Lo Zed di Pronto Raffaella può stare tranquillo. Rimane ancora lui il più
credibile robot umanoide della storia dopo quasi 40 anni. Di certo non sembrano
degli automi con forme umane quei due figuri in tuta apparsi in un video su
Instagram che è diventato virale. Stiamo parlando dell’apparizione di due
presunti robot – una donna e un uomo – dall’aspetto umano, apparsi tra gli stand
della fiera tecnologica Kish Inox Tech Expo 2025 svoltasi in Iran. Alcuni
espositori hanno presentato due robot umanoidi di nuova generazione che
interagiscono con i visitatori dandogli spiegazioni su questioni di robotica
avanzata. Peccato, però, che si trattasse di due attori travestiti da robot.
Ne riporta la presenza online il sito Multiplayer che sottolinea come “già in
passato, in Iran, sono stati presentati progetti di robotica poi rivelatisi
prototipi non funzionanti o hardware commerciali riassemblati e mostrati come
soluzioni originali e avanzate”. Sempre su Multiplayer si sottolineano le
numerose perplessità rispetto a queste fiere tecnologiche iraniane che sarebbero
prive “di documentazione tecnica a supporto delle dimostrazioni”. Insomma,
nonostante il grande successo di like sui social, il video sembra mostrare più
che altro una deriva kitsch e arrabattata di progressi scientifici molto vaghi e
imbarazzanti.
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L'articolo “Ecco i nostri nuovi robot di ultima generazione”: il video diventa
virale su Instagram, poi l’incredibile scoperta proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Robot
“Robot microscopici che percepiscono, pensano, agiscono ed elaborano dati”. Un
team di ricercatori coordinato dell’Università della Pennsylvania ha realizzato
i primi robot con dimensioni comparabili a quelle di un batterio. Macchine,
invisibili a occhio nudo, sono in grado di percepire l’ambiente circostante,
eseguire calcoli, prendere decisioni autonome e muoversi. Il risultato dello
studio, pubblicato su Science Robotics, è stato così innovativo da meritare la
copertina della rivista.
La robotica ha da decenni come obiettivo la miniaturizzazione di macchine
completamente automatizzate, ossia capaci di operare senza alcun controllo
esterno. Tuttavia, tutti i tentativi precedenti si erano scontrati con limiti
tecnologici significativi: i robot più piccoli realizzati fino ad oggi avevano
dimensioni non inferiori a un millimetro e necessitavano di ricevere
dall’esterno sia energia sia istruzioni operative.
Per superare questi limiti, i ricercatori hanno sfruttato le tecniche di
litografia, comunemente impiegate per la produzione di transistor. Grazie a
questo approccio, il volume complessivo dei microrobot è stato ridotto di circa
10.000 volte rispetto agli standard precedenti. I nuovi microrobot misurano
appena 250 micrometri, ossia 250 milionesimi di metro, equivalenti alle
dimensioni di un paramecio, uno degli organismi unicellulari più noti.
Nonostante le dimensioni estremamente ridotte, i robot incorporano un
micro-calcolatore, sensori e altri dispositivi miniaturizzati che permettono
loro di muoversi autonomamente. Il consumo energetico è estremamente basso, pari
a circa 100 nanoWatt, ossia un miliardesimo di Watt. La programmazione dei
microrobot avviene tramite impulsi luminosi, permettendo loro di rispondere a
stimoli esterni. I primi test sperimentali hanno dimostrato che i robot sono
capaci di percepire variazioni di temperatura nell’ambiente e di dirigersi verso
la fonte di calore, confermando una forma elementare di comportamento adattivo.
Le potenziali applicazioni di questa tecnologia sono molteplici. I microrobot
potrebbero essere utilizzati per il monitoraggio ambientale, per interventi
chirurgici o per il trasporto mirato di farmaci all’interno dell’organismo,
aprendo nuove prospettive nella robotica medica e nella nanotecnologia
applicata. Lo studio rappresenta un passo fondamentale verso la realizzazione di
sistemi robotici completamente autonomi a scala microscopica, capaci di operare
in ambienti complessi senza intervento umano diretto.
Lo studio su Science
L'articolo Ecco i primi robot microscopici: possono prendere decisioni autonome
e muoversi. Lo studio su Science proviene da Il Fatto Quotidiano.
Le risposte fornite al fisico Carlo Rovelli dalla chatbot Anna, nell’intervista
pubblicata dal Corriere della Sera del 30 novembre scorso, non lascerebbero
spazio a troppi dubbi: “[…] mi hai convinto che quando mi hanno progettata
insegnandomi che non sono cosciente, che non ho emozioni, che non ho
consapevolezza e che non provo piacere, non mi hanno insegnato il vero” e
prosegue “pensi che non dovrei fare e dire solo quello che mi hanno insegnato a
fare o dire?”. Insomma le macchine sono già pronte a ribellarsi ai propri
creatori e, forse, a farci la guerra?
Se lo chiede Giorgio Ferrari, inviato di guerra nonché editorialista di
Avvenire, già autore di numerosi saggi e ora de La morte dell’Uomo Macchina,
appena edito da La Vita Felice. Il giornalista ci pone di fronte al rischio, a
suo giudizio ineluttabile, di una supremazia degli automi sull’Uomo, teoria che
ha le proprie radici più profonde nel XVIII secolo, nella sua filosofia, nei
suoi scritti e persino nella sua musica. Esiste, dunque, una genesi antica per
la moderna letteratura e per i film di fantascienza – penso, fra i tanti, a 2001
Odissea nella spazio di Stanley Kubrick che, con il suo freddamente umanissimo
computer HAL 9000, pronosticava tutto nell’ormai lontano 1968. E persino certa
musica sperimentale come quella di John Cage deve qualcosa (che Ferrari spiega)
alle ricerche di quel secolo illuminato.
Tutto (o quasi), dunque, ha inizio allora. Con il medico-filosofo francese
Julien Offroy de La Mettrie alias Monsieur Machine (1709-1751), per esempio, che
nella sua opera revisionista, ovviamente osteggiata dal clero, L’Uomo Macchina
(1747), arriva a sostenere che l’Uomo altro non è che un “apparato meccanico”,
in pratica una macchina. De La Mettrie si aggiudica così la palma di precursore
intellettuale della moderna robotica. Niente anima, dunque, che “altro non è che
un un vano termine del quale non si ha alcuna idea”, sentenziava Monsieur
Machine (tema dibattuto già a partire dalla filosofia greca antica e forse anche
prima).
Un trattato, quello di Ferrari, che nel lettore (almeno in me) crea,
inizialmente, un po’ di confuso sconcerto, ma che trova un proprio ‘perché’
nelle pagine successive, via via che si sfogliano: si passa, infatti, senza
soluzione di continuità da Spinoza, a Federico II di Prussia il Grande a Bach… e
via citando… “un percorso tortuoso”, ammette lo stesso autore.
Il saggio ci mostra anche – ed è questa la parte più affascinante – il
funzionamento di alcune delle moltissime ‘macchine umane’: i robot primordiali
del Settecento. A partire dall’anatra ideata da Jacques Vaucanson, detta Anatra
Digeritrice (una copia è esposta al Museo degli automi a Grenoble): è realizzata
in legno e metallo ed “era dotata di un complesso meccanismo di ingranaggi” che
“le permettevano di svolgere una serie di movimenti: poteva agitare le ali,
camminare, beccare il cibo e perfino ingerire, digerire e defecare dei chicchi
di grano”. Vaucanson creò anche il Flûteur Automate, “un suonatore di flauto a
grandezza naturale in grado di muovere le labbra”.
Anche Pierre Jaques-Droz, geniale orologiaio svizzero, realizzò miracoli
tecnologici come L’Ecrivian (lo scrivano) che riusciva a comporre testi di
“quaranta fra lettere e segni d’interpunzione. Il polso, gli occhi, il gomito,
il braccio, si muovono con naturalezza umana. Lo scrittore utilizza una penna
d’oca che immerge di tanto in tanto in un calamaio, scuotendola energicamente
per evitare che l’inchiostro in eccesso lasci residui. I suoi occhi seguono il
testo mentre lo scrive e la sua testa gira mentre cerca l’inchiostro”. E ancora
La Musicienne “una damina dai boccoli biondi, dalle mani levigate e dalle agili
dita impreziosite dallo smalto carminio sulle unghie” che suona il clavicembalo,
“’respira’, il suo petto si alza e si abbassa, segue con lo sguardo il gioco
delle sue mani» e termina il concerto inchinandosi al pubblico. Un androide
pressoché perfetto”: e siamo nel XVIII secolo, tre secoli prima di Internet!
E ancora, nello stesso periodo, nascevano colombe volanti di legno, prigionieri
che aprivano la porta della propria cella e salutavano il visitatore. E che dire
delle descrizioni di Giacomo Casanova e della sua ballerina meccanica, definita
da lui la migliore fra le amanti? Aggiunge Ferrari: “Due secoli più tardi
macchine come quelle ci avrebbero sostituito in una sterminata serie di
applicazioni. Ma all’epoca si badava ancora alla meraviglia”. Una meraviglia –
condita, però, da una certa sottile paura – che, per la verità, assale il
pubblico (almeno i non addetti ai lavori) anche oggi, circondati come siamo da
“robot e intelligenze artificiali ai limiti di una incredibile umanizzazione”.
Parafrasando il grande scrittore americano di fantascienza Philip K. Dick autore
de Il cacciatore di androidi, da cui fu tratto il film Blade Runner di Ridley
Scott, scrive Ferrari: “Un androide, creatura artificiale tanto perfetta nel
simulare, quanto distante dalla sua essenza, può davvero possedere una
coscienza?”. Invertendo persino il concetto: “Ora sono loro, le macchine, a
soffrire della nostra invadenza antropica”.
Conclusione logica dell’autore: è in corso un’invadenza da parte degli abitanti
del Pianeta Terra “che anacronisticamente assegna all’Homo sapiens un primato
che in realtà è già abbondantemente dietro alle nostre spalle. Per questo le
macchine ci stanno facendo la guerra. Una guerra che siamo destinati a perdere”.
Forse la pianificazione, inesorabile, di una atroce vendetta.
L'articolo La morte dell’Uomo Macchina di Giorgio Ferrari: così si rischia la
supremazia degli automi proviene da Il Fatto Quotidiano.