Tag - Legge di Bilancio

La soluzione del governo per salvare il bilancio traballante del Coni? Una bella lotteria (in barba alla lotta alla ludopatia)
L’hanno chiamato “Win for Italia Team”, “Vinci per la nazionale italiana”. Ma il nome, neanche troppo accattivante, non cambia la sostanza: in manovra spunta l’ennesimo gioco d’azzardo di Stato, seppure pensato con un nobile (?) intento. Sistemare il bilancio traballante del Coni, che perde milioni ogni anno. È una delle misure previste nell’ultimo pacchetto di riformulazioni alla Legge di Bilancio arrivata in commissione al Senato. I dettagli dovranno essere regolati da un provvedimento direttoriale dell’Agenzia delle dogane e dei Monopoli entro 60 giorni dall’approvazione della legge. Intanto si può dire che si tratterà di un gioco numerico a totalizzatore, quindi sostanzialmente una lotteria, senza alcuna attinenza con i risultati sportivi. Dovrebbe sfruttare una licenza esistente di Sisal, che così potrà diventare una specie di “sponsor” del Coni, visto che saranno previste partnership e iniziative promozionali con le nazionali olimpiche. Il 65% della raccolta sarà destinato a montepremi (in linea con quanto previsto per i giochi simili), il 26,5% finirà nelle casse del Coni per il finanziamento dei progetti dell’Italia Team. Alla proposta hanno lavorato per mesi i tecnici del Coni, insieme a quelli del governo, in particolare del Ministero dell’Economia e dell’Agenzia dei Monopoli. Per certi versi, si tratta di un ritorno all’antico: per decenni il Comitato olimpico e l’intero movimento si sono retti sui proventi del vecchio Totocalcio: una soluzione studiata nel dopoguerra dallo storico presidente Onesti e da niente di meno che un giovanissimo Giulio Andreotti, per superare il problema della dipendenza dalla politica dopo il fascismo. Un sistema che è andato avanti fino al 2003, quando dopo la riforma del settore si è tornati ad un finanziamento governativo, istituzionalizzato di recente dall’ex ministro Giorgetti nel 2018. E proprio l’esperienza del passato, evidentemente, ha fornito ispirazione per superare le difficoltà del presente. Come raccontato più volte di recente dal Fatto, il bilancio del Coni è diventato un colabrodo negli ultimi anni, dopo che la riforma di Giorgetti ha spostato soldi e potere alla partecipata Sport e Salute. Il Comitato semplicemente spende più di quanto possa permettersi, soprattutto nell’anno olimpico: i conti non stanno in piedi e il governo era costretto sistematicamente a rabboccare il finanziamento annuale per metterci una pezza. Era successo lo scorso anno, quando il governo aveva attinto dal tesoretto del 32% spettante allo sport, ma il problema si riproporrà anche nel 2026. Dunque, al netto di queste toppe, era necessario trovare una soluzione strutturale. Detto, fatto. L’addio di Malagò – che negli ultimi anni aveva creato per i suoi interessi personali un clima di conflittualità permanente con la politica – e la ripresa di un dialogo collaborativo col governo favorito dal nuovo presidente Buonfiglio, ha portato ad una soluzione al primo colpo, in questa manovra. Nella Legge di Bilancio erano già stati stanziati, a partire dal 2027, 10 milioni di euro in più all’anno per il Comitato. Adesso si aggiunge “Win for Italia Team”, col 26,5% della sua raccolta: chiaro che questi introiti – essendo il gioco ancora in fase di lancio – sono ancora tutti da quantificare. Ma comunque, tra gli uni e gli altri, il Coni (senza Malagò) dovrebbe aver risolto per anni i suoi problemi. Certo, qualcuno potrebbe far notare che questo non è nemmeno un gioco sullo sport, ma solo per lo sport. Chiedersi se le scommesse, senza alcuna componente di merito come invece poteva avere il caro vecchio Totocalcio, siano davvero lo strumento migliore per finanziare lo sport italiano. Obiettare che il gioco d’azzardo non è compatibile coi suoi valori, e con la lotta alla ludopatia sbandierata da tutti i politici. Però son sempre soldi. X: @lVendemiale L'articolo La soluzione del governo per salvare il bilancio traballante del Coni? Una bella lotteria (in barba alla lotta alla ludopatia) proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sport
Legge di Bilancio
Giovanni Malagò
Coni
Sconvocata la seduta della Commissione Bilancio, di manovra finanziaria se ne riparla lunedì
La Commissione Bilancio dà forfait sulla manovra. La seduta in calendario per le 23 di domenica 14 dicembre è stata sconvocata, come si legge dal calendario dei lavori parlamentari. Sono saltati anche gli incontri bilaterali con i gruppi. Erano attesi due ulteriori pacchetti di riformulazioni da parte del governo, con le misure per enti locali e imprese, in particolare la modifica per rendere pluriennale l’iperammortamento. Attesa anche la riformulazione dell’emendamento di FdI sulle riserve auree ovvero (l’oro di Banca d’Italia). Slittano quindi anche i primi voti sulla legge di Bilancio in prima lettura a Palazzo Madama e che deve essere approvata dal Parlamento entro la fine dell’anno. I lavori dovrebbero essere aggiornati a lunedì 15. L'articolo Sconvocata la seduta della Commissione Bilancio, di manovra finanziaria se ne riparla lunedì proviene da Il Fatto Quotidiano.
Politica
Legge di Bilancio
Senato
La Finanziaria 2025? Come il mercato delle vacche: nessuna valutazione d’impatto per il cine-audiovisivo
La settimana che si chiude venerdì 12 dicembre ha visto eventi e iniziative che stimolano rinnovati commenti critici su come sono (mal) governate le politiche culturali dell’Italia: vengono prodotti nuovi dataset numerici – non validati metodologicamente – per dimostrare la “forza” dimensionale di alcuni settori, osservati solo dal punto di vista economico… vengono messi in atto “tagli” assurdi all’intervento dello Stato, in totale assenza di analisi previsionali e valutazioni d’impatto… La gestazione della Legge Finanziaria 2026 si conferma irrazionale ed irragionevole, con una marea di emendamenti frutto per lo più di lobby e micro-lobby, con un ruolo del Parlamento sempre più marginale, a fronte della autoreferenzialità del Governo… Efficace un’espressione utilizzata dalla senatrice Alessandra Maiorino (M5s): la Legge di Bilancio è la dimostrazione di come l’Italia “sia governata da un consorzio di lobbisti”. Vale sicuramente per settori come la difesa (quanti sono i Paesi al mondo che possono vantare un Ministro della Difesa già alla guida dell’Aiad, la lobby dei produttori di armamenti, qual è il caso di Guido Crosetto?), e come la sanità (quanti sono i Paesi al mondo che hanno un grande proprietario di cliniche ad essere anche padrone di tre o quattro testate giornalistiche quotidiane, come Antonio Angelucci – pure parlamentare di Forza Italia e detentore di un record storico di assenteismo – che controlla sia il Gruppo San Raffaele-Tosinvest Sanità sia il Giornale, Il Tempo e Libero?!), ma vale anche per la cultura, sebbene le lobby di questo settore siano – al confronto – piccine picciò. Mercoledì 10 e giovedì 11, la storica associazione delle imprese del settore spettacolo dal vivo, l’Agis, ha celebrato il suo 80esimo compleanno, con variegati convegni e la presentazione di due volumi, entrambi interessanti (per gli studiosi di politiche culturali), ma purtroppo entrambi deficitari di un approccio sistemico, critico e strategico, segnati da una sostanziale rimozione del tema delle scelte pubbliche di allocazione delle risorse: si tratta di Lo Spettacolo in Italia. 1945-2025. Ottanta anni di Agis, a cura di Lucio Argano e Francesco Giambrone, per i tipi de il Mulino, e di Analisi, numeri e prospettive del settore dello spettacolo dal vivo tra economia, cultura e occupazione, curato da Alessandro Leon, presidente dell’Associazione per l’Economia della Cultura (Aec), edito dall’Agis stessa. Il primo volume interesserà gli storici della politica culturale, ma non affronta due questioni fondamentali: perché lo Stato italiano continua a privilegiare il cinema e l’audiovisivo, rispetto al teatro, la musica, la danza, il circo?! Perché Agis non affronta di petto la decisione assunta ormai dieci anni fa dal più longevo Ministro della Cultura della Repubblica, il dem Dario Franceschini, che ha aperto i cordoni della borsa privilegiando il cinema e la tv, a svantaggio dello spettacolo dal vivo, senza mai esplicitare una ratio di politica culturale complessiva?! Nel 2025, il Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo ha avuto un budget di poco meno di 700 milioni di euro, a fronte dei circa 450 milioni del Fondo Nazionale Spettacolo dal Vivo (il Fnsv, l’ex Fus ovvero “Fondo Unico dello Spettacolo”): nel 2026, ci sarà un paradossale riequilibrio, perché il governo ridurrà il sostegno al cinema da 700 a 550 milioni di euro (che dovrebbero divenire 610 a seguito di un emendamento dell’esecutivo approvato l’11 dicembre)… Ma nessuno – dicesi nessuno – ha affrontato, nel corso dell’ultimo decennio, il perché di queste allocazioni di risorse. E, a proposito di lobby, venerdì 12 sono scese in campo due associazioni: l’Associazione dei Produttori Audiovisivi (Apa) e Confindustria Radio Televisioni (Crtv), che lamentano i tagli al sostegno pubblico, ognuna dal proprio orticello di interessi. Senza che emerga una visione di sistema o un’analisi comparativa degli impatti. L’Apa ha diramato un comunicato piuttosto duro: “Ringraziamo il Governo per il parziale reintegro delle risorse destinate al Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo, ma segnaliamo che il recupero di 60 milioni è ben lungi dal garantire la sostenibilità del cinema e dell’audiovisivo. Il taglio residuo, unito all’impossibilità definita dalla norma di parziale copertura delle richieste sul budget dell’anno successivo, rappresentano un taglio effettivo per il settore di 250 milioni. Questa penalizzazione colpisce inoltre, in modo incomprensibile, le produzioni originali italiane di film, serie, documentari e animazione, lasciando l’opportunità alle sole produzioni esecutive di opere internazionali girate in Italia, che saranno le uniche a beneficiare di questa modalità”. E che dire di Crtv, che denuncia “un significativo taglio ai fondi destinati all’emittenza radio-televisiva locale”, la riduzione del “pluralismo informativo” e finanche “il prelievo colonialistico di risorse da parte degli Over-The-Top”, invocando finanche l’articolo 21 della Costituzione?! Si tratta – suvvia – di “soltanto” 20 milioni di euro, sul totale di circa 110 milioni per il 2025… Dal canto loro, sia il Pd sia il M5s lamentano le dinamiche in atto: “Aveva promesso il ripristino dei fondi che non è mai arrivato. Giuli non riesce a recuperare gli ingenti tagli subiti dal settore e conferma la sua ininfluenza sul settore. La riduzione dei tagli sono briciole rispetto alle reali necessità. Così la cultura italiana continua a pagare il prezzo di un governo assente e incapace. I tagli al cinema sono insostenibili” (Irene Manzi, Pd); “Alessandro Giuli aveva promesso lo stop ai tagli al cinema in manovra. Invece dopo uno stillicidio durato settimane e giocato sulla pelle delle professioniste e dei professionisti di questo settore, veniamo a sapere che quei tagli restano e sono pesanti. Uno schiaffo in faccia, l’ennesimo, a una intera categoria” (Gaetano Amato, M5s). Governo e lobby strumentalizzano i numeri per argomentazioni partigiane e apodittiche: un allegro mercato delle vacche… Dati utilizzati soltanto per rafforzare la propria autoreferenzialità… numeri funzionali a dimostrare il mantra del big is better… processi normativi che tagliano e aggiungono decine di milioni di euro senza alcun criterio (se non la forza o debolezza della lobby di turno), e nessuno che si prenda la briga di stimare gli effetti reali, di valutare le conseguenze dell’intervento della mano pubblica nei vari settori delle industrie culturali e creative. Totale assenza di valutazioni ex ante e ex post. Prevale confusione. Assenza di strategie. Governo nasometrico della cultura, ancora una volta. L'articolo La Finanziaria 2025? Come il mercato delle vacche: nessuna valutazione d’impatto per il cine-audiovisivo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Blog
Economia
Cinema Italiano
Legge di Bilancio
Tagli Spesa Pubblica
Bonus nuovi nati: come funziona e chi può presentare la domanda per avere i 1.000 euro
L’Inps allarga i servizi che mette a disposizione delle famiglie. L’ultimo in ordine cronologico – comunicato attraverso il messaggio n. 3515 – è un sistema attraverso il quale invita i potenziali beneficiari a chiedere il bonus nuovi nati nel momento in cui un bambino viene al mondo. BONUS NUOVI NATI, COME FUNZIONA L’AVVISO Il nuovo servizio – è partito nel corso del mese di novembre – prevede che, a seguito di una nuova nascita, arrivi alla famiglia una comunicazione tramite posta elettronica per invitare a presentare la domanda per ottenere l’assegno unico ed universale per i figli a carico e, nel caso in cui l’Isee dovesse essere inferiore al limite previsto per ottenere la prestazione, anche per chiedere il bonus nuovi nati. La comunicazione non arriverà trasversalmente a tutte le famiglie, ma solo agli utenti che hanno prestato il proprio consenso per ricevere le comunicazioni proattive dall’Inps. Proprio su questo punto ricordiamo che quanti fossero interessati a ricevere dei contenuti personalizzati si possono iscrivere direttamente sul portale istituzionale dell’Inps, accedendo all’area My Inps, all’interno della quale devono seguire il percorso i “I tuoi dati” poi “Contatti e consensi” della sezione “Adesione ai servizi proattivi”. COME FUNZIONA IL BONUS NUOVI NATI Il bonus nuovi nati è stato previsto dalla legge di Bilancio 2025. È un sostegno economico una tantum pari a 1.000 euro, rivolto alle famiglie dove è nato un bambino dopo il 1° gennaio 2025. Il contributo spetta anche in caso di adozione o di affidamento in via preadottiva. La finalità dell’iniziativa è quella di fornire un sostegno economico ai genitori, almeno nei primi momenti in cui i pargoli hanno fatto il loro ingresso in famiglia. Contribuendo, quindi, a sostenere le spese iniziali. Le condizioni per poter accedere al bonus nuovi nati sono rimaste immutate nel corso del tempo. Possono presentare la domanda per ottenerlo i cittadini italiani, i residenti di altri Paesi dell’Unione europea e i cittadini di Stati terzi che siano titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo o di altre autorizzazioni previste dalla legge. Nel momento in cui il genitore presenta la domanda deve essere domiciliato in Italia. Deve essere in possesso, inoltre, di un Isee minorenni che sia inferiore a 40.000 euro l’anno. Il bonus nuovi nati non concorre alla formazione del reddito imponibile ai fini fiscali. CHI PUÒ PRESENTARE LA DOMANDA Per coprire il bonus nuovi è stata messa a disposizione una dote pari a 330 milioni di euro per il 2025, che saliranno a 360 milioni nel 2026. Spetterà all’Inps verificare l’andamento della spesa e a trasmettere ai ministero del Lavoro e a quello dell’Economia l’andamento dell’utilizzo delle risorse. La domanda per ottenere il contributo deve essere presentata entro 120 giorni dalla nascita o dal momento in cui il minore è stato adottato: deve essere inoltrata da uno solo dei due genitori. Nel caso in cui non dovessero vivere sotto lo stesso tetto, il contributo spetta al genitore che convive con il bambino. Spetterà a chi esercita la responsabilità genitoriale o al tutore richiedere il bonus nel caso in cui il genitore del bambino appena nato sia minorenne. La domanda deve essere presentata telematicamente accedendo al portale dell’Inps. In alternativa è possibile farlo attraverso l’app Inps Mobile o contattando il Contact Center Multicanale (al numero verde 803164 per chi chiama da telefono fisso o al 06/164164 per chi chiama da cellulare). In alternativa è possibile rivolgersi agli istituti di patronato che forniscono la dovuta assistenza per compilare e trasmettere l’istanza. L'articolo Bonus nuovi nati: come funziona e chi può presentare la domanda per avere i 1.000 euro proviene da Il Fatto Quotidiano.
Legge di Bilancio
Usi & Consumi
Inps
Bonus Bebè
“Meloni vuole modificare la legge elettorale perché sa di perdere”: Pd, 5 Stelle e Renzi respingono al mittente l’idea di Fdi
Il primo commento ufficiale, ieri, dopo i risultati delle elezioni regionali di Campania, Puglia e Veneto, da parte di Fratelli d’Italia è stato del responsabile organizzazione del partito guidato dal Presidente del consiglio Giorgia Meloni. Ed è parsa a molti sorprendente. Giovanni Donzelli ha sostenuto che “va fatta una riflessione sulla legge elettorale”, perché, “con il ‘Campo Largo’ unito, a differenza delle elezioni politiche 2022, se si dovesse votare oggi non ci sarebbe la stessa stabilità politica né in caso di vittoria del centrodestra né in caso di vittoria del centrosinistra”. Stabilità che “serve alla nazione”, ha spiegato Donzelli. “Lo vediamo con lo spread basso e con il giudizio sull’Italia delle agenzie di reating”. Le opposizioni rispediscono al mittente la proposta. Matteo Renzi dubita delle reali motivazioni di Fdi e del centrodestra. “Giorgia devi cambiare la Legge di bilancio non la Legge elettorale. Devi parlare di sicurezza, tasse e di stipendi non di collegi”. Per il leader di Italia Viva “è evidente che se il centrosinistra sta insieme Meloni perde – perché, con le opposizioni unite in coalizione – nei collegi, in due terzi del Paese, il centrodestra non tocca palla e non vede un collegio. Ora dicono cambiamo la legge elettorale”. E conclude: “Donzelli ricorda quel bambino quando in piazza perdeva la partita e diceva il pallone è mio e me lo porto via”. Dello stesso tenore la risposta che giunge dal Nazareno. La segretaria del Pd Elly Schlein sottolinea: “Non lo dico io, ma oggi ho letto su qualche giornale che con questa legge elettorale il 90% dei collegi del Sud andrebbero alla coalizione progressista”. Dunque, “il loro ragionamento parte dalla paura di perdere, perché hanno capito che noi, dopo aver faticosamente riunito questa coalizione, vinceremmo le prossime elezioni politiche e questa non mi sembra la miglior premessa per fare un cambio di regole”. Chi, e non da oggi, vorrebbe una modifica in senso proporzionale della legge elettorale è il Movimento 5 Stelle. Ma il capogruppo alla Camera Francesco Silvestri mette subito in chiaro: “La nostra proposta è diversa da quella della destra” e comunque, sottolinea Silvestri, “finché vincevano loro e noi andavamo disuniti alle elezioni, le legge elettorale andava bene, oggi vogliono cambiare la legge elettorale perché sanno che non vinceranno”. Per i 5 Stelle la priorità è la Legge di bilancio. “Adesso si discute di salari, di imprese e famiglie” perché aprire ora un dibattito sulla riforma elettorale è “un’arma di distrazione di massa per non parlare del fatto che l’Europa ci dice che uno o due anni saremo il fanalino di coda, nonostante siamo il Paese che ha preso più soldi del Pnrr”. L'articolo “Meloni vuole modificare la legge elettorale perché sa di perdere”: Pd, 5 Stelle e Renzi respingono al mittente l’idea di Fdi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Politica
Legge di Bilancio
Fratelli d'Italia
Centrosinistra
Legge Elettorale
La terza riforma Irpef favorisce i ricchi e crea un buco di 20 miliardi: il governo è alla sistematica menzogna fiscale
A volte succede che il leader populista cada nella sua stessa rete. È capitato recentemente a Giorgia Meloni che ha malamente contestato, per supposta malafede, coloro che hanno sottolineato l’iniquità della sua riformina, la terza, dell’Irpef, contenuta nella legge di bilancio del 2026. L’iniquità è stata scoperchiata dall’Istat che ha calcolato come i 3 miliardi di nuove riduzioni vadano, in realtà, ai due quinti più ricchi nella distribuzione del reddito, e dunque a contribuenti anche benestanti. Ridurre l’Irpef di 440 euro l’anno per contribuenti che ne dichiarano da 50.000 e fino a 200.000 difficilmente rientra in una sana e normale politica di equità distributiva. Per coprire lo strafalcione della premier è subito intervenuto, con una lunga intervista al Sole 24 ore in funzione di pompiere, il responsabile di tutto questo, il viceministro Leo, che nel tentativo di giustificare la premier non ha però migliorato la situazione. Il viceministro ha spiegato che la destra ha un progetto fiscale complessivo che è quello di ridurre l’Irpef per realizzare una grande redistribuzione. Questo progetto ha avuto tre passaggi principali. Il primo è stato l’aumento della soglia di reddito per gli autonomi in regime di flat tax da 65.000 a 85.000 euro, con risparmi di 500 euro mensili di tasse. Poi l’anno scorso è arrivato il bonus Meloni e la rivisitazione delle aliquote con un ammanco per le casse dello stato di 18 miliardi. Ora il ciclo si chiude pensando a tutti gli altri contribuenti fino a 200.000 euro, con un esborso per lo Stato di 3 miliardi. Il populismo fiscale della destra ha un carattere ecumenico, cioè ha toccato quasi tutti i 38 milioni di italiani che pagano l’Irpef. Rimangono fuori solo i 167.000 contribuenti che hanno un reddito superiore ai 200.000 euro. Ma è probabile che ad essi penserà la legge di bilancio del 2027. Quindi il buco annuale nell’Irpef di 20 miliardi e più, che si è venuto a creare secondo i calcoli del ministro, fa parte di un consapevole piano economico strategico. Nella lunga intervista, il viceministro Leo si è però dimenticato di dire dove sono state trovate le risorse per coprire l’importante riduzione. Ne lo dirà mai, e allora lo aiutiamo. In primo luogo si è attinto al pozzo di San Patrizio del debito pubblico, in costante aumento in termini assoluti sotto il governo Meloni. In secondo luogo, il buco dell’Irpef è stato colmato con una forte riduzione della spesa per tutti i servizi pubblici, e quindi hanno pagato e pagheranno i cittadini in maniera crescente. Da ultimo, è stato finanziato con un taglio del 10% dei salari dei 3,8 milioni di pubblici dipendenti perché il rinnovo contrattuale del triennio 22-24 ha coperto solo un terzo della recente inflazione. Se poi pensiamo che una manovra analoga è stata fatta dal governo Berlusconi nel 2010, i pubblici dipendenti in venti anni hanno avuto il salario falcidiato del 15% a causa delle manovre economiche del centrodestra. Se oggi i salari in Italia per milioni di lavoratori sono molto bassi, bisogna ringraziare anche la politica, nella fattispecie il duo Berlusconi-Meloni. Comunque, tutte le agenzie indipendenti, Banca d’Italia, Corte dei Conti e Upb hanno impallinato anche questa terza manovra Meloni, giudicandola incapace di affrontare i nodi strutturali dell’economi italiana. Da studioso, ho trovato particolarmente interessante la comunicazione di Fabrizio Balassone, vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia. A pag. 9 c’è una frase illuminante che, pur riferendosi alla detassazione degli straordinari per il 2026, ha un carattere generale e smaschera i limiti della politica economica governativa. Balassone fa la seguente osservazione: “È improprio assegnare al bilancio pubblico il compito di recuperare il potere di acquisto perduto dai lavoratori, soprattutto quando la redditività delle imprese può consentire che questo avvenga attraverso la contrattazione”. Questa frase chiarisce i due problemi di fondo di questa ennesima manovra populista. In primo luogo, per Banca d’Italia è sbagliato usare il bilancio dello Stato per aumentare i salari dei dipendenti privati. Sarebbe difficile pensare il contrario, perché si crea così la pericolosa illusione che i politici possano aumentare a piacimento gli stipendi. Casomai, lo Stato dovrebbe aumentare gli stipendi dei suoi dipendenti, cosa che non ha fatto. Il salario va aumentato dalle imprese e non spinto in maniera parassitaria da sconti fiscali corporativi, anche perché le casse pubbliche sono vuote. Il salario di Stato di Meloni ci porta su un binario morto. Ma c’è un secondo elemento ancora più importante, contenuto nel secondo inciso. L’esponente della Banca d’Italia candidamente fa intendere che oggi le imprese hanno le risorse necessarie per rinnovare i contratti. Gli anni post-pandemia sono stati molto buoni per le imprese che hanno accumulato ingenti profitti, e anzi ottimi per quelle oligopolistiche, come banche e assicurazioni. Quindi sarebbe ora che gli imprenditori aprissero il portafoglio per aumentare i salari stagnanti da anni, secondo una normale logica contrattuale. Gli scioperi del venerdì che muovono l’insipida ironia di Meloni potrebbero benissimo essere evitati. Un tempo a proposito dei conti pubblici si parlava del coraggio della verità, in genere amara. Ora invece siamo passati al coraggio della sistematica menzogna fiscale. Il ciclo delle finanziarie falsamente redistributive di Meloni ha creato in tre anni un buco, solo considerando l’Irpef, superiore ai 20 miliardi annuali, aggravando in maniera mortale i problemi della nostra finanza pubblica. Grazie a Meloni, a ogni prossima legge di bilancio partiremo da quota centoventi. Ai 100 miliardi di interessi annuali sul debito andranno aggiunti i 20 e più del buco Meloni. Negli anni Novanta c’era un ampio dibattito sul problema di come ridurre il debito pubblico, considerato una zavorra per l’economia. Ora quella preoccupazione non c’è più, immersi come siamo nella nebbia di un iniquo populismo fiscale. Quando, tra non molto, i fumi del piacevole torpore no tax si diraderanno avremo delle brutte sorprese? Speriamo di no, ma temo di sì, almeno per la stragrande maggioranza degli italiani. L'articolo La terza riforma Irpef favorisce i ricchi e crea un buco di 20 miliardi: il governo è alla sistematica menzogna fiscale proviene da Il Fatto Quotidiano.
Blog
Economia
Legge di Bilancio
Governo Meloni
Affitti brevi, perché l’aumento della cedolare secca non basta: giro d’affari a 9 miliardi e ogni casa rende in media 11.700 euro l’anno
Mentre la vicina Spagna sceglie la linea dura, facendo rimuovere decine di migliaia di annunci di affitti brevi non conformi dalle piattaforme, in Italia la proposta di tassare maggiormente gli host ha sollevato critiche da tutti i fronti, diventando uno dei nodi più difficili da sciogliere nella nuova legge di Bilancio. Venerdì sono attesi gli emendamenti e sia Forza Italia sia la Lega chiederanno di eliminare l’aumento dal 21% al 26% della cedolare secca per chi affitta anche solo un immobile tramite piattaforme come Airbnb e Booking.com. L’obiettivo dichiarato della misura è riequilibrare un sistema che, negli ultimi anni, ha reso più conveniente affittare ai turisti che ai residenti. “Non c’è intento di punire i proprietari, però bisogna capire se bisogna in qualche modo premiare le locazioni per abitazione oppure le locazioni per i turisti stranieri”, come ha riassunto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Per le realtà che da anni monitorano e tentano di contenere gli effetti dell’aumento degli affitti brevi nelle città italiane, ritoccare la tassazione è il minimo indispensabile. Ma di certo non basta. “Non è sufficiente a frenare Airbnb, basta guardare i dati sull’aumento della redditività. Ma sarebbe comunque una prima misura pragmatica e necessaria per razionalizzare il fenomeno”, commenta Francesco Chiodelli, professore associato dell’Università di Torino, tra i responsabili scientifici della ricerca condotta da FULL (Future Urban Legacy Lab) del Politecnico di Torino per fotografare la trasformazione del mercato degli affitti brevi in Italia tra il 2017 e il 2024. I dati – forniti da AirDna – parlano chiaro: l’offerta di unità abitative sulla piattaforma è cresciuta del 52% a livello nazionale, e gli host in Italia sono ormai 350.000 e ciascuno gestisce in media 2,1 appartamenti. A salire è stata anche la tariffa media giornaliera, cresciuta fino al 50%, arrivando a una media di 167 euro a notte. La redditività per unità è aumentata del 124%, portando il rendimento medio annuo per ogni alloggio a circa 11.700 euro. E il giro d’affari è passato da circa 2,5 miliardi nel 2017 a 8,8 miliardi nel 2024. Per quanto riguarda invece la professionalizzazione del settore, i cosiddetti “large host”, gestori che possiedono più di dieci immobili, hanno visto un incremento del 77% nell’incidenza, gestendo in media 42 unità ciascuno. Si tratta spesso di agenzie alle quali i proprietari affittano le proprie case. Numeri di cui non si tiene conto in un dibattito “molto ideologico”, dice Chiodelli, concentrato sulla “sacralità della casa, ma solo per i proprietari”. Mentre “gli affittuari vengono marginalizzati, inascoltati dalle aree politiche che forse per miopia ignorano i cambiamenti nell’accesso alla casa. Il ceto medio adesso è composto principalmente da affittuari. La tassazione potrebbe aiutare a recuperare risorse pubbliche, da investire in altri settori legati alla casa, come il fondo morosità incolpevole”. Per Chiodelli l’obiettivo non dovrebbe essere disincentivare, ma governare il settore, tenendo in conto le differenze territoriali: “Per un fenomeno geograficamente diversificato non basta una misura nazionale, anzi rischierebbe di compromettere gli effetti positivi che AirBnb può avere per alcune aree e alcune famiglie. Bisogna agire anche a livello locale.” “La proposta sarebbe un ottimo inizio per aggredire il fenomeno, ma da sola non basta”, conferma Maria Luisa Stabile, portavoce di GRoRAB (Gruppo Romano per la Regolamentazione degli Affitti Brevi). “Nelle città dove la domanda di affitti brevi è alta, come nel centro di Roma, a Venezia e in altre città turistiche, non sarebbe un disincentivo sufficiente. Solo a Roma, attualmente, c’è un rapporto di 8 a 1 tra l’offerta di affitti brevi rispetto a quella di affitti lunghi”. Stabile non ha apprezzato che la Corte dei conti abbia avvertito che aumentare la cedolare potrebbe spingere verso l’irregolarità, incentivando le locazioni brevi non dichiarate: “Un organismo costituzionale non dovrebbe passare una nozione secondo cui il costume degli italiani sarebbe meccanicamente quello di evadere a fronte di una giusta tassazione. Questo settore negli ultimi sette anni ha accresciuto il suo fatturato dai 2 ai 9 miliardi circa. Non si può più continuare a trattarlo come agli inizi della sharing economy, quando si trattava soprattutto di integrazione del reddito. Non regolamentare significa accettare che il paese continui a vivere di rendita, una ricchezza basata su un’economia regressiva”. Il Gruppo Romano per la Regolamentazione degli Affitti Brevi vorrebbe una legge nazionale che consenta alle città di definire le soglie di sostenibilità degli affitti brevi. “Siamo firmatari della proposta di legge scritta dal movimento civico Alta Tensione Abitativa, ma non sembra che il governo voglia adottarla”, dice Stabile. “Basti pensare all’opposizione che ha incontrato il Testo Unico sul Turismo in Toscana. Se il governo non vince il ricorso, sarebbe l’unica regione con il potere di regolare il fenomeno, insieme alle città di Venezia e Roma”. L'articolo Affitti brevi, perché l’aumento della cedolare secca non basta: giro d’affari a 9 miliardi e ogni casa rende in media 11.700 euro l’anno proviene da Il Fatto Quotidiano.
Speciale legge di bilancio
Airbnb
Legge di Bilancio