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Ex Ilva, scadono i termini per le offerte. Il gruppo Flacks svela la sua proposta (tra investimenti ed esuberi)
“Dobbiamo aspettare la giornata, le offerte arrivano ai commissari che poi devono eventualmente valutare”. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, chiede di attendere le 24 di giovedì quando scadono i termini per la presentazione delle offerte per l’acquisizione dell’ex Ilva. Al momento le offerte note sono quelle dei due fondi americani Bedrock Industries e Flacks Group: Urso aveva citato l’interesse di altri due player extraeuropei, senza rendere noti però i nomi. L’OFFERTA D’ACQUISTO: INVESTIMENTI ED ESUBERI Michael Flacks, fondatore di uno dei due gruppi in gara, spiega – in un’intervista a Bloomberg – i contenuti della proposta già formalizzata ai commissari di Acciaierie d’Italia. A poche ore dalla scadenza Flacks rivela: “Il nostro piano prevede 8.500 lavoratori“, precisando che “non vogliamo fare crescere” il polo dell’ex Ilva. Tradotto oltre 1.200 esuberi, rispetto ai 9.741 lavoratori attualmente dipendenti di Acciaierie d’Italia in Amministrazione Straordinaria, di cui di cui 7.938 a Taranto. Flacks Group ha offerto solo un euro per l’acquisto dell’acciaieria ma il fondatore stima investimenti per 5 miliardi di euro per il complessivo risanamento dell’ex Ilva. Lo Stato manterrebbe una quota del 40% nell’ex Ilva che poi Flacks acquisterebbe in futuro per una cifra compresa tra 500 milioni e un miliardo di euro. “Non compro aziende redditizie“, ha spiegato Flacks a Bloomberg: “Ho comprato edifici che erano spazzatura e li ho trasformati in oro. È l’unica cosa che ho sempre fatto”. Per quanto riguarda i problemi ambientali da affrontare a Taranto il fondatore del gruppo si dice ottimista: “Probabilmente – afferma – sono il maggiore acquirente al mondo di passività ambientali”. Flacks – a differenza del gruppo Bedrock – si è presentato solo in seguito al secondo bando e non alla gara lanciata a fine luglio 2024. URSO: “INTERVENTO PUBBLICO? PIUTTOSTO REALISTICO” Intanto il ministro Urso definisce come “piuttosto realistica” l’ipotesi dell’ingresso dello Stato nell’Ilva. Se il gruppo privato che intende acquisire il gruppo Ilva richiede la presenza dello Stato nel capitale della newco per rafforzare gli investimenti necessari alla decarbonizzazione e al rilancio dell’Ilva, questo sarà possibile attraverso l’intervento di una partecipata pubblica “all’interno della procedura di gara“. “Ho sempre detto che una partecipazione pubblica poteva esserci se richiesta dal soggetto privato in corsa per la gara di acquisizione, e quindi ove necessari’ può scendere in campo un investitore pubblico che rafforzi un eventuale piano di investimenti o realizzi con altri una proposta all’interno di una procedura di gara”. Questa seconda ipotesi è possibile, ha spiegato Urso, perché “con questo tipo di gara in corso è sempre possibile che un soggetto si presenti purché abbia una proposta migliorativa rispetto a quella in campo”. Intanto – tra lo scetticismo e le proteste dei sindacati – i lavoratori attendono di conoscere, dopo la scadenza dei termini, il futuro dell’ex Ilva. L'articolo Ex Ilva, scadono i termini per le offerte. Il gruppo Flacks svela la sua proposta (tra investimenti ed esuberi) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Stellantis avvia la produzione della 500 ibrida a Mirafiori e si autocelebra. Urso esulta: “Mantengono le promesse”
Ottobre non fa primavera, anche se a Mirafiori John Elkann e Antonio Filosa, presidente e Ceo di Stellantis, il sindaco di Torino Stefano Lorusso, il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio e il ministro del Made in Italy Adolfo Urso hanno trionfalmente celebrato l’avvio della produzione della Fiat 500 ibrida, l’auto che deve rilanciare lo storico stabilimento. E contribuire anche alla riscossa del marchio: lo scorso mese in Europa Fiat ha guadagnato il 21%, quattro volte il mercato europeo, ma il bilancio da inizio anno resta negativo: -13,4%, mentre l’andamento complessivo è leggermente positivo (quasi il 2%). Urso ha rivendicato il ruolo dell’Italia, che grazie all’intesa con la Germania, ha accelerato il processo di revisione delle norme sulle CO2 e frenato le multe: il sito (3 milioni di metri quadrati con, attualmente, attorno ai 12.800 addetti, inclusi i colletti bianchi oltre alle tute blu) “è un simbolo soprattutto perché si tratta di una tappa cruciale del percorso che abbiamo avviato per primi in Italia, per primi in Europa, nel nostro ministero per garantire che la transizione dell’automobile non lasci indietro l’Italia e la sua filiera”. Ha sostenuto e reso merito a Stellantis di non aver licenziato come sta accadendo, ha ricordato, in altri Paesi, come in Germania, evitando di menzionare i 10.000 dipendenti in meno del gruppo dal 2021 in poi nonché la raffica di cassa integrazione che colpirà tutti gli stabilimenti almeno nei primi sei mesi del 2026. Ed evitando anche di citare il crollo della produzione nazionale, appena 300.000 auto nel corso del 2024 riportando il Belpaese indietro di quasi settant’anni. Senza contare che il 2025 si chiuderà con cifre ancora peggiori. Ciò nonostante, Urso ha affermato che “a un anno dall’annuncio del piano Italia di Stellantis, possiamo dire con chiarezza che molti passi avanti sono stati compiuti, siamo sulla strada giusta, sulla strada della responsabilità sociale della squadra Italia, come auspicai proprio qui, quando celebrammo insieme i 125 anni della Fiat”. Con la 500 “i” (inclusiva, iconica e italiana, oltre che ibrida, ha evidenziato Olivier Francois, numero uno di Fiat) sono state anche assunte 400 persone e ritorna il secondo turno. Da gennaio lo stabilimento lavorerà dalle 6 di lunedì alle 22 di venerdì per assicurare la produzione del nuovo modello (ne sono previste 100.000 unità l’anno), che si sommeranno alla versione elettrica, decisamente meno richiesta (tra le 20 e le 25 mila). La produzione ufficiale è cominciata lo scorso 15 novembre – questo fine settimana la macchina debutterà già nelle concessionarie – ed entro fine anno ne verranno assemblati 6.000 esemplari, mille in più di quelli immaginati, per venire commercializzati ad un prezzo base di 16.950 euro. “Sono felice di questo incontro – ha spiegato Filosa – per ribadire con fermezza e convinzione, e con la forza delle azioni concrete, la nostra determinazione a fare tutto il possibile affinché l’Italia faccia la sua parte nel riportare alla crescita l’industria automobilistica europea. Stellantis sta mantenendo i propri impegni con il suo piano per l’Italia, dando priorità alla competitività e alla sostenibilità industriale”. Promesse, le ennesime, che si spera non vengano smentite nel giro di poco tempo se l’auto non dovesse ricevere un’adeguata risposta dai consumatori. La nuova 500 ibrida, che in realtà è la conversione di un modello nato per essere esclusivamente elettrico, per Filosa è “esattamente il prodotto di cui l’Europa ha bisogno per ringiovanire il suo parco auto, fatto da 150 milioni di autovetture (quasi il 60% del totale), che hanno più di 10 anni, quindi più inquinanti”. Il presidente Elkann ha promesso che “entro il 2027 (la palazzina uffici di Mirafiori, ndr) ospiterà migliaia di colleghi, a ribadire ancora una volta il ruolo centrale che Torino riveste per Stellantis”. Elkann ha parlato all’Unione Europea, esprimendo una richiesta per un “inderogabile obiettivo”, che è “un nuovo e tempestivo quadro normativo che consenta ai costruttori di produrre e commercializzare le auto che i clienti desiderano e, soprattutto, vogliono comprare”. Pur confermando una “immutata fiducia” nel futuro elettrico – ribadita dal Battery Technology Center, dalla linea di assemblaggio per trasmissioni elettrificate eDCT e dal Circular Economy Hub – il presidente ha avvertito che il gruppo è pronto: “Il mercato certamente non lo è. E per mercato intendo le persone, i clienti”. La 500 ibrida è una risposta alla “loro richiesta ampliando la loro scelta”. Ora bisognerà capire cosa ne pensa il mercato. L'articolo Stellantis avvia la produzione della 500 ibrida a Mirafiori e si autocelebra. Urso esulta: “Mantengono le promesse” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ex Ilva, la protesta a oltranza degli operai: “Urso vuole chiudere la siderurgia in Italia, inaccettabile”
“Non ce ne andiamo di qui finché non si apre un tavolo su Genova. Lo deve convocare chi governa il Paese, la città e la regione. Qui si perdono mille posti di lavoro, credo sia una ragione sufficiente”. Così Armando Palombo, delegato Fiom e portavoce dei lavoratori dell’ex Ilva di Genova, spiega il blocco stradale con il quale i laboratori di Acciaierie d’Italia, da questa mattina, hanno bloccato la viabilità all’altezza di Cornigliano. Dopo l’assemblea, i lavoratori in sciopero hanno portato in strada i mezzi pesanti dell’acciaieria e hanno deciso un presidio a oltranza. Nel frattempo lo stabilimento è occupato e lo stesso sta avvenendo a Novi ligure. I lavoratori del polo genovese hanno montato un gazebo e una tenda, nonostante le temperature in calo e il maltempo in arrivo: “Ci prepariamo a dormire qui”. Il presidio, all’incrocio tra via Siffredi, la strada Guido Rossa e via Cornigliano, è destinato a restare finché non arriverà quella convocazione che oggi nessuno ha ancora annunciato. “Non staremo a vedere Taranto che affonda e si porta dietro una fabbrica ancora in grado di produrre – ha spiegato Palombo a ilFattoQuotidiano.it – se solo ci fosse volontà politica e imprenditoriale di farlo“. Il nodo resta il “piano Urso” per l’ex Ilva, che secondo sindacati e lavoratori mette a rischio mille posti di lavoro a Genova e segna un passo verso l’uscita dell’Italia dall’acciaio. “Non si tratta solo di salvaguardare i nostri posti di lavoro – spiega a ilFattoQuotidiano.it Adriano Garofalo, operaio e delegato sindacale di Acciaierie d’Italia – si tratta di chiudere con l’acciaio e la siderurgia in Italia: è una scelta miope e non solo per Genova”. Il capoluogo ligure, da anni in crisi occupazionale e demografica, vede nel polo di Cornigliano uno dei pochi presidi industriali rimasti. Sul fronte istituzionale, la sindaca di Genova Silvia Salis attacca a sua volta il governo. “Sono estremamente preoccupata per lo stallo totale che si sta verificando sulla vertenza ex Ilva, con un migliaio di lavoratori e di famiglie genovesi che rischiano seriamente di perdere salario e impiego e una città e un Paese che rischiano di perdere uno dei principali asset di sviluppo economico e industriale – ha commentato in un comunicato diffuso in mattinata -. Il governo ha fallito troppe volte nella ricerca di una soluzione efficace per il futuro dell’azienda, dei lavoratori e dell’industria di questa città e di questo Paese. Il momento delle risposte è già arrivato da tempo e non è più procrastinabile”. La sindaca per ora non si è recata al presidio e si appella ai lavoratori “affinché le comprensibili azioni di protesta restino nell’alveo del rispetto del resto della cittadinanza”. Nessun segnale da Roma: “Aspettiamo una chiamata – sottolinea Palombo – al momento non c’è niente di niente. Eppure l’annuncio ieri è stato chiarissimo. Abbiamo chiesto una solidarietà vera, non un comunicato. Che vengano sospese le sedute comunali e regionali e si apra un tavolo per salvare questi mille posti di lavoro”. Per i sindacati il cosiddetto “ciclo corto” prospettato dai commissari equivale alla progressiva chiusura dell’intero complesso ex Ilva. Torna d’attualità l’ipotesi dello spezzatino, con la possibilità che lo stabilimento di Genova segua un destino parzialmente autonomo rispetto a Taranto, a patto che continui ad arrivare materia prima. L'articolo Ex Ilva, la protesta a oltranza degli operai: “Urso vuole chiudere la siderurgia in Italia, inaccettabile” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ilva, gli “ulteriori interventi” e il “nuovo acquirente”: perché i sindacati avvisano che quello di Urso è un “piano di morte”
Sono solo due righe ma abbastanza ambigue da scatenare un putiferio. I sindacati non hanno dubbi: sono la pietra tombale sul futuro dell’Ilva e il governo non ha voluto chiarire il loro significato. Da marzo 2026 “sarà comunque necessario fare ulteriori interventi, auspicabilmente a cura del nuovo acquirente”, hanno scritto i commissari nel “piano corto” che spiega come verrà tenuta in vita l’acciaieria nei prossimi mesi. È tutta qui la radice di uno scontro che si ingrossa di ora in ora con Fiom, Fim e Uilm sul piede di guerra e gli operai che hanno scelto di occupare strade e tangenziali a Genova e Novi Ligure. Il sospetto, insomma, è che non esista una strategia che vada al di là dei prossimi tre mesi né ci sia la volontà di sostenere finanziariamente un impianto che necessita di miliardi di euro per arrivare a una svolta ambientale e occupazionale. La sintesi più accalorata è quella del segretario della Uilm Rocco Palombella che, accanto agli altri leader Michele De Palma e Ferdinando Uliano, a un certo punto non si trattiene: “Marzo arriverà e tutte le sue cazzate verranno a galla”. L’uomo in questione è il ministro delle Imprese Adolfo Urso, considerato colui che sta portando il siderurgico verso la fine dopo tredici anni di vertenza che nessun esecutivo ha mai risolto in maniera definitiva. “Il suo è un piano di morte”, va ripetendo Palombella. De Palma (Fiom) lo paragona alla regina Maria Antonietta e le sue famose brioche durante la crisi del pane in Francia: “Ci dice che non ci saranno altre 1.500 in cassa integrazione perché daranno loro la formazione. La realtà è che cambia sempre idea e ci manca di rispetto”. Affonda perfino il più moderato dei tre, il numero della Fim Uliano: “Vanno verso il ridimensionato, vogliono una mini-Ilva. Parla di improbabili acquirenti, di alcuni non ci comunica neanche i nomi. La presidente del Consiglio prenda in mano la situazione”. Il ministro è la figura più impallinata nel day-after dell’ultimo incontro sulla vertenza a Palazzo Chigi, senza che Giorgia Meloni abbia mai preso in mano il dossier, mossa che i sindacati chiedono da tempo. Lo stato dell’arte dice che è arrivato un passo indietro sull’aumento dei cassa integrati, che faranno formazione fino a fine febbraio. Un pannicello caldo. Perché non c’è un raggio d’azione che vada da marzo in poi. Non si fidano più, guardano con sospetto ogni mossa. “Ci hanno certificato che l’1 marzo 2026 sarà una sorta di lutto nazionale, scompariranno posti di lavoro – attacca Palombella – Chiediamo ai partiti e alla premier di interessarsi a quanto sta accadendo”. Il segretario della Fiom sottolinea invece come Urso abbia parlato di una “decarbonizzazione veloce”, accelerata rispetto agli otto anni preventivati ad agosto, ma “non risponde se è vero o no che de-finanziano Dri Italia”, la società che si dovrebbe occupare della costruzione degli impianti necessari ad alimentare i forni elettrici. “L’obiettivo è quello di fermare gli impianti – aggiunge De Palma – Non c’è un piano industriale verso la decarbonizzazione, quello presentato in estate non esiste più”. Anche la gara di vendita finisce nel mirino. La scelta dell’acquirente – cioè del privato che dovrebbe farsi carico di tutti quei lavori, e quindi di spese, che il governo ha rimandato alla primavera del prossimo anno – è al limite del tragicomico. Urso era entrato in una fase di negoziato in esclusiva con Baku Steel, poi il tutto si è arenato facendo slittare la chiusura dell’iter che, garantiva, sarebbe avvenuto entro il 2025. Quindi ha riaperto tutto, ritrovandosi con le offerte di soli due fondi – Bedrock e Flacks – e ora continua a tenersi aperte altre porte. Almeno a parole. “Parla di due nuove offerte, ma non ci dice i nomi e nel frattempo tratta con Bedrock che nella sua manifestazione di interesse prevede migliaia di esuberi”, rimarcano i sindacati. De Palma è implacabile: “I lavoratori sono diventati il bancomat dell’azienda, il governo non mette i soldi per la continuità produttiva”. La richiesta è unanime: “Diciamo al governo: fermatevi. Meloni decida se imboccare la strada in senso contrario come ha fatto Urso oppure se controsterzare. Intervenga lei e tolga di mezzo questo piano di chiusura”. Il rischio dietro l’angolo e condiviso: “L’Ilva è una questione strategica per i metalmeccanici e per l’Italia. Lo scontro che si è aperto riguarda non solo i lavoratori, ma il futuro industriale del Paese”. L'articolo Ilva, gli “ulteriori interventi” e il “nuovo acquirente”: perché i sindacati avvisano che quello di Urso è un “piano di morte” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ilva, il no dei pm al dissequestro di Afo1: “L’incendio di maggio? I dispositivi di sicurezza erano guasti”
L’altoforno 1 dell’ex Ilva di Taranto sarebbe stato rimesso in marcia nell’ottobre 2024 come se fosse tutto in ordine. Ma in realtà, secondo gli atti dell’inchiesta aperta dopo l’incendio che lo ha devastato nel maggio scorso, non lo era affatto. Insomma, quando il ministro delle Imprese Adolfo Urso andò a festeggiare la ripartenza dell’impianto, le sue condizioni erano tutt’altro che perfette. A rivelarlo sono i documenti dell’indagine della Procura di Taranto che nell’agosto scorso ha detto “no” al dissequestro. Secondo il pubblico ministero Francesco Ciardo, come anticipato da La Gazzetta del Mezzogiorno, l’incendio del 7 maggio divampò a causa del malfunzionamento di almeno una delle “termocoppie”, uno dei dispositivi di sicurezza dell’altoforno, che non segnalò l’aumento della temperatura, contribuendo a scatenare le fiamme che gli operai definirono “mai visto prima”. Un rogo gigantesco, colonna di fumo visibile per chilometri, finito con il sequestro dell’Afo1 e con lo scontro istituzionale tra i magistrati e il ministro Urso. Il titolare del Mimit, allora, accusava i magistrati di aver bloccato con la loro attività necessarie alla salvaguardia dell’impianto – che doveva essere spento, in quel momento, ma i lavori dell’Afo2 erano in ritardo – e di mettere con la loro azione a rischio la vendita del siderurgico. Ma ciò che emerge ora dagli atti è che perfino quando Urso entrò in stabilimento per la cerimonia di riavvio dell’altoforno, in ottobre, l’impianto non era affatto in piena efficienza. Secondo i documenti citati da La Gazzetta, la termocoppia della tubiera 11 – “letteralmente liquefatta” durante l’incendio, scive il pm – “risultava guasta già dalla ripresa delle attività dell’ottobre 2024”. E a sette mesi esatti dal riavvio, la stessa apparecchiatura non era stata “mai sostituita né riparata”. Non si tratta, tra l’altro, di un caso isolato: al momento dell’incidente, le termocoppie non operative erano 11 su 96, oltre il 10%: “Un numero significativo”, annota la procura nel decreto con cui, nell’agosto scorso, ha rigettato la richiesta di revoca del sequestro avanzata da Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, gestore dell’impianto e guidata da 3 commissari scelti proprio da Urso. Quel provvedimento – rimasto finora inedito – mette in fila tutte le cause dell’incendio individuate dagli inquirenti, sulla base delle analisi di Vigili del Fuoco, tecnici dello Spesal e dell’Arpa Puglia, oltre alla consulente della Procura, Paola Russo, docente alla Sapienza di Roma. Secondo i magistrati, “questa grave carenza ha impedito il tempestivo rilevamento di eventuali anomalie termiche” e “non ha consentito l’attivazione delle procedure operative previste”. Accertare le cause dell’incendio, si legge nel decreto, “risulta necessario e fondamentale per i rilevantissimi profili attinenti alla sicurezza dell’impianto e di conseguenza dei lavoratori ivi impiegati” e per la “comunità cittadina posta in prossimità dello stabilimento”. Da qui, il no al dissequestro. Anche perché, l’evento fu di “pericolosissima portata”, scrive la Procura. Parole che contrastano frontalmente con la narrazione politica delle ultime settimane. Solo pochi giorni fa, infatti, il ministro Urso aveva sostenuto che l’intervento della magistratura di maggio “ha ridotto le capacità produttive del sito, costringendo i commissari a rivedere i piani aziendali, chiedendo un ulteriore ricorso alla cassa integrazione”. Ma ciò che emerge dagli atti – e che Acciaierie d’Italia conosce da agosto – racconta ben altro: gli accertamenti “hanno evidenziato diversi profili di criticità relativi alle condizioni di precarietà manutentiva dell’impianto”, oltre a problemi di “inidoneità” o “omessa manutenzione delle apparecchiature finalizzate a segnalare la presenza di possibili guasti o situazioni di rischio”. Non solo: l’inchiesta ha messo a nudo anche i limiti delle procedure operative standard e delle prassi imposte ai lavoratori nelle situazioni di emergenza. Carenze che, scrive la Procura, non sono affatto “di superficiale rilievo”. La notizia arriva nel giorno in cui a Roma torna a riunirsi il tavolo tra governo e sindacati dopo l’annuncio dell’estensione della cassa integrazione fino a 6mila lavoratori a partire da gennaio. Una soluzione contestata dai metalmeccanici che parlano di un “piano di chiusura” e di “tradimento” di Urso. L'articolo Ilva, il no dei pm al dissequestro di Afo1: “L’incendio di maggio? I dispositivi di sicurezza erano guasti” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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