Annullamento senza rinvio e assoluzione “perché il fatto non sussiste”. La
Cassazione ha messo la parola fine al processo “Gotha”. Almeno per quanto
riguarda la posizione di uno dei principali imputati, l’avvocato Giorgio De
Stefano per anni ritenuto dalla Dda di Reggio Calabria una delle due teste
pensanti della ‘ndrangheta reggina assieme all’ex parlamentare del Psdi Paolo
Romeo, condannato a 25 anni di carcere in primo grado con il rito ordinario e in
attesa, nei prossimi mesi, della sentenza d’Appello.
Nel frattempo, si è concluso l’altro troncone del processo nato dalla riunione
delle inchieste “Mamma Santissima”, “Reghion”, “Fata Morgana” “Alchimia” e
“Sistema Reggio” nell’ambito delle quali i carabinieri del Ros, la guardia di
Finanza e la polizia avevano acceso un faro su quello che i pm considerano il
“direttorio” della ‘ndrangheta, una struttura con una strategia programmatica
che puntava ad alterare “l’equilibrio degli organi costituzionali”. Al centro di
questo direttorio, stando all’impianto accusatorio, c’era pure Giorgio De
Stefano per il quale adesso sono cadute tutte le accuse.
La sentenza della Suprema Corte è arrivata venerdì sera e l’avvocato è stato,
così, assolto definitivamente dal processo in cui aveva rimediato in primo grado
una condanna a 20 anni di carcere, poi ridotta in Appello a 15 anni e 4 mesi di
reclusione. Quella sentenza, nel 2022, era stata annullata una prima volta dalla
Cassazione perché, tra le altre cose, appariva “illogico – scrissero gli
ermellini – sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far
parte sia della struttura invisibile” della ‘ndrangheta, “sia della struttura
visibile ed operativa in qualità, peraltro, di capo della cosca De Stefano”. Una
parte della prima condanna, inoltre, secondo la Cassazione era coperta dal
giudicato di un altro procedimento penale, il maxi “Olimpia”, dove De Stefano
era stato condannato per concorso esterno.
Rifatto il processo “Gotha”, quindi, nel novembre 2024 la Corte d’Appello aveva
ridotto ulteriormente la pena a 10 anni di carcere, condannando De Stefano solo
come “partecipe dell’associazione mafiosa” e non come capo promotore di quella
che era stata definita la “struttura riservata della ‘ndrangheta” dove assieme a
Paolo Romeo, stando all’originario impianto accusatorio, sarebbe stato il
“motore immobile del sistema criminale”, uno dei “soggetti ‘cerniera’ in grado
di interagire tra l’ambito ‘visibile’ e quello ‘occulto’ dell’organizzazione”.
Ritornato per la seconda volta in Cassazione, quindi, Giorgio De Stefano si è
visto annullare senza rinvio anche la nuova condanna della Corte d’Appello di
Reggio Calabria. La Suprema Corte ha accolto, infatti, la tesi del collegio di
difesa dell’imputato rappresentato dagli avvocati Valerio Vianello, Giovanni De
Stefano, Paolo Tommasini e Giorgio Vianello.
In attesa delle motivazioni, stando a quanto trapela dalle difese, gli ermellini
non solo avrebbero annullato senza rinvio la condanna ma avrebbero assolto
Giorgio De Stefano con la formula “perché il fatto non sussiste”. L’imputato era
stato arrestato nel 2016 e ha scontato 6 anni di carcerazione preventiva. La
Suprema Corte ha annullato senza rinvio anche per un altro imputato, Antonino
Nicolò che era stato condannato a tre anni di reclusione. Per quanto riguarda
gli altri imputati, invece, è stato rigettato il ricorso di Roberto Franco e
Domenico Marcianò, condannati rispettivamente a 12 anni e 8 anni.
L'articolo Processo “Gotha”, la Cassazione annulla senza rinvio la condanna a
Giorgio De Stefano: assolto definitivamente proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Voleva fare uno scherzo divertente al suo collega e compagno di stanza, con cui
“erano soliti canzonarsi a vicenda“. Così, mentre fuori dalla Cassazione un
gruppo di anarchici manifestava in favore di Alfredo Cospito, il sostituto
procuratore generale della Suprema Corte Luca Tampieri ha avuto una brillante
idea: infilare in un fascicolo del vicino di scrivania – in quel momento
impegnato in udienza – un “pizzino” anonimo con gli slogan gridati dai
manifestanti. “Fuori Alfredo dal 41-bis! Il 41-bis è tortura, lo Stato stragista
non ci fa paura. Galere e tribunali non ne vogliamo più, colpo su colpo li
tireremo giù“, le frasi stampate sul foglio. Peccato che la vittima della
bravata, il sostituto pg Ettore Pedicini, si fosse occupato poche settimane
prima proprio dell’anarchico al carcere duro, depositando tre requisitorie sul
suo caso. Scoprendo il messaggio il giorno successivo, quindi, Pedicini ha preso
sul serio la finta minaccia: temendo che un malintenzionato si sia introdotto
nel suo ufficio, allerta subito i vertici del Palazzaccio, mentre un’altra
collega presente, spaventata, chiama direttamente il capo della Digos di Roma, i
cui funzionari si precipitano sul posto e iniziano a svolgere accertamenti prima
di scoprire la burla. La surreale vicenda, datata ottobre 2023, è costata a
Tampieri l’apertura di un procedimento disciplinare da parte del suo diretto
superiore, il procuratore generale della Suprema Corte: il Consiglio superiore
della magistratura ha però archiviato l’accusa con un’ordinanza depositata di
recente, parlando di “una scorrettezza dovuta a un gesto goliardico, che andava
sì evitata”, ma “si è risolta in un comportamento privo del carattere di
gravità“. Una decisione che fa infuriare il deputato di Forza Italia Enrico
Costa, fustigatore del presunto lassismo della Sezione disciplinare del Csm: “Se
non fosse tutto nero su bianco non ci si potrebbe credere”, scrive su X.
Nella sua memoria difensiva, incolpato si è scusato e ha ammesso di aver agito
“scriteriatamente“, sottolineando però di non essere stato a conoscenza del
fatto che il collega si fosse occupato del caso Cospito. Ad alimentare
l’equivoco i messaggi scambiati sulla chat dell’ufficio subito dopo la scoperta
del messaggio: in un primo momento, infatti, Tampieri è convinto che gli altri
magistrati abbiano capito la sua gag, e quindi reagisce in modo ironico alle
loro (comprensibili) preoccupazioni. “Ho chiuso la stanza”, scrive Pedicini.
Tampieri lo sfotte: “Fai indagini?“. L’altro insiste: “Sta arrivando la Digos
nella nostra stanza. Forse prelevano il mio computer“. Ma il collega continua a
ironizzare: “Spero non il mio portatile nuovo“. Solo un’ora dopo il pm burlone
viene contattato dalla vice segretaria generale della Cassazione, che gli chiede
se anche lui sia a conoscenza della vicenda. E a quel punto capisce di averla
combinata grossa: “Ragazzi scusate era uno scherzo! Era quello che martellavano
gli anarchici ieri mattina durante la manifestazione, non pensavo che si potesse
prendere sul serio“, scrive in chat. Per la Sezione disciplinare del Csm, però,
il suo comportamento non è punibile “per l’occasionalità dell’atto, l’esiguità
temporale della vicenda” e “l’esistenza di spiacevoli e obiettive coincidenze”.
“Digos, timore di minacce, ufficio in allarme, vertici allertati: tutto risolto,
procedimento disciplinare dissolto nel nulla“, accusa Costa. “Chissà se questo
provvedimento fa parte di quelli conteggiati nelle percentuali di
condanne/assoluzioni sbandierate dall’Anm o se, come immagino, ne sta fuori”,
scrive.
L'articolo Il surreale scherzo del pm di Cassazione: lascia al collega un
“pizzino” con finte minacce anarchiche. E arriva la Digos proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il Comune di Roma deve risarcire i danni da rumore e da smog provocati dal
traffico ai residenti in prossimità di via del Foro Italico in Roma, nel tratto
della tangenziale est. Lo ha stabilito la terza sezione della Cassazione civile
con una sentenza (n. 29798) pubblicata pochi giorni fa, il 12 novembre 2025,
affermando che è dovere del Comune osservare, per le strade cittadine, le regole
tecniche e i canoni di diligenza e prudenza idonei ad evitare che il traffico
della zona provochi rumori intollerabili e smog oltre i limiti in danno degli
abitanti.
Tanto più che una prima sentenza aveva già condannato, con riferimento al
rumore, il Comune di Roma a “predisporre idonee misure affinché – nel tratto
stradale ove insistono le abitazioni degli attori/appellanti e interessato pure
dall’immissione di polveri sottili – sia collocato un limite di velocità
veicolare di 30 km/h, oltre che a provvedere a proprie cure e spese
all’eliminazione delle immissioni sonore nocive attraverso la collocazione di
pannelli fonoassorbenti”.
In particolare, la Cassazione ha respinto con decisione l’argomento principale
(peraltro di grande attualità, in vista del prossimo referendum) avanzato
dall’amministrazione capitolina, secondo cui solo il Comune può stabilire i
limiti di velocità sulle strade, osservando che non si tratta di comportamenti
discrezionali della pubblica amministrazione ma di “un’attività soggetta al
principio del neminem laedere”; per cui, “in presenza di immissioni
intollerabili, dipendenti dal contegno della pubblica amministrazione“
proprietaria delle strade, non può esservi alcuna discrezionalità in quanto è in
gioco la salute dei cittadini. E pertanto, non vi è alcuna invasione di campo da
parte della magistratura e l’amministrazione “può essere condannata al
risarcimento del danno, così come al facere necessario a ricondurre le dette
immissioni al di sotto della soglia della normale tollerabilità”.
Conclusione della Suprema Corte: il ricorso deve essere respinto e il Comune di
Roma deve corrispondere a ciascuno dei proprietari-abitanti cittadini che hanno
fatto causa un risarcimento di 10.000 euro ciascuno.
Trattasi, come è evidente, di una sentenza, a dir poco, della massima rilevanza
in quanto apre la porta a migliaia di ricorsi da parte di chi è costretto a
vivere in una città con alto tasso di inquinamento per smog e rumore. Con
milioni di euro che questi Comuni dovrebbero pagare per danni ai cittadini che
vivono nelle zone più inquinate. Situazione che non riguarda solo Roma ma anche
molte altre città italiane, fra cui spiccano Napoli, Palermo, Genova, Messina,
Torino e Milano.
Tanto più che non si tratta di una sentenza isolata. Pochi mesi fa, su
iniziativa di Greenpeace e altri, il nostro massimo organo giurisdizionale, la
Cassazione a sezioni unite, con una pronuncia rivoluzionaria (n. 20381 del 21
luglio 2025), ribaltando la sua precedente giurisprudenza, aveva infatti già
affermato la competenza dei giudici italiani a decidere per cause intentate al
fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati dal mancato rispetto di
misure relative al cambiamento climatico come quelle per la limitazione delle
emissioni; aggiungendo che, parallelamente al dovere degli Stati e delle aziende
inquinanti di agire per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti a livello
comunitario, esiste un diritto dei cittadini a ottenere il risarcimento dei
danni provocati da questo comportamento che lede il loro “diritto alla vita e al
rispetto della vita privata e famigliare”, tutelato dalla Convenzione europea
per i diritti dell’uomo.
E proprio per questo, in totale consonanza con la nostra Costituzione e con la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte
internazionale di giustizia, aveva respinto anche in quel caso tutte le
obiezioni secondo cui non si possono sindacare la libertà di impresa sancita
dalla Costituzione, né misure che presuppongono valutazioni di natura
politico-legislativa di competenza di organi politici.
L'articolo Il comune di Roma deve 10mila euro di risarcimento ai cittadini che
vivono in zone inquinate: una sentenza storica proviene da Il Fatto Quotidiano.
Confermata la condanna di un anno per omicidio colposo a danni di Pietro Delogu,
il proprietario dell’azienda vinicola Tenute Delogu ad Alghero, in provincia di
Sassari. L’uomo era stato giudicato colpevole dalla Corte d’appello di Sassari
dopo l’assoluzione in primo grado.
A seguito della sentenza, l’uomo aveva presentato il ricorso in Cassazione,
respinto dalla corte. Il processo era partito a seguito della morte dell’operaio
Paride Meloni, avvenuta l’8 settembre 2017 nel tentativo di eseguire lavori di
manutenzione al boccaporto di un silo di vino alto 3 metri. Durante l’operazione
l’operaio scivolò e rimase incastrato con testa e busto all’interno del
contenitore pieno di vino fermentato.
Furono proprio i vapori di anidride carbonica a uccidere Paride, che aveva
lottato per liberarsi dalla scomoda posizione ma che perse conoscenza dopo due
minuti. Secondo la sentenza dei giudici d’appello, Delogu sarebbe responsabile
di omicidio colposo in qualità di presidente del consiglio di amministrazione
dell’azienda per aver lasciato lavorare Meloni da solo, senza aiuti od operai
vicini che avrebbero potuto soccorrerlo. Inoltre Delogu, assistito dagli
avvocati Nicola Lucchi e Pantaleo Mercurio, è stato condannato anche al
risarcimento economico della famiglia di Meloni, costituitasi parte civile con
l’avvocata Maria Giovanna Marras.
L'articolo Morì soffocato dopo la caduta nel silo: il titolare dell’azienda
condannato a un anno proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sul nuovo processo d’appello sulla tragedia dell’hotel Rigopiano (deciso dalla
Cassazione poco meno di un anno fa) potrebbe calare la scure della prescrizione.
A segnalarlo con forza è il procuratore generale di Perugia, Paolo Barlucchi,
che ha richiamato la “problematicità del doppio termine di prescrizione” legato
al complesso percorso giudiziario iniziato a Pescara e approdato in Umbria dopo
la decisione della Suprema corte. Un rischio concreto, secondo l’avvocato Romolo
Reboa, legale di alcuni familiari delle vittime: “Questo processo è arrivato a
Perugia con grande ritardo: purtroppo le famiglie rischiano di pagare cara la
tempistica e l’organizzazione del giudizio che si ebbe a Pescara, che criticai
fortemente. Purtroppo, il tempo mi sta dando ragione”.
L’hotel Rigopiano di Farindola (Pescara) il 18 gennaio 2017 fu travolto e
distrutto da una valanga poche ore dopo il terremoto che si registro in Centro
Italia. L’indagine fu molto complessa: si indagò sulle responsabilità di Comune
e provincia e Regione, sull’omessa pianificazione territoriale di una Legge del
1992 e la carta valanghe approntata in ritardo. Accertamenti sulla strada
provinciale n.8 che non era stata liberata dalla neve impedendo agli ospiti
dell’hotel, che avrebbero avuto la possibilità di lasciarlo dopo le scosse di
terremoto, di andare via perché era rotta una turbina spazzaneve. Si indagò
sull’allarme dato in ritardo e quello che era stato ignorato. Secondo gli
ermellini sarebbe stato possibile prevenire il disastro. Le 29 vittime vittime
erano ospiti della struttura e dipendenti, undici i superstiti tirati fuori
dalla neve e dalle “macerie” della struttura dai soccorritori che lavorarono
giorno e notte per salvare più persone possibile, mentre l’Italia teneva il
fiato sospeso.
IL PESO DEI RITARDI E LA NUOVA CORNICE FISSATA DALLA CASSAZIONE
Il processo d’appello bis è stato disposto dopo la decisione della Suprema
Corte, depositata nelle 158 pagine delle motivazioni del 3 dicembre 2024. La
Cassazione ha stabilito che la tragedia “si poteva prevenire” e che ciò “era
possibile e dovuto”, indicando come elemento cardine la mancata pulizia della
strada provinciale che conduce all’albergo. Se quella via fosse stata sgomberata
la mattina del 18 gennaio 2017, quando gli ospiti tentarono di lasciare la
struttura, la tragedia non si sarebbe verificata. Accogliendo parzialmente il
ricorso della Procura generale dell’Aquila, la Corte aveva disposto un nuovo
giudizio per dieci imputati, tra cui sei funzionari della Regione Abruzzo
inseriti che erano stati assolti nei primi due gradi di giudizio. Gli ermellini
avevano chiesto ai giudici umbri di valutare per loro le accuse di disastro
colposo e lesioni plurime colpose.
CHIESTA L’ESCLUSIONE DI PRIMAVERA DALL’APPELLO
Gli avvocati di Emilio Primavera, ex direttore del Dipartimento di Protezione
civile della Regione Abruzzo, hanno chiesto la sua esclusione dal nuovo
giudizio. Per la Cassazione l’ingegnere doveva essere nuovamente imputato, ma i
legali Vittorio Manes e Augusto La Morgia sostengono che debba essere confermata
l’assoluzione ottenuta in primo grado a Pescara. Secondo la difesa, l’ingegnere
— in carica da meno di due anni prima della tragedia — non avrebbe comunque
potuto redigere in tempo la Carta valanghe (Clpv), un documento che, come
confermato dai periti del Tribunale, richiede almeno quattro anni solo per la
fase preliminare. I lavori, secondo le stime, si sarebbero conclusi due anni e
mezzo dopo il gennaio 2017. Di conseguenza, affermano i legali, “non è possibile
predicare alcuna prevedibilità dell’evento” rispetto alla condotta del
dirigente.
LE RICHIESTE DELLE PARTI CIVILI E IL NUOVO APPUNTAMENTO IN AULA
Nell’udienza del 25 novembre scorso, le parti civili hanno presentato richieste
in linea con quelle del sostituto procuratore generale Paolo Barlucchi,
confermando la volontà di mantenere il perimetro accusatorio indicato dalla
Cassazione. Il processo riprenderà lunedì 1° dicembre: un calendario che
procede, ma che continua a fare i conti con i tempi oggettivamente stretti
imposti dal rischio prescrizione. Per le famiglie delle vittime, il timore è che
dopo otto anni dalla tragedia la giustizia possa sfumare non per le conclusioni
dibattimentali, ma perché troppo tempo è passato. “Le famiglie rischiano di
pagare — ha ribadito Reboa — i ritardi accumulati in origine e un sistema che
ancora una volta non garantisce risposte nei tempi dovuti”. Un rischio che, per
chi ha perso tutto a Rigopiano, sarebbe l’ennesimo peso da sopportare.
LA STORIA DEL PROCESSO
In primo grado furono condannati il sindaco di Farindola Ilaria Lacchetta (due
anni e otto mesi); i dirigenti della Provincia di Pescara D’Incecco e Di Blasio
(tre anni e quattro mesi ciascuno); sei mesi ciascuno per l’ex gestore Di
Tommaso ed il geometra Giuseppe Gatto. In quella occasione l’accusa di disastro
colposo cadde per molti dei principali imputati, tra i quali l’ex prefetto, per
il quale il pool della procura coordinato dal procuratore capo Giuseppe Bellelli
e composto dai sostituti procuratori Anna Benigni e Andrea Papalia, aveva
chiesto 12 anni; l’ex presidente della Provincia di Pescara Antonio Di Marco,
per il quale erano stati chiesti sei anni.
Erano stati assolti anche tecnici e dirigenti regionali in uno scenario, secondo
l’articolato impianto accusatorio, di diffuse responsabilità su vari fronti, dai
permessi di costruzione dell’albergo, alla gestione dell’emergenza di quei
giorni drammatici sul fronte delle condizioni atmosferiche, alla gestione dei
soccorsi, fino ad una presunta vicenda di depistaggio in merito alla telefonata
di Gabriele D’Angelo, dipendente dell’albergo e una delle vittime, che aveva
allertato la Prefettura sulla situazione di pericolo, fatta sparire.
Tre condanne in più, compresa quella dell’ex prefetto di Pescara, Francesco
Provolo, in secondo grado. In appello era stata parzialmente riformata la
sentenza. La condanna di maggior rilievo era stata quella di Provolo, assolto in
primo grado, al quale i giudici avevano inflitto 1 anno e otto mesi per falso
ideologico e rifiuto di atti di ufficio. Sentenza ribaltata anche per Enrico
Colangeli, tecnico comunale, e Leonardo Bianco, dirigente della Prefettura di
Pescara, entrambi assolti in primo grado. Confermate in appello 22 assoluzioni.
Il verdetto della Corte d’appello dell’Aquila aveva stabilito quindi un totale
di 8 condanne confermando le condanne inflitte in primo grado per il sindaco di
Farindola Ilario Lacchetta, per i dirigenti della Provincia Paolo D’Incecco e
Mauro Di Blasio, per il tecnico Giuseppe Gatto e per l’ex gestore dell’hotel
Bruno Di Tommaso. Per l’ex capo di gabinetto della Prefettura Leonardo Bianco,
la Corte aveva disposto una condanna di un anno e 4 mesi mentre per il tecnico
Colangeli la pena era stata di due anni e 8 mesi. Poi era intervenuta la
Cassazione e il nuovo processo.
L'articolo Processo Rigopiano, l’allarme sulla prescrizione del pg di Perugia.
L’avvocato di parte civile: “Grande ritardo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Procura generale della Cassazione ha depositato oggi una memoria di 46 pagine
che, pur senza contenere ancora una richiesta formale, sembra anticipare il
rigetto del ricorso presentato dai pm di Palermo direttamente in Cassazione
contro l’assoluzione del ministro Matteo Salvini nella vicenda della nave della
Ong spagnola Open Arms. Secondo i giudici di primo grado “il divieto di ingresso
di Salvini era illegittimo, ma assegnazione porto sicuro spettava alla Spagna”.
Nell’atto di impugnazione i pm palermitani avevano scritto che la sentenza è
“manifestamente viziata per l’inosservanza di quella serie di norme
integratrici, quali quelle sulla libertà personale e le Convenzioni sottoscritte
dall’Italia per il soccorso in mare di cui il Tribunale avrebbe dovuto tenere
conto nell’applicazione della legge penale”.
Secondo quanto riportato dall’Ansa, il procuratore generale illustrerà le
proprie argomentazioni nell’udienza fissata per l’11 dicembre, ma dalla lettura
della memoria emerge un orientamento chiaro: i magistrati di legittimità
ritengono che il ricorso della procura siciliana presenti un deficit probatorio
significativo e non dimostri la sussistenza degli elementi costitutivi dei reati
contestati, sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. “Prendo atto con
soddisfazione che la Procura generale ha sostenuto che non sussistono i reati”,
ha commentato il vicepremier Matteo Salvini.
A luglio, la pubblica accusa di Palermo aveva deciso di bypassare il grado
d’appello e presentare un ricorso per “saltum”, rivolgendosi direttamente alla
Cassazione e sostenendo che nell’assoluzione di primo grado fossero appunto
presenti violazioni di legge e errori di interpretazione normativa. Un elemento
centrale su cui punta la Procura è la decisione delle Sezioni unite civili della
Cassazione che a febbraio aveva condannato il governo a risarcire uno dei
migranti bloccati sulla nave della Guardia costiera Diciotti, l’estate
precedente a quella del caso Open Arms.
La memoria della Procura generale, tuttavia, sottolinea come il ricorso si
concentri esclusivamente sulla condotta relativa alla privazione della libertà
personale, trascurando i profili relativi alla “colpevolezza” del ministro e
senza considerare gli elementi che escludono, o quantomeno mettono in dubbio,
l’esistenza del dolo. “In sostanza – scrivono i magistrati – se la posizione di
garanzia del Ministro dell’Interno può giustificare la contestazione della
limitazione della libertà personale, non si individua nel ricorso alcuna
argomentazione significativa volta a dimostrare l’esistenza della colpevolezza o
degli altri elementi costitutivi del reato, prospettandosi unicamente la
condotta e l’evento naturalistico ad essa connesso.”
Secondo la Procura generale della Cassazione, quindi, il ricorso dei pm di
Palermo manca di dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi necessari a
configurare i reati imputati al ministro, prefigurando così una probabile
bocciatura dell’impugnazione alla prossima udienza. Secondo l’ufficio della
procura generale “risultano insufficienti i richiami alla sentenza Diciotti
pertinenti (oltre che, naturalmente, pienamente condivisibili) al solo scopo
della corretta applicazione dei principi di diritto in essa sanciti, ma non
bastevoli, evidentemente, a ‘copriree, nell’ambito della giurisdizione penale,
la diversa ed assai più articolata esigenza di verifica di tutti gli elementi
costitutivi dell’ipotesi di reato contestata, in relazione alla quale si chiede
l’affermazione di responsabilità dell’imputato”.
L'articolo Open Arms, la procura generale della Cassazione “boccia” il ricorso
dei pm contro l’assoluzione di Salvini proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il percorso giudiziario per il brutale pestaggio di Willy Monteiro Duarte ancora
non è finito. I giudici della Cassazione hanno reso definitivo l’ergastolo per
Marco Bianchi ma disposto un nuovo processo di appello, il terzo, per il
fratello Gabriele. Per il maggiore dei fratelli di Artena gli ermellini
chiedono, così come sollecitato dalla Procura generale, di ridiscutere le
attenuanti generiche che gli sono state riconosciute nell’appello bis che portò
a una condanna a 28 anni di carcere. Bianchi rischia quindi di essere nuovamente
condannato al carcere a vita come deciso in primo grado. I due fratelli
massacrarono con calci e pugni il ragazzo nella notte tra il 5 e il 6 settembre
del 2020 a Colleferro, centro in provincia della Capitale. La vittima era
intervenuta per aiutare un amico e tentare di sedare una rissa.
Per entrambi gli imputati era già stata riconosciuta la penale responsabilità
per quanto compiuto quella tragica notte. La Cassazione – che aveva disposto un
nuovo processo – in una prima pronuncia aveva reso definitive le condanne per
gli altri due imputati: a 23 anni per Francesco Belleggia e a 21 per Mario
Pincarelli, che si affiancarono da subito ai fratelli e colpirono Willy con un
calcio alla testa e con colpi e pugni quando ormai il ragazzo era a terra
inerme.
La brutale aggressione durò cinquanta secondi e in quella azione i due fratelli
ebbero, secondo l’accusa, “un ruolo preponderante con Gabriele, esperto
dell’arte marziale Mma, che dà il via con un violento calcio al petto di
Monteiro seguito subito da Marco”. Il pestaggio avvenne all’esterno di un pub. I
quattro del branco, come raccontato da un testimone, scesero da una auto e si
lanciarono contro chiunque capitasse a tiro. Nel corso dell’appello bis i
fratelli Bianchi hanno preso la parola per dichiarazioni spontanee chiedendo
sostanzialmente scusa ai familiari del 21enne di origini capoverdiane.
L'articolo Omicidio Willy, ergastolo definitivo per Marco Bianchi. Ma appello
ter per il fratello Gabriele proviene da Il Fatto Quotidiano.
Lavoratori cinesi chini a cucire tomaie; tutti i giorni, soprattutto la notte, e
pagati 2,75 euro all’ora. Natale compreso. La nuova inchiesta della procura di
Milano sull’ipotizzato sfruttamento della manodopera – come avvenuto per altri
marchi della moda e per società di logistica o security – non cambia lo scenario
emerso e ipotizzato in altre indagini. Ma per la prima volta registra uno
scontro diretto tra inquirenti e società indagata che parla di “preoccupante
tempismo”. Tre manager della Tod’s spa sono indagati per caporalato e la stessa
società è stata iscritta nel registro degli indagati ai sensi della legge sulla
responsabilità amministrativa degli enti. L’inchiesta del pm Paolo Storari, che
già nei mesi scorsi aveva portato a chiedere l’amministrazione giudiziaria per
il gruppo, riguarda presunti omessi controlli nella catena dei subappalti della
produzione, in particolare negli opifici cinesi utilizzati per realizzare
componenti e capi per il brand. Durante gli accertamenti sarebbero emerse le
condizioni di lavoro che la procura bolla come “para schiavitù“.
Ora il pubblico ministero, come emerge da una richiesta di interdittiva
presentata al giudice per le indagini preliminari Domenico Santoro e anticipata
dal Corriere della Sera, contesta alla società non solo responsabilità omissive,
ma anche condotte dolose. Nell’istanza, con la quale si chiede che Tod’s non
possa pubblicizzare i propri prodotti per sei mesi, si indica che i manager non
avrebbero tenuto “minimamente conto dei risultati” delle ispezioni effettuate in
sei opifici situati tra le province di Milano, Pavia, Macerata e Fermo, né dei
numerosi audit che segnalavano “indici di sfruttamento” dei lavoratori: turni
eccessivi, paghe irregolari, scarsa sicurezza e condizioni alloggiative
degradanti.
Prima di Tod’s erano finiti sotto indagine la Giorgio Armani Operation spa (per
cui era stata revocato il provvedimento dopo un “percorso virtuoso”, ndr). A
maggio invece era finita in amministrazione giudiziaria la Valentino Bags Lab,
società di produzione di borse e accessori. Storari nel 2024 aveva chiesto e
ottenuto i commissariamenti anche di Alviero Martini, Armani operations appunto
e Manufactures Dior, poi revocati dopo che le società hanno adottato
contromisure. Il coinvolgimento di Tod’s, nel cui board siedono anche figure
come Luca Cordero di Montezemolo e Luigi Abete, nelle inchieste sul caporalato e
gli opifici cinesi utilizzati nell’alta moda italiana era già emerso a luglio
2025 nell’indagine che ha portato all’amministrazione giudiziaria del marchio
Loro Piana controllato da una delle 10 famiglie più ricche del mondo (gli
Arnault). La società ora però è formalmente indagata e risponde con durezza alla
procura come aveva già fatto a suo tempo Diego Della Valle.
LA QUESTIONE DI COMPETENZA TERRITORIALE E LA BATTAGLIA GIUDIZIARIA
In passato gli accertamenti e i provvedimenti avevano portato le società e le
aziende a risanare gli illeciti e in alcuni casi le indagini hanno portato
all’assunzione di migliaia di lavoratori. Questo di Tod’s appare un caso
diverso, gli inquirenti avevano chiesto la misura di prevenzione
dell’amministrazione giudiziaria per Tod’s spa per una “condotta agevolatoria”
per non aver controllato fenomeni di “sfruttamento del lavoro” nella catena di
produzione, attraverso opifici gestiti da cinesi, delle divise destinati ai
commessi negli store. Con l’emersione delle indagini era spuntato anche un nodo
giuridico: una questione di competenza territoriale. La Cassazione ha stabilito
che la competenza territoriale debba passare ad Ancona.
Nel frattempo il pm ha depositato un atto di 144 pagine, chiedendo
l’interdittiva sulla pubblicità. Dall’istanza emerge che la società e tre
dirigenti – Simone Bernardini, Mirko Bartoloni e Vittorio Mascioni – sono
indagati perché avrebbero impiegato “manodopera in condizioni di sfruttamento e
approfittando dello stato di bisogno di cittadini cinesi”. I lavoratori erano
impiegati nella produzione, tra l’altro, delle divise per i commessi dei negozi
e per la realizzazione delle tomaie delle scarpe.
Le ipotizzate violazioni ricostruite dalla Procura vanno dalla normativa
sull’orario di lavoro alle retribuzioni sotto soglia, dalla sicurezza
all’igiene, fino ai dormitori “degradanti”. Secondo gli inquirenti, l’azienda
avrebbe agito nella “piena consapevolezza” delle condizioni degli operai,
ignorando i rilievi dei certificatori esterni che tra il 2023 e il 2024 avevano
segnalato “gravi violazioni”. Il 10 ottobre, nella conferenza stampa sulla
vicenda, Diego Della Valle aveva dichiarato: “Il nostro è un gruppo rispettato
nel mondo, facciamo dei valori etici una bandiera. Non siamo quelle porcheriole.
Il pm Paolo Storari venga a vedere le nostre aziende”.
IL “SISTEMA ILLECITO” E LE ACCUSE DELLA PROCURA
Secondo l’ipotesi dell’accusa, Tod’s avrebbe tratto vantaggio da un “sistema
illecito” capace di generare “enormi profitti grazie allo sfruttamento della
manodopera cinese (pesantemente sottopagata)” e non avrebbe modificato la
propria organizzazione interna, continuando ad affidarsi ad alcuni fornitori
coinvolti nel procedimento. Da qui la valutazione di un “grave pericolo di
reiterazione” del caporalato. La Procura, guidata da Marcello Viola, parla anche
di una “cecità intenzionale”: gli audit commissionati a una società esterna non
sarebbero mai stati presi in considerazione, nonostante le gravi irregolarità
documentate. Tra gli elementi alla base della richiesta al gip figura anche un
contratto d’appalto tra Tod’s ed Evergreen, società con “4 dipendenti e locali
inidonei” all’attività produttiva. Secondo il pm, i dati riportati nel contratto
sarebbero “palesemente falsi”, poiché Evergreen “non ha alcuna linea di
produzione”, ed è stata autorizzata da Tod’s a delegare parte del lavoro a due
laboratori dove, per la Procura, avveniva lo sfruttamento. Già a ottobre era
emerso che alcuni lavoratori venivano pagati “2,75 euro all’ora”, lavorando
soprattutto di notte e anche nei giorni festivi, “Natale compreso”, in una
condizione definita “di para schiavitù”.
LE TESTIMONIANZE DEI LAVORATORI E GLI AUDIT DEL 2023 E 2024
Negli atti dell’inchiesta compaiono le dichiarazioni di oltre cinquanta
lavoratori degli opifici. Una operaia cinese ha raccontato: “Se non lavoro non
vengo retribuita, perché vengo pagata in base alle tomaie che realizzo”. Altri
hanno riferito di dormire in camere sopra i laboratori, pagando circa 150 euro
per l’alloggio. La manodopera, sottolinea il pm, era utilizzata “a ciclo
continuo, h24”, con maggiore produttività nelle ore notturne e nei giorni
festivi, quando i controlli sono meno frequenti. Un audit del maggio 2024 aveva
già denunciato lavoro “a cottimo”, contributi “meno della metà” di quanto
previsto dalla contrattazione collettiva e la presenza di “materiale
infiammabile accatastato” con rischio incendio. L’incaricato dell’audit,
ascoltato il 23 ottobre, ha riferito che già nel dicembre 2023 “avevo contestato
queste ed altre violazioni”. Negli atti compaiono anche fotografie di “12 camere
da letto e due servizi igienici”, entrambi in pessime condizioni igieniche,
negli ambienti abitativi collegati a uno degli opifici. Il “sistema”, secondo il
pm, riguardava la produzione “in serie” e a “bassissimo costo” di capi
d’abbigliamento, tomaie e parti di calzature a marchio Tod’s.
LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE E LE REAZIONI DELLA SOCIETÀ
Tod’s ha reso noto di prendere atto del rigetto da parte della Cassazione delle
richieste e del ricorso del pm Storari in merito alla competenza territoriale
del procedimento di prevenzione. In un comunicato, la società afferma: “In
merito alle nuove contestazioni sulla medesima vicenda, la società sta ora
esaminando con la stessa tranquillità l’ulteriore materiale prodotto, con
preoccupante tempismo, dal dottor Storari”. La Cassazione era stata chiamata a
decidere se il procedimento di prevenzione, con richiesta di amministrazione
giudiziaria per omessi controlli sul caporalato, spettasse a Milano o ad Ancona,
poiché i laboratori al centro delle verifiche si trovano tra Lombardia e Marche,
dove ha sede la società. I giudici hanno confermato la competenza di Ancona,
come già stabilito dal Tribunale e dalla Corte d’Appello. Il procedimento di
prevenzione – nel quale né la società né i responsabili risultano indagati – è
distinto da quello penale, che prosegue davanti al gip di Milano con la
richiesta di interdittiva.
L'articolo Tod’s sotto accusa per caporalato, “lavoratori a 2,75 euro l’ora
(anche a Natale) e tre manager indagati”. La società contro il pm Storari:
“Preoccupante tempismo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sarà estradato in Germania Serhii Kuznietsov, il 49enne ex militare ucraino
arrestato ad agosto nel Riminese – in esecuzione di un mandato europeo – con
l’accusa di essere il regista dell’attentato ai gasdotti Nord Stream del
settembre 2022. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso contro il via
libera alla consegna, arrivato dalla Corte d’Appello di Bologna dopo un primo
annullamento da parte della Suprema Corte. Kuznietsov, detenuto in custodia
cautelare nel carcere bolognese della Dozza, verrà preso in carico a breve dalla
polizia tedesca: nei giorni scorsi aveva iniziato uno sciopero della fame per
protestare contro condizioni detentive ritenute non dignitose.
Il difensore italiano dell’arrestato, l’avvocato Nicola Canestrini, fa sapere di
“prendere atto” della decisione: “Per quanto grande sia la delusione confido
nella assoluzione a seguito del processo nel merito che si terrà in Germania. La
giustizia è un sentiero tortuoso, il risultato di un lavoro continuo, non un
miracolo che si autoavvera. La battaglia per i diritti e per il diritto è
tutt’altro che conclusa: proseguirà in Germania, dove le colleghe potranno
finalmente argomentare e sviluppare i punti giuridici che avevamo predisposto,
una volta che sia stato finalmente garantito il completo accesso al fascicolo,
sino ad oggi sistematicamente negato”.
L'articolo Sabotaggio Nord Stream, sarà estradato in Germania l’ucraino
arrestato in Romagna: la Cassazione conferma l’ok proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il referendum costituzionale sulla separazione delle carriere si terrà entro
fine marzo, al più tardi domenica 29 marzo. È l’effetto della decisione
dell’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione, che con
ordinanza notificata il 19 novembre ha ammesso le quattro richieste presentate
rispettivamente dai deputati e dai senatori di maggioranza e di opposizione. Ora
il Consiglio dei ministri dovrà stabilire la data della consultazione, che sarà
indetta dal presidente della Repubblica entro sessanta giorni dall’ammissione,
quindi entro il 19 gennaio: il voto dovrà poi tenersi, in base alla legge 352
del 1970, “in una domenica compresa tra il cinquantesimo e il settantesimo
giorno successivo alla emanazione del decreto di indizione”.
L’ultima domenica utile, quindi, è il 29 marzo. Ma è probabile che il governo
cercherà di anticipare, per sfruttare il vantaggio del Sì nei sondaggi e per
avere più tempo – in caso di successo – per scrivere le leggi attuative della
riforma prima della scadenza dell’attuale Consiglio superiore della
magistratura, in programma all’inizio del 2027. In teoria, se il Consiglio dei
ministri deliberasse entro la fine di novembre, si potrebbe votare già a metà
gennaio.
La Cassazione ha deciso che il quesito sarà quello standard, contenente il
titolo del provvedimento: “Approvate il testo della legge costituzionale
concernente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione
della Corte disciplinare” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta
ufficiale numero 253 del 30 ottobre 2025?”. I senatori di centrodestra, invece,
chiedevano di aggiungere riferimenti più “mediatici”, specificando che la legge
riguarda “la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice, la
costituzione della Corte disciplinare per i magistrati e la formazione mediante
sorteggio dei Consigli superiori della magistratura”. Un’ipotesi che però la
Suprema Corte ha bocciato.
L'articolo Separazione carriere, ok della Cassazione al referendum: si voterà
entro il 29 marzo proviene da Il Fatto Quotidiano.