Più che un’emergenza, è un problema ormai endemico del nostro mercato del
lavoro: i redditi bassissimi di partite Iva e collaboratori. Gli addetti
“autonomi” stanno crescendo in questi anni, contribuendo a gonfiare i dati
sull’occupazione, ma uno studio appena pubblicato della Nidil Cgil mostra che
molti di loro hanno guadagni del tutto inadeguati a una vita dignitosa, e anche
insufficienti per raggiungere una pensione decente. Si tratta di 436 mila
partite Iva, con redditi medi di poco superiori a 18 mila euro annui, e 208 mila
collaboratori che dichiarano in media appena 8.566 euro.
Essendo questi “esclusivi”, è probabile che tra di loro si nascondano molti
dipendenti mascherati, inquadrati come autonomi dalle aziende per risparmiare a
loro discapito. Finte partite Iva e co.co.co vengono utilizzate per non
applicare i contratti collettivi, quindi stabilire i salari con trattative
individuali, pagare meno contributi, niente tredicesime, niente trattamento di
fine rapporto. Situazioni difficili da fare emergere perché richiederebbero
spesso lunghe e incerte trafile giudiziarie. Ecco perché restano ampiamente
tollerate.
I più deboli sembrano proprio i collaboratori. Specialmente se isoliamo il dato
sui redditi medi delle donne, pari a soli 6.839 euro annui, e degli under 35 che
si attestano sui 5.130 euro. Come visto, questi guadagni così irrisori si
traducono in una scarsa prospettiva pensionistica. Solo l’8% dei collaboratori
riesce infatti a versare dodici mesi di contributi annui, quindi a raggiungere
una contribuzione “piena” che corrisponde a 18.415 euro annui. Con questo
reddito, la pensione a 64 anni, ammesso di avere almeno 30 anni di anzianità, si
fermerebbe a 853 euro. I dati sui professionisti con partita Iva sono solo un
po’ migliori: il 35% raggiunge la contribuzione piena. Tuttavia per loro le
aliquote sono più basse, pertanto per loro l’assegno che si può maturare a 67
anni, con 30 di contributi, è pari a 646 euro mensili.
Le norme approvate in legge di Bilancio dal governo Meloni non portano alcun
vantaggio a collaboratori e partite Iva. Ai collaboratori non viene applicato il
taglio del cuneo fiscale approvato nella manovra dello scorso anno. Le uniche
norme approvate in questi anni dal centrodestra hanno introdotto vantaggi
fiscali ai più benestanti tra i lavoratori autonomi, con il passaggio della flat
tax al 15% fino a 85 mila euro di reddito. Tuttavia, considerando che le partite
iva hanno già un fisco vantaggioso, sono altre le norme che servirebbero a
tutelare i loro redditi. Nell’ultimo report Istat, emerge infatti che la povertà
assoluta tra i lavoratori autonomi senza dipendenti, le partite iva indivduali,
è in aumento.
La prima sarebbe l’equo compenso: “Posto che c’è un tema di qualificazione dei
rapporti di lavoro quando mascherano lavoro dipendente, le scelte da fare
nell’immediato vanno in direzione opposta a quanto fa il governo – commenta
Andrea Borghesi, segretario generale Nidil Cgil – per i redditi da lavoro
bisognerebbe far pagare il giusto compenso alle imprese attraverso la
definizione di un salario minimo/ equo compenso non inferiore a quanto previsto
per le medesime figure professionali dalla contrattazione collettiva”. Borghesi
ricorda anche che i collaboratori hanno a loro carico una quota maggiore di
contributi, rispetto ai dipendenti, e non sono coperti da ammortizzatori sociali
universali.
L'articolo I redditi da miseria di partite Iva e collaboratori con redditi. Lo
studio: “Vanno da 8.500 a 18mila euro all’anno” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Crescita stagnante, salari reali fermi, precarietà e part-time involontario,
maggiore vulnerabilità allo choc inflazionistico causato dagli aumenti del
prezzo dell’energia. Risultato: l’Italia, insieme alla Grecia, è l’unico Paese
dell’Unione europea in cui negli ultimi vent’anni il reddito reale delle
famiglie pro capite è diminuito. Mentre la media dei Ventisette tra il 2004 e il
2024 segna un aumento del 22%, Roma e Atene chiudono il periodo in rosso.
Rispettivamente a -4 e -5%. Sono gli ultimi dati diffusi da Eurostat, che
certificano un problema strutturale.
I grafici pubblicati dall’Ufficio statistico dell’Unione europea sono impietosi.
Dal 2004 al 2008 il reddito reale è cresciuto in modo continuo in quasi tutta
l’Ue. Poi, tra il 2008 e il 2011, la crisi finanziaria globale ha provocato una
stagnazione e tra 2012 e 2013 si è registrato un arretramento. Dal 2014 al 2019
il trend è tornato positivo, fino alla nuova frenata causata dalla pandemia nel
2020. Nel 2021 è arrivato il rimbalzo, seguito però nel 2022 e 2023 da una
crescita debole, compressa dall’inflazione. Nonostante ciò, i primi dati sul
2024 mostrano un’accelerazione: segno che molti Paesi stanno recuperando
terreno. Non l’Italia.
Guardando i dati sui singoli Paesi Ue il gap è evidente. A godere delle
performance migliori sono stati gli Stati che hanno agganciato la convergenza
con l’Europa occidentale grazie agli investimenti esteri e a una dinamica
produttiva vivace: Romania (+134%), Lituania (+95%), Polonia (+91%) e Malta
(+90%). Ma anche le grandi economie avanzate, pur con ritmi diversi, registrano
un progresso: +11% per la Spagna, +14% per l’Austria, +15% per il Belgio e +17%
per il Lussemburgo. In Francia il reddito è salito di oltre il 21%, in Germania
addirittura del 24%.
L’Italia resta invece uno dei pochissimi Paesi in cui il potere d’acquisto delle
famiglie, depurato dall’inflazione, è più basso oggi rispetto a vent’anni fa.
Un’anomalia che riflette un mix di bassa crescita, produttività ferma, mercato
del lavoro debole, vulnerabilità agli choc energetici e alla corsa dei prezzi.
L'articolo Il reddito reale delle famiglie italiane tra 2004 e 2024 è sceso del
4%: il dato peggiore nell’Ue con la Grecia. La media è +22% proviene da Il Fatto
Quotidiano.
di Stefano De Fazi
Ritengo che, dato il contesto attuale, chiunque si definisca di sinistra
dovrebbe sostenere una tassazione rilevante sui grandi patrimoni. È ormai
evidente il danno che un’eccessiva concentrazione della ricchezza — come quella
che viviamo oggi — provoca allo stato sociale e al processo democratico.
Tuttavia, sono assolutamente aperto a un dialogo costruttivo con chi la pensi
diversamente, ma ciò che trovo davvero intollerabile è il modo approssimativo e
surreale con cui se ne discute nel dibattito pubblico italiano.
Alcuni giorni fa ho avuto la sfortuna di imbattermi nel tema durante uno dei
talk show politici più famosi della televisione italiana. Vale la pena notare
come gli ospiti — Pierferdinando Casini, Massimo Giannini e Chiara Geloni —
fossero tutti riconducibili a un’area di centro-sinistra; eppure nessuno dei tre
ha avuto dubbi nell’affermare che parlare di patrimoniale, come hanno fatto di
recente le opposizioni, sarebbe un assist al governo Meloni.
La prima argomentazione proposta è che, con un livello di pressione fiscale al
42,6%, non sarebbe possibile introdurre una nuova forma di tassazione. Questo
valore è certamente alto, anche se non tra i primi tre in Europa. Tuttavia, il
vero problema del sistema fiscale italiano è la sua ripartizione: il carico
grava quasi interamente sui lavoratori con redditi medi o di poco sopra la
media, mentre è poco incisivo sui detentori di grandi patrimoni e sulle loro
rendite. A conferma di ciò, uno studio dell’Università di Pisa ha mostrato che
il sistema è progressivo solo per il 95% dei cittadini: per il 5% più ricco
diventa fortemente regressivo. In quest’ottica, la patrimoniale è proprio lo
strumento adatto per correggere questa stortura, liberando risorse per ridurre
la pressione sui redditi medi e redistribuendo quel 42,6% in modo più equo.
Un altro argomento ricorrente è che “circa l’80% degli italiani possiede una
casa”, e dunque non si potrebbe tassare la proprietà. In realtà, qualsiasi
proposta di patrimoniale riguarda esclusivamente i grandi patrimoni — ad esempio
con una soglia minima di 5 milioni — e coinvolgerebbe solo il 2-3% più ricco del
Paese. Inoltre, poiché queste proposte sono spesso accompagnate
dall’eliminazione di imposte attuali sul patrimonio spesso regressive; una quota
tutt’altro che marginale di italiani con una seconda casa di modesto valore ne
trarrebbe persino vantaggio tramite l’abolizione dell’Imu.
Un’altra frase che ho dovuto sentire, e che faccio fatica a tollerare, è: “È
inutile parlare di patrimoniale, serve una riforma complessiva del fisco”. È una
tattica frequentemente usata — spesso, a mio avviso, in malafede — per
screditare proposte di buon senso in contesti diversi. Si sa bene che una
riforma complessiva, allo stato attuale della politica, è difficilissima; allo
stesso tempo si invoca questa necessità per bloccare sul nascere qualunque
proposta concreta che possa rappresentare un passo avanti. Per questo è
importante dirlo chiaramente: sì, una riforma complessiva del fisco è
necessaria, e la tassazione delle grandi ricchezze ne è un tassello
fondamentale.
Nel corso del dibattito televisivo viene ovviamente ignorato il fatto che le
principali organizzazioni che si occupano del tema, da Tax Justice Network a
Oxfam, promuovono la tassazione sui grandi patrimoni anche a livello nazionale,
e quindi non solo tramite accordi internazionali come quelli del G20 o dell’Onu.
Inoltre, mettono in luce che esistono esempi concreti che dimostrano come il
temuto esodo dei milionari, spesso evocato da chi è contrario, sia talmente
ridotto da risultare irrilevante.
Si possono muovere molte critiche ai partiti di opposizione attuali, ma temo che
ci sia un problema di fondo molto più grave: il livello medio dell’informazione
italiana su temi imprescindibili come questo.
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su una tassa patrimoniale proviene da Il Fatto Quotidiano.