Repici proviene da Il Fatto Quotidiano.
Ribellarsi alla violenza praticata dagli uomini sulle donne è un modo per
continuare anche la lotta contro mafie e mafiosi. Un modo necessario. Quante
donne in Italia hanno pagato con la vita la violenza dei mafiosi? Quante hanno
condotto una resistenza impressionante per contrastarla? Basterebbe evocare le
storie di Franca Viola, che rifiutò il “matrimonio riparatore” dopo aver subito
lo stupro da parte del boss che non poteva accettare il suo “no”, di Lea
Garofalo, assassinata dall’ex marito aiutato dal branco ubbidiente, di Rita
Atria, il cui corpo venne portato in spalla soltanto dalle “donne in nero”
arrivate da Palermo per rendere onore ad una vita maledetta due volte dalla
gogna mafiosa.
Eppure questa odiosa declinazione della violenza maschile ha goduto per molto
tempo delle stesse “coperture” culturali di cui ha goduto la mafia in quanto
tale: specchio fedele di un Paese che fa fatica a scegliere la dignità della
persona come valore incomprimibile del proprio patto sociale. Ma in cambio di
cosa? Di una supposta idea di “ordine” pubblico. Una idea aberrante che passa
per la rassegnazione, dichiarata o implicita, alla violenza come unico possibile
collante: una società tenuta insieme dalla “forza di intimidazione del vincolo
associativo” che general omertà ed assoggettamento.
Reagire a questa rassegnazione significa contemporaneamente contrastare con
successo tanto la presa che le mafie ed i mafiosi hanno ancora su tanta umanità
nel nostro Paese, quanto la prepotenza dei maschi letali di cui continuiamo a
leggere sgomenti. Purtroppo le destre illiberali e spesso neo fasciste che
governano l’Italia e dilagano in tanta parte d’Europa e d’America sono parte del
problema e non della soluzione. Lo sono perché fondano il proprio successo
elettorale precisamente sulla “rassegnazione”: la rassegnazione al fallimento
dello Stato di diritto e quindi delle regole come strumento di presidio di
dignità, di libertà e di giustizia. Le destre vincono trasmettendo come un
mantra la loro ricetta disperata: si salvi chi può! Perché non sarà lo Stato a
farlo.
Le prove? La “pace fiscale” ovvero l’impunità per chi evade o, meglio, elude il
pagamento delle tasse, prima manifestazione di quegli “obblighi inderogabili di
solidarietà” di cui all’articolo 4 della nostra Costituzione. I condoni edilizi
ovvero l’impunità per chi si fa i fatti propri disprezzando le regole poste a
tutela del bene comune. L’abolizione del reato di abuso d’ufficio ovvero
l’impunità di chi approfitta della propria funzione pubblica per sistemare amici
o regolare conti.
L’attacco alla indipendenza della magistratura sia attraverso la “riforma”
costituzionale, premessa per il controllo dell’esercizio dell’azione penale da
parte del Governo, sia attraverso la mancata stabilizzazione dei 12.000 precari
della Giustizia, che sono serviti come l’aria. Un attacco che è in perfetta
sintonia con quello alla libertà di informazione, alla sanità pubblica, alla
scuola. La morale della favola è la stessa: ognuno faccia come può, lo Stato si
gira dall’altra parte.
In questa cornice si inseriscono le parole della ministra Roccella: l’educazione
sessuale non serve a niente. Quelle del ministro Nordio: la genetica maschile fa
resistenza alla parità tra i sessi. Quella del ministro Tajani: il diritto
internazionale serve, ma fino ad un certo punto. Le aggressioni mediatiche
contro i giudici che insistono nell’applicare le norme, anche quando queste
contraddicono la manifesta volontà di chi governa. Meglio se sono magistrate
donne, così che le aggressioni possano tingersi di rigurgiti sessisti: come nel
caso della giudice Iolanda Apostolico, della giudice Silvia Albano, della
giudice Cecilia Angrisano, ultima in ordine di tempo, colpevole di aver fatto
valere il preminente interesse dei minori in una situazione complessa che
avrebbe richiesto cautela e rispetto.
La rassegnazione alla ineluttabilità della realtà, la radicale sfiducia verso il
diritto e la cultura come fattori di cambiamento, sono da sempre alleate con le
forme più brutali di esercizio del potere e dunque con le manifestazioni più
odiose del patriarcato: dall’autoritarismo del fascismo alla ferocia mafiosa,
fino alla società della sorveglianza è tutta una storia di abusi, “cinghie” e
manganelli. Una storia alla quale con determinazione e fantasia continueremo ad
opporci, con il sorriso gentile di Franca Viola, che con un “no” ha strappato il
velo sudicio dell’ipocrisia italiana.
L'articolo Ribellarsi alla violenza degli uomini sulle donne è un modo anche per
lottare contro le mafie proviene da Il Fatto Quotidiano.
Utilizzare una piccola parte del denaro sottratto dallo Stato alla criminalità
“per cambiare volto ai beni confiscati” alle mafie e “rigenerare i territori
feriti dalla presenza mafiosa”. Con questa finalità è iniziata la nuova grande
mobilitazione di raccolta firme di Libera. L’iniziativa “Diamo linfa al bene”
prevede una firma su delle cartoline che saranno spedite a Palazzo Chigi per
chiedere al governo di destinare il 2% del Fondo Unico di Giustizia (FUG) “alla
crescita del bene comune: scuole, cooperative, comunità, futuro”. L’obiettivo è
proprio quello di aprire una vertenza pubblica e diretta verso il governo, per
rimettere al centro del discorso pubblico la consapevolezza che la lotta a
mafiosi e corrotti è un bene comune.
Il FUG è costituito dal denaro sequestrato e confiscato alle organizzazioni, un
fondo nato 30 anni fa con la legge 109/96. La mobilitazione è stata presentata a
Roma in occasione del “Forum Nazionale del riuso pubblico e sociale dei beni
confiscati” e si inserisce nell’ambito della campagna nazionale “Fame di verità
e giustizia” che da maggio prova a scaldare il dibattito pubblico per riscrivere
l’agenda politica della lotta alla mafia. Sarà possibile firmare le cartoline
online sul sito di Libera (qui il link), in molte piazze d’Italia e nelle sedi
fisiche dell’associazione.
“Trent’anni fa, con la legge 109/96, l’Italia ha scelto di restituire alla
collettività ciò che le mafie avevano sottratto. Da allora – commenta Francesca
Rispoli, copresidente di Libera – più di 1.200 esperienze di riuso sociale
raccontano un Paese che ha saputo reagire, trasformando luoghi criminali in
presìdi di democrazia, lavoro e inclusione. Con questa raccolta di cartoline,
un’azione concreta che parte dal basso, vogliamo dare linfa a tutte quelle
esperienze di rigenerazione che insieme abbiamo fatto partire e rilanciare le
pratiche di riuso sociale dei beni attraverso la destinazione di risorse
pubbliche che incentivino lo spirito della 109/96″. “Se anche solo una piccola
parte di queste risorse venisse messa al servizio delle realtà che gestiscono
beni confiscati, in maniera continuativa e stabile – conclude Rispoli – si
potrebbero sostenere esperienze di inclusione e coesione in tutta Italia,
facendo veramente cambiare volto ai patrimoni illeciti e rigenerando i territori
con un segnale forte contro mafie e corruzione”.
Primi firmatari della petizione sono stati don Luigi Ciotti e Francesca Rispoli
(presidenti nazionali di Libera), Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa
(presidenti onorari di Libera) e tanti familiari di vittime innocenti delle
mafie come: Margherita Asta, Cristina, Guido e Paola Caccia, Roberta Congiusta,
Marisa Diana, Mario Esposito, Marisa Fiorani, Stefania Grasso, Giovanni e Luisa
Impastato, Daniela Marcone, Dario e Luigi Montana, Matilde Montinaro, Bruno
Vallefuoco, Raffaella e Vincenzo Landieri, Paolo Siani, Lorenzo, Alessandra e
Francesco Clemente-Ruotolo.
In occasione del lancio dell’iniziativa, Libera ha anche presentato i dati sullo
stato dell’arte: sono 21.664 i beni immobili finora confiscati e già destinati
all’uso previsto dal Codice Antimafia, 21.626 quelli in gestione ma in attesa di
essere destinati. Più di 20mila beni (spesso da ristrutturare) sono in comuni
che non sempre hanno la possibilità di investire milioni di euro per renderli
riutilizzabili. Per quanto riguarda le esperienze di riutilizzo sociale sono
1.132 i soggetti diversi impegnati nella gestione di beni immobili confiscati,
ottenuti in concessione dagli Enti locali, in ben 18 regioni e in 398 comuni. La
regione con il maggior numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati
alle mafie è la Sicilia con 297 soggetti gestori, segue la Campania 186, la
Lombardia con 159 e la Calabria con 147.
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dei beni confiscati: Libera lancia “Diamo linfa al bene” proviene da Il Fatto
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