All’aeroporto Falcone Borsellino di Palermo, la Guardia di Finanza ha fermato un
uomo che trasportava nel suo bagaglio una testa essiccata di coccodrillo. Come
riporta Palermo Today, l’ispezione della valigia del passeggero, proveniente da
Bangkok e con scalo a Roma Fiumicino, ha permesso alle Fiamme Gialle e ai
Funzionari ADM dell’aeroporto Palermo-Punta Raisi di trovare la parte
dell’animale appartenente alla specie “Crocodylia spp” in via d’estinzione.
LA PROVENIENZA
L’accusato, un palermitano di rientro da un viaggio in Asia, ha acquistato il
manufatto in un mercato della capitale thailandese. La specie di coccodrillo in
questione è tipica della regioni tropicali e subtropicali del continente
asiatico. Per aggirare i controlli all’aeroporto di Bangkok, l’uomo aveva
avvolto la testa dell’animale essiccata in una busta di plastica. Dopo averla
fatta franca in Thailandia, il passeggero era atterrato a Roma e aveva poi preso
il volo diretto a Palermo. In Sicilia l’uomo ha dovuto aprire la valigia su
richiesta della Guardia di Finanza, che ha sequestrato il pezzo e denunciato
l’uomo.
LA PENA
Le Fiamme Gialle hanno denunciato l’uomo per crimini legati al commercio
illegale di flora e fauna. Al passeggero è stata contestata la condotta punita
dalla legge con un’ammenda dai 20 mila ai 200.000 euro o con l’arresto da tre
mesi a un anno. Il fenomeno del traffico illegale di flora e fauna e uno dei
temi che, proprio in questi giorni, è stato affrontato nella conferenza globale
Cites Cop20 che riunisce delegati di oltre 180 paesi in corso di svolgimento a
Samarcanda, in Uzbekistan.
L'articolo “Aveva una testa di coccodrillo in valigia”: la scoperta choc durante
i controlli all’aeroporto di Palermo. Rischia una multa da 200 mila euro
proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Ricordo che il professore mi ha chiesto di raccogliere gli scontrini fiscali
che i clienti lasciavano alla cassa, o quelli caduti a terra, per poi
consegnarglieli. Forse per questo motivo trovate scontrini di piccolo importo
pagati anche in contanti. Nel tempo ho più volte consegnato gli scontrini
raccolti direttamente al professore”. Il piccolo importo in questione riguarda
soprattutto 7 scontrini, di 1 euro, 1,20, 1,50, 2 euro, o perfino l’esoso 4,50.
Sono scontrini, che – secondo quanto ricostruito dalla procura di Messina – un
commerciante di un emporio cinese ha dato a Salvatore Cuzzocrea, che a sua volta
li ha presentati all’università di Messina, da lui guidata in quel momento, per
ottenere un rimborso.
Gli scontrini presentati sono arrivati poi alla cifra complessiva di 18.240
euro. Era in questo emporio che l’ex rettore di Messina, e presidente della
Crui, la Conferenza dei rettori italiani, aveva acquistato “materiale elettrico
per un utilizzo edile (bobine di cavo elettrico anche di dimensione sino a 4 mm,
pozzetti, morsetti, canaline, tubo corrugato anche di grosso diametro, faretti,
interruttori, prese eсс), nonché casalinghi (detersivi, bacinelle, ferramenta,
ruote ecc.) in grandi quantità”. Così si legge nel decreto di sequestro firmato
dal gip Eugenio Fiorentino, su richiesta della procuratrice aggiunta Rosa Raffa
e delle pm Liliana Todaro e Roberta la Speme. Nelle 700 pagine del decreto che
dispone il sequestro di 1 milione 600 mila euro si legge anche dei bonifici
fatti da 14 ricercatori. Cuzzocrea è anche ordinario di Farmacologia e a capo di
una dozzina di studi di ricerca. “Disconosco le firme apposte su tutte le
richieste di rimborso che mi sono state poste in visione, ad eccezione di , non
ero a conoscenza del fatto che il prof. Cuzzocrea presentasse delle richieste di
rimborso a mio nome”, così racconta uno dei 14 ricercatori, ma le versioni sono
un po’ tutte uguali. E un’altra racconta: “Non ero a conoscenza del fatto che il
prof. Cuzzocrea presentasse delle richieste di rimborso a nome mio. Solitamente,
ci rivolgevamo al prof. Cuzzocrea quando mancava qualcosa in laboratorio, e
sapevo che lui anticipasse le spese per l’acquisto del materiale di consumo.
Pertanto, quando mi venivano accreditate sul conto corrente personale le somme
da parte dell’Università, io procedevo immediatamente a rigirarle al professore
Cuzzocrea, pensando che si trattasse di rimborsi per spese da lui sostenute per
l’acquisto di materiale da laboratorio che, di volta in volta, gli chiedevamo di
acquistare. Pensavo fosse una procedura regolare trattandosi comunque di soldi
tracciabili e accreditati sul conto corrente da parte dell’università di
Messina, procedura tra l’altro avvallata anche dagli uffici amministrativi”.
Non a caso il gip parla dell’esistenza “di un vero e proprio sistema
architettato dal Cuzzocrea per appropriarsi di parte dei fondi destinati alla
ricerca, di cui egli aveva la disponibilità giuridica, mediante un sistematico
abuso delle proprie funzioni pubbliche (di responsabile scientifico dei progetti
e di rettore dell’Università), accompagnato dalla predisposizione di atti falsi
o di altri artifici, tali da gonfiare gli importi chiesti a titolo di rimborso”,
scrive il gip Fiorentino. Che sottolinea anche: “Approfittando del clima di
soggezione e, in parte, di lassismo degli organi deputati all’istruttoria ed ai
controlli: in taluni casi l’indagato ha chiesto il rimborso quali spese
afferenti ai progetti di ricerca di beni destinati alla già menzionata società
Divaga, in altri si è addirittura munito di scontrini precedentemente gettati
dai clienti all’interno degli esercizi commerciali, ove era solito fare
acquisiti”.
Ma non è ancora tutto, in un altro caso il comune di Messina aveva a
disposizione del basolato in eccesso, frutto di un lavoro ormai concluso in una
struttura, ne ha dunque fatto dono all’università di Messina. Quel basolato,
però, secondo quanto ricostruito dalle magistrate, è finito nell’ampio maneggio
di cui Cuzzocrea è titolare per l’80 per cento (il restante 20 è della moglie).
L'articolo Messina, l’ex rettore Cuzzocrea e la caccia agli scontrini nel
negozio cinese per chiedere i rimborsi all’Ateneo proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Un’altra indagine sul narcotraffico. Ma sotto la superficie, fra telefoni
criptati, porti lontani tra uniti nell’utilizzo e scambi di denaro che non
passano mai per una banca, c’è un traffico che attraversa mezzo mondo. E
racconta la storia di un’alleanza silenziosa tra ’ndrangheta, broker albanesi e
narcos sudamericani. E, in un angolo meno visibile, di un uomo che non porta
armi: un cambista cinese capace di far viaggiare milioni senza far muovere un
euro. E così martedì mattina i finanzieri del comando provinciale di Milano e
gli investigatori del Servizio centrale anticrimine hanno notificato ventotto
ordinanze: venticinque finite in carcere e tre ai domiciliari. L’accusa della
procura di Milano è quella di fa parte di un’organizzazione criminale armata che
ha orchestrato, finanziato e portato in Europa tonnellate di cocaina dal Sud
America.
LA RETE DELLE TRE MAFIE
L’indagine, coordinata dalla Direzione Nazionale Antimafia, ha svelato una trama
complessa, un intreccio di accordi tra gruppi criminali calabresi, lombardi e
campani. Al centro, la “famiglia Barbaro” di Platì, un nome storico della
’ndrangheta, abituato a muoversi con disinvoltura tra le rotte globali della
polvere bianca. È stata individuata una vera centrale operativa in Lombardia,
con tentacoli in Germania, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito, Colombia e Brasile.
Un hub internazionale che, in due anni, avrebbe movimentato droga per un valore
di oltre 27 milioni di euro. Il metodo era quello dei professionisti: porti
diversi—Livorno, Rotterdam, Gioia Tauro, Le Havre—e sempre la stessa tecnica, il
“rip-off”, il trucco con cui i narcos infilano la droga dentro container
perfettamente regolari, lasciando ai complici il compito di recuperarla prima
che la merce legale venga scaricata.
IL RUOLO DEI BROKER ALBANESI
Il vertice dell’organizzazione parlava direttamente con broker albanesi di peso
internazionale, figure chiave nel moderno narcotraffico europeo. Esperti di
logistica criminale, in grado di muovere carichi di cocaina come fossero
spedizioni commerciali. Le loro conversazioni, protette da sistemi di
messaggistica criptata, sono state recuperate grazie alla collaborazione di
Eurojust ed Europol. È da quelle chat che gli investigatori sono riusciti a
ricostruire i movimenti della rete e identificare gli uomini coinvolti.
IL CAMBISTA E IL DENARO INVISIBILE
Tra gli arrestati, c’è un personaggio insolito per un racconto di mafia: un
cittadino cinese, un cambista. Il suo compito era far viaggiare i soldi senza
farli vedere, usando il sistema di compensazione informale noto come fei eh
’ien, un metodo antico e diffusissimo in Asia, dove il valore si sposta senza
che si muovano contanti o vengano tracciati bonifici. Era lui a garantire che i
narcos venissero pagati. Una sorta di banca ombra, silenziosa, invisibile, ma
cruciale quanto le armi o i container.
TRE TONNELLATE E MEZZO DI COCAINA
Secondo gli investigatori, in due anni la rete avrebbe gestito importazioni per
oltre 3,5 tonnellate di cocaina, di cui più di 400 kg sequestrati in Italia e
all’estero. Una catena produttiva senza pause, dalla Colombia e dal Brasile fino
alle banchine dei porti europei. Perquisizioni e controlli sono stati eseguiti
nelle province di Milano, Pavia, Bergamo, Parma, Imperia, Como, Roma, Taranto e
Reggio Calabria, con unità cinofile antidroga impegnate a setacciare depositi,
abitazioni e magazzini.
L'articolo Il cambista cinese, i narcos e la rete delle tre mafie. “Storia” di
un traffico globale: 28 arresti proviene da Il Fatto Quotidiano.
I Calajò sono in carcere, sotterrati da anni di condanne (non definitive). Ma
questo non sembra preoccupare più del dovuto Nazza lo zio e Luca il nipote,
perché, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Milano, personaggi
“storicamente inseriti nel medesimo sodalizio, come Vladimiro Rallo e Francesco
Perspicace si esprimono come attuali appartenenti a un’unica associazione
criminale, anche in contrapposizione ad altri gruppi delinquenziali che,
approfittando dell’assenza dei Calajò, cercano di primeggiare”. Rallo oggi è
indagato nel filone che ha portato in carcere la Super Mamacita della coca Katia
Adragna. Per lui la Procura di Milano si è vista respingere la richiesta
d’arresto. Nel medesimo fascicolo Franco Perspicace, catanese di Caltagirone
classe ‘60, risulta denunciato all’autorità giudiziaria come emerge
dall’informativa finale della polizia penitenziaria del carcere di Opera sulle
“indagini svolte a carico dei seguenti indagati”. Il nome di Perspicace sta al
numero 28 dell’elenco proprio prima di quello di Vladimiro Rallo.
“KATIA ADRAGNA È UNA SBIRRA INFAME?”
Detto questo, Perspicace in perfetta sintonia con quanto scritto dalla Procura
di un suo sentirsi “appartenente a un’unica associazione criminale” appena un
anno fa, quando il nome della narco madrina compare in una chiusura indagini
riguardante sempre la Barona, inizia a preoccuparsi. Il motivo è legato al fatto
che, se pur Adragna risulti organica al gruppo Barona, per lei, fino a pochi
giorni fa, non è mai stato chiesto il carcere. Il pensiero di Perspicace che
raccoglie i dubbi di Rallo e di altri pro consoli della banda, è che la Mamacita
di via De Pretis in quell’inverno del 2024 possa essere una informatrice della
polizia giudiziaria. E’ il 5 novembre quando Perspicace ne parla con il
figliastro Mattia Gelmini, anche lui indagato e libero, nonostante i suoi
contatti diretti con Luca Calajò. Dice Perspicace, il cui telefono sarà
intercettato per mesi: “Te l’ho detto che ho parlato con Vladi? Che ti ha
detto?”. Gelmini: “Le solite cose che si dicono in giro!”. Perspicace: “Sì, sì.
Però siccome c’era di mezzo la Katia. Mi ha detto (Vladi Rallo, ndr): ‘Ma
ascoltami, fammi capire, a te ti risulta che la Katia è sbirra? E’ infame o
no?’”. Gelmini, alias il farmacista, si legge nella richiesta di arresto, dunque
“condivide con Perspicace le preoccupazioni e i timori legati alla circostanza
che, nonostante le varie indagini e contestazioni a carico dell’Adragna,
quest’ultima non sia stata ancora arrestata” e “ciò induce (…) a sospettare che
la donna potrebbe aver deciso di collaborare con la giustizia o comunque con le
forze dell’ordine”.
PERSPICACE “PARLAVA MOLTO POCO”
Del resto, annota la polizia penitenziaria nella sua informativa finale, “sia
Perspicace sia Rallo, dopo la notifica dell’avviso chiusura indagini, si sono
recati personalmente dalla Adragna, evidentemente spinti dall’esigenza di
discutere con lei dei contenuti del predetto avviso”. Insomma se pur come detto,
la sua posizione è quella di denunciato all’autorità giudiziaria e non
formalmente di indagato, Perspicace sembra preoccuparsi molto della tenuta del
gruppo criminale tanto da accertarsi che non vi siano crepe o pentiti. I
magistrati lo definiscono “esponente di prim’ordine della galassia criminale dei
Calajò”, “un pezzo da novanta” e “affermato elemento di spicco del clan della
Barona”. In via De Pretis a casa della Mamacita, Franco Perspicace ci andrà
anche per altro. Di quegli incontri sarà testimone diretta Rosangela Pecoraro,
detta Rosy Bike, anche lei madrina della coca per conto di Nazza Calajò e oggi
collaboratrice di giustizia. “Francesco Perspicace – dirà ai pm Francesco De
Tommasi e Gianluca Prisco – è un altro, come Claudio Cagnetti, che parlava
molto, molto poco. E’ molto silenzioso, l’Adragna era quella che teneva banco e
parlava di soldi (…) in queste circostanze secondo me voleva entrare a fare
qualcosa con lui perché comunque lui disponeva, avendo questa intermediazione.
Però che si parlasse con Adragna di stupefacenti non lo posso dire, di denaro
sì”.
CHI È FRANCESCO PERSPICACE
Nei suoi verbali lo cita diverse volte. I magistrati si mostrano molto
interessati alla posizione di Perspicace, il quale, fin dagli Anni duemila
risulta attivo nel campo dell’intermediazione immobiliare. Già nel 2009, in un
report sulla presenza della criminalità organizzata a Milano, i carabinieri del
Nucleo investigativo di via Moscova annotavano: “Il gruppo siciliano Nazzareno
Calajò – Claudio Cagnetti – Francesco Perspicace ha mire espansionistiche su
altre zone della città e sull’hinterland. Gli introiti realizzati con le
attività illecite sarebbero reimpiegati nell’acquisto di unità immobiliari nelle
zone centrali della città, servendosi di agenzie immobiliari”. Allo stato a lui
sono riferibili tre società immobiliari, di cui una porta lo stesso nome di una
srl ormai cancellata, tra i cui soci vi era l’ex compagna e Cristian Perspicace,
coinvolto come Francesco nella iniziali indagini sul gruppo della Barona dei
primi anni duemila. In quegli atti così viene sancita l’esistenza del “gruppo
Barona almeno dalla fine del 1997, gruppo di cui a tutti gli effetti fanno parte
in qualità di vertici Nazzareno Calajò, Claudio Cagnetti, Francesco Perspicace”.
Un anno dopo, il 9 maggio 1998, la banda della Barona, coinvolto anche
Perpicace, dà vita a scene da far west con una sparatoria in via Faenza contro i
catanesi del Corvetto. Sarà uno spartiacque. Perspicace fugge in Francia, Calajò
con l’amico Cagnetti in Spagna. E nonostante questo la banda prosegue i suoi
affari sotto la guida di Luca Calajò, nipote di Nazza.
LA LATITANZA IN ROMANIA
All’epoca Alessandro M., sarà “l’uomo di fiducia di Perspicace” svolgendo “il
ruolo di addetto a curare e a portare a termine le operazioni immobiliari per
conto degli esponenti del gruppo”. Tanto che da un intercettazione agli atti
dell’inchiesta El Nino (2006) dell’allora pm Laura Barbaini e del Gico della
Guardia di finanza di Milano, secondo lo stesso magistrato, si avrà “la
dimostrazione probatoria documentale delle tesi dell’accusa in ordine alle
modalità con le quali Francesco Perspicace consentiva la pulitura del denaro
proveniente dal traffico illecito”. Reato che non fu contestato anche perché
all’epoca della richiesta di arresto “la posizione di Perspicace assieme a
quelle di Nazza Calajò e Cagnetti furono separate perché già giudicate”. Pochi
giorni dopo la sparatoria di via Faenza, lo stesso Alessandro M. contatterà più
volte il telefono di Perspicace intestato a una sua immobiliare, la Lifra
all’epoca con sede in via Santa Rita. In quel momento il telefono aggancia una
cella francese. Nel 2005 poi Perspicace è di nuovo uccel di bosco, catturato
latitante in Romania. Se ne era andato poco prima di una sentenza di condanna.
Tra l’aprile e il dicembre ‘98, poi, lo stesso cellulare intestato alla Lifra
contatterà un rappresentate dei cartelli colombiani della droga residente in
Spagna e fornitore della banda della Barona.
IL CORE BUSINESS DELLA DROGA
E se allora, secondo gli atti di quelle inchieste, per Perspicace la droga era
uno dei suoi core business, oggi, nell’ultima indagine su Katia Adragna i
sospetti di un ritorno al vecchio amore non sono al momento diventati evidenze
probatorie. E però lui, con la Mamacita ci parla spesso in modo riservato
attraverso messaggistica istantanea. A riprova una intercettazione di Adragna
che non avendo più soldi per internet è costretta a chiamare con linea
ordinaria: “Amò sono la Katia! Scusa se ti chiamo normale, ho finito internet”.
Il 16 ottobre 2024, poi, Perspicace con la Mamacita e Mattia Gelmini si recano a
Bollate per incontrare Giuseppe D. “un potenziale fornitore”. Il sospetto è la
droga anche se a margine dell’incontro monitorato gli inquirenti scrivono: “Non
è dato sapere quale sia stata la ragione effettiva dell’incontro”. Alla sera
sempre del 16 ottobre, poche ore dopo l’incontro, Adragna al telefono con
possibili acquirenti di droga fa sapere di “essere apparecchiata bellissima”,
così, annota la polizia giudiziaria, “lasciando intendere che è provvista di
sostanza stupefacente . Insomma, il grande libro della banda della Barona
prosegue con colpi di scena e inaspettati ritorni.
L'articolo Banda della Barona, i sospetti sulla Super Mamacita: “Katia è una
sbirra infame?” proviene da Il Fatto Quotidiano.