“Non ho presentato e non presenterò le dimissioni”. Il post pubblicato venerdì
su Telegram dal Procuratore generale Ruslan Kravchenko ha il tono
dell’avvertimento: “Conosco tutti coloro che stanno lavorando contro di me e
contro la procura. E’ inutile che vi nascondiate, verrò a prendervi di persona
uno a uno“. E’ solo l’ultima puntata dello scontro in atto tra la Procura
generale e l’Ufficio nazionale anticorruzione (Nabu) titolare dell’inchiesta
sulle tangenti per 100 milioni di dollari che ruota attorno a Timur Mindich, ex
socio del presidente Volodymyr Zelensky. Una minaccia lanciata nelle stesse ore
in cui dall’Ue è arrivata una nuova bocciatura sul modo in cui il governo
gestisce la lotta alle mazzette: Kiev deve proteggere la Nabu da “indebite
influenze” e nominare “in maniera più trasparente” il Procuratore generale.
Per capire cosa sta accadendo bisogna partire dai protagonisti e dalle date
della vicenda. Kravchenko, già procuratore militare e capo del Servizio Fiscale
Ucraino, viene nominato Procuratore generale su indicazione di Zelensky il 21
giugno 2025. In quel momento è già noto che la Nabu sta indagando su Oleksiy
Chernyshov, figura di primo piano dell’élite governativa, che il 23 giugno viene
formalmente accusato di essere stato corrotto con uno sconto da 297mila euro su
un immobile. Chernyshov è un pezzo grosso. Ministro dello Sviluppo delle
Comunità e dei Territori, è anche vicepremier ed è molto vicino a Zelensky: le
loro famiglie si frequentano, in una foto pubblicata dall’Ukrainska Pravda i due
si troverebbero insieme per le feste del Natale 2022.
Appena un mese dopo, il 21 luglio, Kravchenko invia i Servizi di sicurezza
interni (SBU) negli uffici della Nabu. L’operazione è senza precedenti, perché
quest’ultima non ricade sotto la giurisdizione della Procura generale ma è
un’agenzia indipendente, pilastro delle riforme anticorruzione chieste dall’Ue.
Gli agenti sequestrano materiale su diverse indagini e arrestano due
investigatori: Ruslan Maghamedrasulov e Viktor Husarov. Il primo è un nome
importante perché è il capo dell’unità investigativa dell’ente. “L’alto
funzionario – rende noto l’SBU su Telegram – (…) ha agito come intermediario
nella vendita di lotti di canapa industriale di suo padre alla Federazione
Russa. Sono inoltre in corso verifiche relative ai contatti di Maghamedrasulov
con i servizi segreti russi e al trasferimento di informazioni segrete a questi
ultimi”. Un traditore, insomma, che merita la galera. Ciò che il 21 luglio gli
ucraini ancora non sanno è che Maghamedrasulov aveva avuto un ruolo centrale
nell’inchiesta “Midas”, come confermato dalla stessa Nabu a novembre quando
l’indagine viene alla luce. Ventiquattro ore dopo, il 22 luglio, Zelensky firma
una legge che mette la Nabu sotto la giurisdizione del Procuratore generale, ma
minacciando il taglio di diversi programmi di finanziamento l’Ue gli fa fare
dietrofront.
Il 3 dicembre l’aria per Kravcenko inizia a cambiare. La Corte d’Appello di Kiev
dispone la scarcerazione di Maghamedrasulov perché le prove presentate dalla
Procura generale sono insufficienti. Immediata si scatena la bufera politica:
“L’intero sistema è profondamente imperfetto e richiede un intervento urgente,
soprattutto attraverso modifiche legislative”, attacca Anastasia Radina,
presidente della Commissione anticorruzione del parlamento. Il 10 dicembre
arriva il secondo ko per Kravchenko: il tribunale alleggerisce anche la
posizione di Husarov, che dal carcere va ai domiciliari.
Ma il colpo più duro arriva l’11 dicembre. Al termine della riunione dei
ministri per gli Affari europei a Leopoli, la Commissaria per l’allargamento
Marta Kos e il vicepremier ucraino Taras Kachka firmano un comunicato congiunto
in cui chiedono al governo tra le altre cose di “rafforzare l’indipendenza della
Nabu e del Sapo (la Procura specializzata anti-corruzione, ndr) e proteggere la
loro giurisdizione da elusioni e influenze indebite“, “condurre una revisione
completa della procedura di selezione e revoca del Procuratore generale” e
“adottare una legge (…) per garantire un processo di selezione, nomine e
trasferimenti trasparenti e basati sul merito per i magistrati che ricoprono
posizioni dirigenziali e altre posizioni nell’ufficio del Procuratore generale”.
La richiesta rientra nell’ampio contesto di riforme chieste a Kiev nella lotta
alle tangenti, che Bruxelles considera fondamentale per l’adesione dell’Ucraina
all’Ue. Ma è anche un atto d’accusa e un avviso di sfratto per Kravchenko.
Poco dopo la Procura generale si arrocca: “Le informazioni diffuse da alcuni
canali Telegram riguardo alla presunta presentazione delle dimissioni da parte
di Ruslan Kravchenko sono false – dice l’ufficio in una nota – Il Procuratore
Generale non ha presentato alcuna richiesta di dimissioni”. Quindi
l’avvertimento firmato da Krevchenko in persona: “Verrò a prendervi di persona
uno a uno”.
L'articolo L’Ue tenta di “contenere” Zelensky: “Serve più trasparenza nella
nomina del procuratore”. Chi è Kravchenko, uomo del presidente che fa la guerra
all’Anti-corruzione proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Corruzione
Soldi chiesti al marito per permettergli di dare l’ultimo saluto alla moglie
deceduta. Ma anche per accelerare il rilascio della salma e per favorire la
vestizione del defunto. Un tariffario di “mazzette” che andava dalle 50 e 400
euro imposto da quattro operatori della camera mortuaria del Policlinico
“Giaccone” di Palermo: Salvatore Lo Bianco, Marcello Gargano, Antonio Di Donna e
Giuseppe Anselmo. Sono accusati di associazione per delinquere e corruzione
dalla procura di Palermo, che ne ha chiesto l’arresto insieme ad altre undici
persone, titolari delle ditte di servizio funebre: Francesco e Nunzio Trinca
(“Centro servizi funerari”), Domenico Abbonato (“Centro servizi funebri
Corona”), Davide Madonia (“Madonia servizi funebri” di Rosa Belli), Natale
Mannino (titolare dell’omonima azienda), Antonio Mineo (“Mineo srl”), Angelo
Milani, Giuseppe Maggio (ditta “Maggio Pietro”), Giacomo Marchese (“Il Giardino
dei fiori” di Villabate), Daniele Bonura (“Alfano srl” di Salvatore e Giuseppe)
e Marcello Spatola (“Alfano srl Salvatore e Giuseppe”).
Secondo l’inchiesta del sostituto Felice De Benedittis e della Squadra mobile di
Palermo, che coinvolge 52 persone, era una prassi pagare per accelerare le
pratiche di rilascio delle salme. La procedura prevede che si attenda 24 ore dal
decesso prima di poter chiudere il corpo nel feretro, per evitare possibili casi
di morte apparente. Le famiglie delegano le agenzie funebri di occuparsi di
tutte le pratiche, e in questo caso le ditte avrebbero pagato gli operatori
della camera mortuaria, all’insaputa dei medici, per accelerare l’uscita dei
defunti. L’origine dell’indagine nasce da un’intercettazione della Squadra
mobile di Milano, nel corso di una conversazione tra due impresari di pompe
funebri si scopre che nel capoluogo siciliano serve “offrire un caffè” per
smuovere le acque. “Mi ha detto di avere dato un caffè a quello della camera
mortuaria, perché così funziona lì…”, dice l’impresario. “E fratello, gli ha
dato 100 euro”, risponde l’altro.
Quando gli agenti palermitani iniziano ad ascoltare quello che succede nella
camera mortuaria del capoluogo siciliano, scoprono il sistema. “Un mare di
piccioli ci sono qua”, dice Di Donna mentre guarda il collega contare i soldi
nella busta: “Qua ho gli altri vieni qua, io già la mia parte me la sono presa –
risponde Lo Bianco -, 40-45 tu (Di Donna, ndr), 45 Marcello (Gargano, ndr) e
sono 90 e 15 Iachineddu… questo è il foglio della salma che arriverà domani”. In
un’altra conversazione, si sente l’operatore Lo Bianco che fa valere la sua
posizione nei confronti del titolare della ditta funebre: “La famiglia a me non
mi interessa, qua ci sono i soldi a posto così. La prossima volta esce dopo uno
due giorni, tre giorni”. E se non si rispettano gli accordi, c’è il rischio
della ritorsione. “Se vuoi ti do i documenti perché i parenti neanche te li
faccio trasere (entrare, ndr) visto che tu parli accussì (così, ndr), poi te la
fermo (la salma, ndr) in camera mortuaria e chiudo e io ietto (butto, ndr) a
tutti fuori”.
C’è persino il caso di un marito che avrebbe pagato 50 euro a Gargano per vedere
la salma della moglie, prima che venisse portata in obitorio al Policlinico. “La
possiamo vedere cinque minuti perché c’è mio figlio che vive in Olanda, l’altro
è in Germania”, chiede l’uomo. “Ci sono le telecamere non facciamo scendere mai
nessuno sotto”, risponde l’operatore. Qualche istante dopo, gli inquirenti
immortalano il marito prendere il portafogli e dare qualcosa a Gargano, che
cambia atteggiamento: “Ora mi organizzo la situazione che siamo qua… facciamo
tutti una scinnuta (discesa, ndr)”. “Bravo, bravo”, replica il marito.
L'articolo Palermo, al Policlinico chiedevano mazzette da 50 a 400 euro per
accelerare la riconsegna delle salme: 15 arresti proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Mazzette smaterializzate ovvero l’ipotizzata corruzione in cambio di vantaggi o
assunzioni. La Direzione Distrettuale Antimafia di Campobasso ha chiesto il
rinvio a giudizio per il presidente della Regione Molise, Francesco Roberti, e
per altre 43 persone coinvolte nell’inchiesta denominata ‘Memory’, che ipotizza
appunto un sistema di corruzione e traffico illecito di rifiuti con collegamenti
alla criminalità organizzata pugliese, ma senza scambio di denaro. Il
procedimento sarà aperto con l’udienza preliminare fissata per il 22 gennaio.
L’inchiesta della Dda coinvolge, oltre a Roberti, la moglie del governatore,
Elvira Gasbarro, e due società operanti nel settore dei rifiuti.
Secondo la Procura, Roberti, all’epoca dei fatti sindaco di Termoli e poi
presidente della Provincia di Campobasso tra il 2019 e il 2023, avrebbe favorito
l’azienda Energia Pulita Srl nell’ottenimento di autorizzazioni e affidamenti
pubblici in cambio di vantaggi personali, tra cui l’assunzione della moglie e
l’affidamento di lavori a imprese considerate compiacenti. Nelle carte
dell’inchiesta, gli inquirenti parlano di “mazzette smaterializzate”.
Roberti, esponente di Forza Italia, guida la Regione Molise da due anni e mezzo.
Nei mesi scorsi aveva chiesto di essere ascoltato dai magistrati, presentandosi
a maggio per depositare una memoria difensiva di 200 pagine. Come spiegato dal
suo legale, Mariano Prencipe, nella memoria sono stati ricostruiti tutti gli
episodi contestati, fornendo chiarimenti e documentazione a sostegno della
posizione del presidente: “Dalle intercettazioni emerge chiaramente che Roberti
non si è interessato alle sorti di Energia Pulita come contestato. Anzi, fu
proprio la Provincia di Campobasso a sollevare osservazioni e imporre
restrizioni a questa società”.
La posizione di Roberti, pur rientrando nel filone della presunta corruzione,
resta distinta da quella degli altri soggetti coinvolti nei reati di stampo
mafioso, che comprendono associazione mafiosa, traffico di stupefacenti,
estorsione, riciclaggio e smaltimento illecito di rifiuti. Gli indagati
includono esponenti della criminalità foggiana, imprenditori, tecnici,
professionisti e funzionari pubblici. L’inchiesta si concentra sul periodo in
cui Roberti ricopriva incarichi politici locali, ovvero il suo ruolo di sindaco
di Termoli e presidente della provincia di Campobasso. Le contestazioni infatti
riguardano il periodo tra il 2020 e il 2023, gli anni in cui Roberti ha
ricoperto questi incarichi, ed era membro del consiglio generale della Cosib,
consorzio di cui fa parte anche una società coinvolta nelle indagini, Energia
Pulita srl. Quindi l’accusa non si estende agli altri filoni di indagine
riguardanti estorsioni, droga e traffico di rifiuti.
L'articolo “Mazzette smaterializzate”, chiesto il processo per il presidente del
Molise Roberti e altri 43 imputati proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Sapete di Mindich? C’è stato un tentato omicidio il 28 (novembre, ndr) in
Israele“. Ihor Kolomoisky, felpa grigia Nike su una t-shirt giallo sgargiante, è
seduto in aula. “Il tentativo non è riuscito – aggiunge -, i criminali sono
stati arrestati. Grazie a Dio non è successo qualcosa di peggio. Hanno
gravemente ferito la domestica, ma è sopravvissuta. I criminali hanno sbagliato
casa”. Parole che in altri tempi sarebbero passate inosservate o quasi, ma non
in questi giorni. Perché l’uomo con la barba bianca e gli occhialetti che
mercoledì le ha pronunciate in tribunale a Kiev è stato, e per molti versi
resta, uno degli uomini più potenti d’Ucraina. E la persona di cui parla è il
suo ex delfino Timur Mindich, l’ex socio del presidente Volodymyr Zelensky al
centro dell’inchiesta sulla corruzione che sta scuotendo il governo.
Mindich ha fatto perdere le proprie tracce la notte tra il 9 e il 10 novembre,
poche ore prima che gli uomini dell’Ufficio nazionale (Nabu) e la Procura
nazionale anti-corruzione (Sapo) bussassero alla sua porta. Per gli inquirenti è
il deus ex machina del sistema che avrebbe incassato tangenti per 100 milioni di
dollari nel settore energetico e in quello della Difesa e che ha portato alla
rimozione di due ministri, all’arresto di un ex vicepremier e alla cacciata di
Andriy Yermak, potentissimo capo dell’ufficio presidenziale di Zelensky. Secondo
diverse fonti, Mindich avrebbe riparato in Israele con moglie e tre figli. Ed è
lì che sarebbe avvenuto il “tentato omicidio”. Un fatto di cui al momento non
esistono prove. Il portavoce della polizia israeliana Michal Zingerman ha
osservato che le forze dell’ordine “non hanno alcuna conferma” in merito.
“L’ambasciata non ha informazioni su questo incidente”, ha detto l’ambasciatore
ucraino in Israele, Yevhen Korniychuk.
L’indagine sarebbe stata affidata al servizio di sicurezza interna israeliano,
“quindi non ci saranno comunicati”, ha detto ieri Kolomoisky tornando
sull’argomento, ancora una volta dinanzi alla Corte d’appello di Kiev chiamata a
valutare la proroga del suo arresto. Fondatore negli anni ’90 di un impero
economico imperniato sul colosso bancario PrivatBank, l’imprenditore di
Dnipropetrovsk – l’attuale Dnipro, stessa citta di Mindich – in pochi anni ha
esteso i suoi interessi a compagnie aeree, canali tv e industria siderurgica,
diventando uno degli oligarchi più influenti d’Ucraina e finendo nel mirino
delle autorità. Dal 2023 è in carcere, ma anche da dietro le sbarre non ha
mancato di far sentire la propria voce. “Mindich è attualmente in Israele”, ha
detto ieri, e nell’attentato del 28 novembre “c’è una pista che porta in
Ucraina“.
“Due ‘liberi professionisti‘ arrivati dall’Ucraina sono stati un anno e mezzo in
Israele”, ha raccontato l’oligarca come riferito dai media ucraini. I due “hanno
contattato l’ambasciata per avere informazioni sui loro documenti. Sono stati
reclutati lì e hanno ricevuto un incarico per Mindich”, insieme a un’arma: “Una
pistola Makarov con silenziatore“. Chi li avrebbe ingaggiati? “Sicuramente non
la SBU (principale agenzia di intelligence del paese, ndr) né il GUR (i servizi
segreti militari, ndr) . All’ambasciata c’è sempre un rappresentante del
Servizio di intelligence esterna”, ha proseguito sibillino, per poi aggiungere:
“Mindich si occupava di affari seri, quando ci sono così tanti soldi, c’è sempre
un pericolo. Lui è un portatore di informazioni“. In ogni caso “è vantaggioso
per il presidente che Mindich sia in buona salute. Inoltre, sono amici“.
Dichiarazioni che hanno il chiaro sapore del messaggio, neanche troppo in
codice.
Kolomoyskyi, Mindich e Zelensky si conoscono da quasi due decenni. Mindich ha
mosso i primi passi alla metà degli anni 2000 nell’impero di Kolomoyskyi, fino a
diventarne un partner negli affari. Sono gli anni in cui Kolomoyskyi conosce
Zelensky, come lui stesso ha raccontato il 18 aprile 2019 in un’intervista a
Radio Svoboda: “Ho conosciuto Zelensky casualmente intorno al 2009-2010. E ho
avuto modo di conoscerlo più da vicino tra la fine del 2011 e l’inizio del
2012”. Di lì a poco la Kvartal 95, la società di produzioni televisive in cui
Mindich e l’allora attore comico erano soci, comincia a trasmettere le sue serie
su 1+1, una delle reti del miliardario. I rapporti si fanno sempre più stretti –
“Voglio che diventi presidente“, dice nella stessa intervista pubblicata nei
giorni del ballottaggio – fino a quando il miliardario finisce implicato in una
miriade di indagini e cade in disgrazia. Oggi è accusato di una lunghissima
serie di reati, dalla frode al riciclaggio di denaro, fino all’aver ordinato
l’omicidio di un avvocato che nel 2003 si era rifiutato di falsificare i
documenti dell’assemblea degli azionisti dell’azienda metallurgica
Dniprospetsstal come il miliardario avrebbe voluto.
L'articolo Corruzione in Ucraina, l’oligarca Kolomoisky in tribunale: “Qualcuno
ha cercato di uccidere l’ex socio di Zelensky fuggito in Israele” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Dopo meno di un anno di mandato, il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov ha
rassegnato le dimissioni del suo governo. L’annuncio è arrivato durante un
discorso televisivo, mentre il Parlamento stava per votare la mozione di
sfiducia. La svolta arriva dopo settimane di proteste contro le politiche
economiche e l’inefficace contrasto alla corruzione del governo Zhelyazkov. Per
il Paese il momento è molto delicato, visto che il 1° gennaio entrerà nella zona
euro.
“La nostra coalizione si è riunita, abbiamo discusso della situazione attuale,
delle sfide che ci troviamo ad affrontare e delle decisioni che dobbiamo
prendere responsabilmente”, ha dichiarato pubblicamente il primo ministro
dimissionario. A fare pressione sono state anche le proteste di mercoledì,
quando nelle capitale Sofia e in altre città più di 100mila persone sono scese
in strada per manifestare contro il governo.
Un clima d’opinione che si inserisce nel complesso quadro delle istituzioni
bulgare: secondo l’ong Transparency International, la Bulgaria è agli ultimi
posti nella classifica dell’indice europeo di percezione della corruzione. A
inizio anno, la Bulgaria era uscita dallo stallo politico con il governo di
Rossen Zheliazkov, rappresentante del partito conservatore Gerb: già da allora,
i commentatori politici ritenevano che la fragile coalizione non sarebbe durata
a lungo.
L'articolo Bulgaria, il governo si dimette dopo le proteste contro la corruzione
e le politiche economiche proviene da Il Fatto Quotidiano.
La fuga di notizie sullo scandalo Qatargate rischia adesso di costare cara ad
alcuni degli agenti che hanno condotto le indagini. Fin da subito, i politici
coinvolti nell’inchiesta denunciarono la violazione del segreto istruttorio da
parte degli organi giudiziari e di polizia belga quando i loro nomi finirono sui
giornali di tutta Europa. E alcuni di loro contestarono e ottennero l’apertura
di un procedimento davanti alla Corte d’Appello per valutare la legittimità
dell’inchiesta in corso. Oggi, a tre anni dall’inizio dello scandalo mazzette in
Ue, alcuni alti funzionari presenti ai blitz del 9 dicembre 2022 sono finiti nel
registro degli indagati.
Dopo le denunce presentate dagli indagati dall’ex vicepresidente del Parlamento
Ue, Eva Kaili, dall’assistente parlamentare Francesco Giorgi e dall’eurodeputata
Maria Arena, il direttore dell’Ufficio belga anticorruzione (Ocrc), Hugues
Tasiaux, è stato formalmente indagato e rimosso dall’incarico. È stato inoltre
ascoltato il capo delle indagini, Bruno Arnold, che insieme a Tasiaux avrebbe
chiamato in causa l’ex procuratore Raphael Malagnini.
Sotto esame sono finiti, già dal 2023, i metodi adottati dalla giustizia belga
nelle fasi più sensibili delle indagini. E queste analisi, oggi, hanno portato
alcuni funzionari a essere iscritti nel registro degli indagati per presunte
violazioni dell’immunità parlamentare e del segreto istruttorio. Le indagini
puntano a fornire una risposta su questioni sollevate dagli indagati ma sulle
quali si era già espressa, ad esempio, la Commissione permanente per il
controllo dei servizi di intelligence e di sicurezza del Belgio (la Commissione
R). Su richiesta dell’avvocato dell’ex europarlamentare del Pd, Andrea
Cozzolino, anche lui travolto dall’inchiesta, la Commissione aveva espresso il
proprio parere ritenendo che i servizi abbiano agito nel rispetto della
legislazione e dunque in modo lecito.
L’indagine ha subito un duro stop anche a causa dell’abbandono di due giudici
istruttori, in particolar modo Michel Claise, e del procuratore Malagnini.
Nonostante ciò, a marzo, la procura è tornata a bussare al Parlamento Ue
chiedendo la revoca dell’immunità per le eurodeputate del Pd Alessandra Moretti
ed Elisabetta Gualmini. Richiesta che ha ottenuto il via libera solo nel caso di
Moretti.
L'articolo Qatargate, indagati agenti dei servizi belgi per la fuga di notizie
sulla corruzione in Ue proviene da Il Fatto Quotidiano.
Contro il dottor Roberto Palumbo, agli arresti domiciliari con l’accusa di
corruzione, si è attivata l’Azienda sanitaria locale Roma 2, di cui era
componente del comitato etico. Il 5 dicembre è scattata la sospensione
obbligatoria dal servizio nei confronti del primario di Nefrologia dell’ospedale
Sant’Eugenio. La Azienda sanitaria ha aperto un fascicolo interno e attivato
l’ufficio di disciplina: con una nota ha espresso “piena fiducia nel lavoro
degli inquirenti”, garantendo “ogni supporto necessario per favorire il rapido
accertamento del caso”. Si è fatto sentire anche l’Ordine dei medici: “Se i
fatti risulteranno confermati, è l’intera categoria medica ad essere parte
lesa”.
L’ARRESTO DI PALUMBO
Palumbo è stato fermato giovedì in flagranza di reato, mentre riceveva
dall’imprenditore Maurizio Terra una busta contenente 3mila euro in banconote da
50 e 100 euro. Ieri il gip ha disposto gli arresti domiciliari invece del
carcere. Oggi il medico romano, insieme al suo avvocato, sta valutando la
possibilità di un ricorso al Tribunale del riesame per riottenere la libertà.
Terra avrebbe “sostanzialmente ammesso i fatti” mentre da Palumbo sarebbero
giunte “importanti ammissioni“. La sua condotta appare più grave “perché la
contestazione consente di cogliere una costanza di comportamenti e, dunque, una
pervicacia, significative di una personalità incline alla commissione dei
reati”, scrive il gip.
L’AMMISSIONE DEI SOLDI IN NERO
Il primario è accusato di aver ottenuto soldi e benefici per dirottare i
pazienti dimessi dal Sant’Eugenio – ma ancora bisognosi di cure – verso le
cliniche amiche. Inoltre avrebbe sfruttato le liste di attesa pubbliche
obbligando i dializzati, di fatto, a rivolgersi ai centri privati. Ieri durante
l’udienza di convalida. Durante l’interrogatorio con il gip l’imprenditore
avrebbe inizialmente negato tutto: “Mai preso soldi per mandare i pazienti nelle
strutture private”. Poi però i toni sarebbero cambiati, con l’ammissione di aver
comunque incassato soldi in nero: “Ciò che emerge al momento è che Palumbo non
ha preso tremila euro in contanti per una mazzetta, ma in quanto erano utili
derivanti dall’attività di imprenditore occultamente svolta rispetto alla
società Dilaeur”, sostiene al Giornale l’avvocato Antonello Madeo. Il primario
ora agli arresti infatti aveva ottenuto il 60 per cento delle quote della
Dialeur. Dunque, secondo il suo legale, i soldi sarebbero i pagamenti in nero
degli utili. Il passaggio delle quote tuttavia non sarebbe stato gradito a
Maurizio Terra, anzi. Una decisione “sostanzialmente imposta” e senza benefici
per l’amministratore unico della clinica, “non avendogli portato alcun
vantaggio”.
I PRESUNTI BENEFICI: DALLA MERCEDES ALLA CASA
Ieri dagli atti delle indagini sono trapelati i dettagli dell’ipotesi di
corruzione formulata dai pubblici ministeri. Palumbo avrebbe ottenuto in
beneficio carte di credito, il pagamento dell’affitto di casa e del leasing di
una Mercedes, contratti di lavoro per la sua compagna, e tanti soldi. Quanti? 3
mila euro per ogni paziente indirizzato verso le cliniche amiche del primario,
dopo le dimissioni dal Sant’Eugenio di Roma. Tra le aziende private “premiate”
da Palumbo c’era la Dialeur. L’amministratore unico è Maurizio Terra, agli
arresti domiciliari: da lui proveniva la mazzetta colta in flagranza dalle forze
dell’ordine. Nell’ordinanza di convalida, Palumbo avrebbe avanzato richieste
“pressanti ed esorbitanti” agli imprenditori. Tanto da far sorgere il sospetto,
agli inquirenti, che l’imprenditore sarebbe quasi sollevato dalle indagini della
magistratura. “In qualche modo gli ha consentito di sottrarsi a procedure e
condotte che, seppur necessarie per poter svolgere la propria attività, erano
vissute come imposizioni”, si legge ancora nell’ordinanza. Alcune
intercettazioni suggeriscono presunti scambi di denaro. “È urgente a questo
punto, uno come deve fare e basta..”, dice il primario. E l’imprenditore
replica: “L’unica è cambiare sistema e finisce la storia, sennò ogni mese è
così”. In un’altra conversazione il medico dice a Terra: “…fai l’amministratore
e te godi la vita”. E alla fine il primario è diventato amministratore, grazie
alla quote della Dialeur.
LE MINACCE
Palumbo, riportano le carte dell’indagine, avrebbe anche minacciato gli
imprenditori riottosi. In che modo? “Paventando di fare in modo che i pazienti
dimessi dal Sant’Eugenio, ma ancora bisognosi di terapia emodialitica
ambulatoriale, non si rivolgessero più per la predetta terapia” alle cliniche
poco inclini alle richieste del primario. Sarebbe accaduto all’imprenditore
Antonio Carmelo Alfarone della Rome Medical Group: quest’ultimo ha denunciato
Palumbo per gli anni tra il 2019 e il 2021.
L'articolo Roberto Palumbo, l’Asl apre fascicolo e sospende il primario
arrestato per corruzione proviene da Il Fatto Quotidiano.
The Italian job. È con il titolo preso in prestito da un film che investigatori
e giornalisti in Belgio cominciano a rifersi alle inchieste per corruzione.
Negli ultimi tempi, in effetti, quando in Unione europea si indaga per tangente
a finire sotto inchiesta sono spesso cittadini italiani. Quasi che le mazzette
siano diventate una prodotto tipico del Belpaese. Una tendenza confermata dal
dossier Italia sotto mazzetta, preparato in vista della giornata della lotta
alla corruzione del 9 dicembre. L’associazione fondata da don Luigi Ciotti ha
censito le inchieste sulla corruzione dal primo gennaio al primo dicembre 2025,
basandosi sulle notizie di stampa: ne ha contate ben 96 (erano 48 nel 2024),
alla media di otto al mese, con il coinvolgimento di 49 procure in 15 regioni e
1.028 persone indagate, quasi un raddoppio rispetto ai 588 dello scorso anno.
CAMPANIA MAGLIA NERA
Le regioni meridionali con le isole primeggiano con 48 indagini, seguite da
quelle del Centro (25) e del Nord (23). La Campania è “maglia nera” con 219
persone indagate, segue la Calabria con 141 e la Puglia con 110. La Liguria con
82 persone indagate è la prima regione del Nord Italia, seguita dal Piemonte con
80. I reati ipotizzato spaziano dalla corruzione per atto contrario ai doveri
d’ufficio al voto di scambio politico-mafioso, dalla turbativa d’asta
all’estorsione aggravata dal metodo mafioso. Ci sono mazzette in cambio di
un’attestazione falsa di residenza per avere la cittadinanza italiana o per
ottenere falsi certificati di morte. In altri casi le dazioni hanno facilitato
l’aggiudicazione di appalti nella sanità, per la gestione dei rifiuti o per la
realizzazione di opere pubbliche, la concessione di licenze edilizie,
l’affidamento dei servizi di refezione scolastica. Ci sono scambi di favori per
concorsi truccati in ambito universitario. E ancora, le inchieste per scambio
politico elettorale e quelle relative alle grandi opere con la presenza di clan
mafiosi.
53 POLITICI SOTTO INCHIESTA
Da Torino a Milano, da Bari a Palermo, da Genova a Roma, passando per le città
di provincia come Latina, Prato, Avellino, nel corso del 2025 risuona un allarme
mazzette con il coinvolgimento di un migliaio di amministratori, politici (53),
funzionari, manager, imprenditori, professionisti e mafiosi. Dall’analisi delle
inchieste, ancora in corso e dunque senza un accertamento definitivo di
responsabilità individuali, emerge una corruzione “solidamente” regolata, spesso
ancora sistemica e organizzata, dove a seconda dei contesti il ruolo di garante
del rispetto delle “regole del gioco” è ricoperto da attori diversi. Tra i 53
politici indagati (sindaci, consiglieri regionali, comunali, assessori) pari al
5,5% del totale degli indagati, 24 sono sindaci, quasi la metà. Il maggior
numero di politici indagati sono in Campania e Puglia (13), seguite da Sicilia
con 8, e Lombardia con 6. “Si tratta di un quadro sicuramente parziale, per
quanto significativo, di una realtà più ampia sfuggente”, spiega Libera.
“NON È UN’ANOMALIA, MA UN SISTEMA”
“I dati che presentiamo ci parlano con chiarezza: la corruzione in Italia non è
affatto un’anomalia, bensì un sistema che si manifesta in mille forme diverse,
adattandosi ai contesti, riflettendo l’impiego di tecniche sempre più
sofisticate. Da quelle più classiche (la mazzetta, l’appalto truccato, il
concorso pilotato) fino a quelle ormai pressoché legalizzate, frutto di una vera
e propria cattura dello Stato da parte di un’élite impunita: leggi e regole
scritte su misura per i potenti di turno, conflitti di interesse tollerati,
relazioni opache tra decisori pubblici e portatori di soverchianti interessi
privati”, dice Francesca Rispoli, copresidente nazionale di Libera. “La
questione – aggiunge – va molto al di là delle singole responsabilità
individuali. Sono all’opera meccanismi che, se non svelati e contrastati,
rischiano di consolidare un sistema di potere sempre più irresponsabile. Non
basta invocare pene più severe, o attendere l’ennesima inchiesta giudiziaria,
spesso destinata ad arenarsi in un nulla di fatto: occorre rinnovare un patto
forte e lungimirante tra istituzioni responsabili e cittadinanza attiva. Da un
lato, le istituzioni pubbliche consolidino i presidi di prevenzione e si dotino
di strumenti efficaci di contrasto della corruzione, anziché delegittimarli e
indebolirli come si è fatto negli ultimi anni. Dall’altro, la cittadinanza deve
potenziare la capacità di far sentire la propria voce, investendo in una
crescita della cultura della segnalazione, del monitoraggio civico, dell’impegno
condiviso nel difendere i beni comuni e l’interesse pubblico”.
L'articolo “Corruzione, in Italia quasi 100 indagini all’anno. Mazzette pure per
fasi cambi di residenza e certificati di morte” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Roberto Palumbo “aveva un controllo della destinazione dei pazienti verso i vari
centri” e, secondo il giudice per le indagini preliminari, gli indirizzava “in
modo da raggiungere il massimale consentito verso la Dilauer”. Non una struttura
a caso, visto che possiede “di fatto il 60% delle quote” del centro dialisi. È
racchiusa principalmente in questo passaggio, contenuto nell’ordinanza con la
quale il gip di Roma ha disposto i domiciliari, l’accusa al primario di
Nefrologia dell’ospedale Sant’Eugenio, arrestato in flagranza mentre intascava
una tangente dall’imprenditore Maurizio Terra. Stando all’inchiesta, il medico
avrebbe avuto a disposizione carte di credito, un appartamento in affitto, il
leasing di un’automobile di lusso e sua moglie avrebbe ricevuto un contratto di
consulenza da 2.500 euro al mese.
Le mazzette incassate, stando all’inchiesta, erano “a carattere mensile”. Nel
provvedimento sono citate una serie di intercettazioni tra Palumbo e
l’imprenditore Maurizio Terra. In un dialogo carpito, a detta del giudice, c’è
la prova del passaggio di denaro mensile: il primario afferma “è urgente a
questo punto, uno come deve fare e basta..” a cui Terra replica “l’unica è
cambiare sistema e finisce la storia, sennò ogni mese è così”. Nell’atto il
giudice cita alcuni episodi, a partire dall’aprile scorso, in cui il medico
avrebbe ricevuto del denaro in contanti.
Il giudice definisce “gravi i fatti contestati” e aggiunge che Terra “ha,
sostanzialmente, ammesso i fatti e anche Palumbo, che nel corso
dell’interrogatorio reso dinanzi al pm era parso più reticente ha, infine,
operato ammissioni di responsabilità nel corso dell’udienza di convalida”. Per
il magistrato, il “sinallagma tra la funzione” esercitata dal medico e il
“pagamento è evidente”. Non solo: il gip ritiene anche evidente che Palumbo
“potesse agevolare l’invio dei pazienti, anche verso la Dialeur, società da lui
di fatto detenuta con partecipazione di maggioranza”.
Nel provvedimento il giudice spiega che “Terra ha ammesso, con più trasparenza,
le proprie responsabilità, ha fornito elementi atti a ricostruire compiutamente
i fatti, ha mostrato, soprattutto all’udienza di convalida, di essere quasi
sollevato dall’emersione della vicenda che, in qualche modo, gli ha consentito
di sottrarsi a procedure e condotte necessarie per poter svolger e la propria
attività ma vissute anche come imposizioni”. E ancora: “Ha chiaramente detto che
la titolarità formale del 60% delle quote gli è stata sostanzialmente imposta ed
ha avuto uno sviluppo, nel tempo, da lui patito e, certamente, non voluto, non
avendogli portato alcun vantaggio”.
Per quanto riguarda Palumbo “ha reso dichiarazioni che, comunque, hanno permesso
una più esatta ricostruzione dei fatti e, tuttavia, la sua condotta va valutata
come più grave perché la contestazione consente di cogliere una costanza di
comportamenti e, dunque, una pervicacia, significative di una personalità
incline alla commissione di reati della specie di quello per cui si procede”,
scrive il giudice. Palumbo, conclude, “ha dichiarato di non essere interessato a
mantenere il ruolo di direttore della struttura, ha dichiarato di voler lasciare
il pubblico e, tuttavia, da anni, mantiene la sua posizione di potere e continua
e lavorare nella struttura pubblica”.
L'articolo Il giudice sul primario arrestato per corruzione: “Mandava i pazienti
nella struttura di cui era socio occulto” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quote societarie, carte di credito, Mercedes in leasing, l’affitto di un
appartamento, contratti lavoro per la sua compagna. Il dottor Roberto Palumbo,
primario di Nefrologia all’ospedale Sant’Eugenio di Roma, avrebbe ottenuto
benefici importanti dalle cliniche private amiche. Verso quelle strutture –
secondo gli inquirenti – il medico dirottava i pazienti in dialisi dimessi dal
nosocomio pubblico (ma ancora bisognosi di cure e assistenza) come merce di
scambio. Le vicende sono ricostruite nel decreto di perquisizione e nella
richiesta di convalida dell’arresto, firmati dalla procura di Roma e citati dal
Corriere della Sera. Il dottor Palumbo è stato arrestato giovedì insieme
all’imprenditore Maurizio Terra, amministratore unico di Dialeur, colti in
flagranza durante lo scambio di mazzette: il primo è in carcere, il secondo ai
domiciliari.
Per le imprese riottose alle richieste, poteva scattare la minaccia da parte del
primario. In che modo? “Paventando di fare in modo che i pazienti dimessi dal
Sant’Eugenio, ma ancora bisognosi di terapia emodialitica ambulatoriale, non si
rivolgessero più per la predetta terapia” alle cliniche poco inclini alle
richieste del primario. Sarebbe accaduto all’imprenditore Antonio Carmelo
Alfarone della Rome medical Group. Quest’ultimo ha denunciato Palumbo per gli
anni tra il 2019 e il 2021: secondo la procura, Alfarone sarebbe stato costretto
a versare al dottore 3mila per ciascun paziente, in tutto 700mila euro. Non
solo: il primario avrebbe ricevuto 1.600 euro al mese per pagare l’affitto di
una casa al centro di Roma, altri mille per una Mercedes in leasing, 3 carte di
credito utilizzate in ristoranti, alberghi, esercizi commerciali. Per la sua
compagna, invece, un contratto di consulenza da 2.500 euro mensili per un anno.
Agli atti degli inquirenti ci sono anche le intercettazioni. In una di queste
l’imprenditore ai domiciliari Maurizio Terra illustra alla moglie le parole del
primario: “Quello che devi fa te… si devi fa l’amministratore e non
l’amministrativo… fai l’amministratore e te godi la vita”. Palumbo si sarebbe
riferito ad una passaggio di quote societarie di una clinica per i pazienti in
dialisi. L’avvocato di Palumbo ha smentito ogni accusa: “Stiamo parlando di uno
dei principali nefrologi italiani. Grazie alle sue attività, l’Ospedale ha
guadagnato. Dimostreremo che Palumbo non ha preso alcuna mazzetta. Quelli erano
soldi che gli spettavano per sue prestazioni professionali”.
L'articolo Carte di credito, auto di lusso e affitto pagato: “Così veniva
corrotto il primario del Sant’Eugenio” proviene da Il Fatto Quotidiano.