A Khan Younis, dove Emergency gestisce uno dei pochi presidi sanitari ancora
operativi, la tregua entrata in vigore a metà ottobre non cambia in nulla la
realtà di una popolazione intrappolata tra macerie, fame e bombardamenti
israeliani sporadici in un territorio ridotto allo stremo.
Giorgio Monti, coordinatore medico dell’organizzazione, descrive una
quotidianità segnata dal maltempo e da una pace apparente che non argina la
sofferenza dei gazawi. “Ieri è stata una giornata decisamente drammatica che
purtroppo mi ha fatto tornare alla mente quanto è successo l’anno scorso”,
racconta. “Sono qui da oltre un anno, le piogge in quest’area sono torrenziali.
Immaginate piogge torrenziali in un’area dove le tende sono costruite con teli
di plastica e pali di legno. Il vento è sempre molto forte, quindi vengono
divelte le tende, arrivano ruscelli improvvisati che ci bagnano tutti, che
spostano le tende, le danneggiano. Le persone non sanno come asciugarsi, sono
davvero momenti difficili per loro”.
L’inverno intanto travolge una Striscia già devastata da due anni di guerra: le
piogge torrenziali di novembre allagano Gaza con livelli d’acqua fino a 50
centimetri, trasformando i campi profughi in distese di fango. Oltre 2 milioni
di sfollati vivono in tende fragili, più di 22mila delle quali risultano
danneggiate o spazzate via. Fognature al collasso e allagamenti moltiplicano il
rischio di epidemie e costringono un ospedale da campo a sospendere le attività.
Secondo l’Unrwa, 13mila famiglie restano esposte al gelo in ripari inadeguati.
“Gaza sta annegando in sangue e acqua piovana”, avverte un rapporto citato da
Haaretz.
Nel frattempo, l’ingresso degli aiuti procede a singhiozzo: nonostante il
cessate il fuoco prevedesse almeno 600 camion al giorno, materiali impermeabili
e forniture invernali continuano a non arrivare. Israele nega responsabilità e
parla di inefficienze delle agenzie umanitarie, ma Onu e varie Ong denunciano
l’assedio israeliano come causa diretta delle carenze.
È un quadro che Monti conferma senza esitazioni. “Sul fronte degli aiuti
umanitari, la situazione è peggiorata, è quasi paradossale – spiega – Alcuni
camion commerciali riescono a entrare, quindi al mercato qualche prodotto in più
si trova, pur a prezzi inarrivabili per i gazawi, mentre gli aiuti umanitari
sono bloccati”.
A mancare sono soprattutto i rifornimenti medici: “Noi non abbiamo rifornimento
di farmaci, non abbiamo rifornimento di consumo. Sappiamo dal report dell’Onu
che soltanto l’1% del materiale medico entra con gli aiuti umanitari. Entrano un
po’ di coperte, entrano alcune tende ma molto molto poche rispetto ai bisogni
che sono drammatici. Un milione e mezzo di persone non riesce a proteggersi dal
vento. Paradossalmente, con la tregua, la situazione è anche peggiorata”.
La tregua appare fragile anche sul piano militare. “È tutto molto confuso –
osserva Monti – Sicuramente la tregua è entrata in vigore e la quantità dei
cannoneggiamenti e dei bombardamenti è molto ridotta, ma tre giorni fa un
missile è caduto a 200 metri dalla nostra casa. Gli attacchi si ripetono. La
stessa sicurezza nostra è sempre sotto stretto controllo”.
La sera precedente, racconta, l’arrivo di un nuovo collaboratore li ha costretti
a seguire per ore le comunicazioni delle squadre di sicurezza: “C’erano dei
blocchi lungo la strada, delle persone armate che fermavano le macchine. La
sicurezza è un po’ meglio in termini di quantità di bombe, ma sempre molto
complicata in termini di sicurezza personale; non esiste, come diciamo sempre,
un posto sicuro a Gaza”.
L'articolo “Aiuti umanitari? Dopo la tregua la situazione è persino peggiorata”:
la denuncia di Giorgio Monti (Emergency) dalla Striscia di Gaza proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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“È un grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump, presidente-pregiudicato che
presiederà il ‘Consiglio di pace’. È un brutto giorno per la sicurezza a lungo
termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e più in
generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro mondo”. Con
questa frase icastica, Lorenzo Kamel, professore di Storia Internazionale
all’Università di Torino, adjunct professor alla Luiss School of Government e
finalista del premio nazionale per la divulgazione scientifica con il suo ultimo
saggio Israele-Palestina in 36 risposte (Einaudi), commenta la risoluzione 2803
su Gaza, approvata il 17 novembre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu con 13
voti favorevoli e l’astensione di Russia e Cina. Un voto che rimescola gli
equilibri della regione e affida a Donald Trump il controllo della Striscia per
due anni attraverso un organismo dai contorni indefiniti, il “Consiglio di
Pace”, i cui membri saranno scelti direttamente dal presidente statunitense.
Ospite di Effetto Giorno, su Radio24, Kamel mette in evidenza la natura
“talmente vaga e talmente arbitraria” del testo, privo di riferimenti alle
risoluzioni precedenti e agli accordi che negli ultimi decenni hanno definito il
quadro negoziale israelo-palestinese. Nessun cenno agli Accordi di Oslo, che
stabiliscono l’unità territoriale di Gaza e Cisgiordania; nessun richiamo alla
risoluzione 476 del 1980, con cui il Consiglio di Sicurezza aveva ribadito che
l’acquisizione di territori con la forza è inammissibile. La nuova risoluzione,
osserva lo storico, “va sostanzialmente in una direzione opposta”,
cristallizzando la separazione tra i due territori palestinesi e impedendo
all’Autorità nazionale palestinese di avere un ruolo nella Striscia.
L’orizzonte politico che ne risulta appare così indeterminato da offrire a Trump
e Netanyahu la possibilità di dichiarare insufficiente “qualsiasi sforzo della
controparte palestinese”, anche in una situazione ipotetica in cui i palestinesi
“divenissero la Norvegia del Medio Oriente”.
Kamel ricorda che i paesi arabi che hanno sostenuto la risoluzione sono guidati
da “leader corrotti e ricattabili”, a cominciare da Egitto, Emirati Arabi Uniti
e Arabia Saudita. Leader che, osserva, sanno che la loro sopravvivenza politica
ed economica “passa dal piegarsi a ciò che gli viene richiesto”, e che si
attendono concessioni sostanziali da parte di Trump.
Le astensioni di Mosca e Pechino aprono un altro capitolo: “vedremo a breve cosa
riceverà, ad esempio, la Russia in cambio del suo mancato veto”, afferma Kamel,
lasciando intendere che un ritorno politico non mancherà.
Alla domanda del conduttore Alessio Maurizi su come interpretare il via libera
dell’ANP e il rifiuto di Hamas, la spiegazione affonda nel quadro che ha dato
origine all’Autorità nazionale palestinese. L’ANP nasce dagli Accordi di Oslo
del 1993-1995: ne derivano i suoi poteri, la sua legittimità, il suo
finanziamento e la sua sopravvivenza amministrativa. Senza Oslo, semplicemente,
non esisterebbe.
Lo storico conferma questo punto: “L’Autorità nazionale palestinese è totalmente
dipendente dal processo di Oslo e il suo capo, Abu Mazen, è un leader totalmente
screditato e corrotto che non ha nessuna aderenza con la società palestinese,
dunque non ha alternativa se non quella appunto di piegarsi totalmente a quello
che gli viene richiesto”.
Scaturisce così la sintesi politica del professore: il voto rappresenta “un
grande giorno per Netanyahu”, che ottiene un margine di manovra e una via
d’uscita anche in caso di ripresa della guerra; “un giorno importante anche per
Hamas”, che vede consolidarsi il proprio potere nella parte di Gaza rimasta
sotto controllo palestinese; “un grande giorno per Trump”, destinato a
presiedere il Consiglio di pace nonostante la condanna inflitta dalla giustizia
americana.
Al contrario, è “un brutto giorno per ciò che resta di Gaza”, divisa e privata
della sua terra coltivabile, “un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine
dello Stato di Israele”, “un brutto giorno per l’autodeterminazione palestinese”
e “un brutto giorno” per chi ha a cuore la causa palestinese.
Sul futuro, Kamel intravede uno scenario che richiama quello della Cisgiordania
dopo il 1967: un’occupazione “temporanea, fra virgolette”, destinata a protrarsi
nel tempo. “Oltre il 50%, il 53% della Striscia di Gaza è occupato dalle
autorità israeliane”, spiega, e si tratta della parte più fertile e agricola. La
zona sabbiosa e meno produttiva rimane ai palestinesi.
Il professore lega questo quadro alle dinamiche in Cisgiordania, definite dagli
Accordi di Oslo II del 1995. Le aree A e B, frammentate in 165 isole
amministrative, rappresentano poco più del 40% del territorio e resterebbero
sotto controllo palestinese; l’area C, il restante 60%, è la porzione
strategica: risorse idriche, terra fertile, spazio per gli insediamenti.
Se figure come Bezalel Smotrich continueranno a guidare la linea del governo
israeliano, avverte Kamel, si tenterà di “smuovere il più possibile e di
espellere la popolazione palestinese dall’area C”. Il risultato sarebbe una
mappa in cui i palestinesi mantengono soltanto le aree A e B della Cisgiordania
e la parte sabbiosa costiera di Gaza, mentre la porzione vitale dal punto di
vista agricolo, idrico e strategico rimane sotto controllo israeliano.
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brutto giorno per l’autodeterminazione palestinese” proviene da Il Fatto
Quotidiano.