Nel 2026, la pubblicità potrebbe sbarcare su Gemini, il sistema d’intelligenza
artificiale di Google (Alphabet). O almeno questo è ciò che nelle scorse ore è
circolato online a partire da un’esclusiva (subito smentita) della testata
giornalistica Adweek che citava fonti interne all’azienda. È una prima epifania:
vero o falso che sia, si inizia a pensare a come saranno inglobate le pubblicità
nei sistemi di ricerca con l’Ai e il rischio che gli utenti non riescano a
distinguere tra oggettività, induzione all’acquisto e spot inizia a essere
concreto. Le leggi sul tema, però, ad oggi sono molto carenti.
IL CASO GOOGLE
Ma partiamo dall’attualità. Nel caso di Google, il condizionale sulla notizia di
Gemini è d’obbligo: a stretto giro, infatti, è arrivata la smentita ufficiale su
X da parte di Ginny Marvin, Ads Product Liaison di Google: non solo non ci sono
annunci visibili su Gemini, ha detto, ma mancano anche piani futuri
sull’argomento. D’altro canto, però, ha confermato l’impegno di Google su AI
Overviews, i riassunti generati dall’intelligenza artificiale che tutti vediamo
tra i risultati di ricerca: negli Usa, infatti, tra i risultati già possono
comparire annunci pubblicitari in linea con le richieste dell’utente ed è solo
questione di tempo prima che la funzione si estenda in tutto il mondo.
E QUELLO DI CHAT GPT
Anche ChatGPT, in queste stesse ore, ha fatto discutere attorno allo stesso
tema. Alcuni utenti paganti hanno visto comparire, durante una conversazione con
l’Ai, il suggerimento per un’app (Peloton) che sembrava in tutto e per tutto
simile ad una proposta pubblicitaria integrata nelle conversazioni. Il
co-fondatore della startup di intelligenza artificiale Hyperbolic, Yuchen Jin,
lo ha raccontato con un post di X, screenshot incluso. Contrariato, ha fatto
notare, oltretutto, di essere un abbonato super-pagante (200 dollari al mese per
il piano Pro): come considerarlo se non una sperimentazione di open Ai sulla
pubblicità? Daniel McAuley, responsabile dei dati di OpenAI ha però chiarito che
non era uno spot bensì “solo un suggerimento per installare l’app di Peloton”,
in linea – spiegava – con alcune implementazioni legate alle app che la
piattaforma sta prevedendo per il futuro. Ma ha dovuto però ammettere che “la
mancanza di pertinenza” della conversazione ha reso l’esperienza negativa e
confusa.
LA PUBBLICITÀ PER SOSTENERSI
Il fatto che si sia subito pensato all’advertising apre però una riflessione
d’obbligo: con il tempo, i sistemi di ricerca basati sull’Ai, che restituiscono
testi complessi e strutturati basati su fonti non sempre chiare (dall’origine
spesso opaca e scorretta) avranno integrata la pubblicità per potersi sostenere.
Sostituiranno i tradizionali motori di ricerca e, come già accade per gli
adolescenti che li utilizzano come psicologo, avranno funzioni più invasive sia
in termini di ciò che restituiranno all’utente, sia in termini di comprensione,
profilazione e targetizzazione dell’utente. Grazie al machine learning, il
linguaggio sarà sempre più naturale e confidenziale così come l’approfondimento
delle informazioni “umane”. Tutti elementi preziosi per modellare il marketing
sull’utente. Esempio banale: se farò una ricerca su un problema amoroso, potrei
ricevere in futuro sia una risposta sul tema, sia il consiglio commerciale sui
migliori terapeuti (inserzionisti) per me? Probabilmente sì.
LEGGI CARENTI
Intanto le norme – a partire dalla legge delega sull’IA recentemente approvata
in Italia e che dovrà produrre i relativi decreti legislativi – non regolano
specificamente l’introduzione della pubblicità in questi sistemi. “Né l’Ai Act
europeo né la legge italiana in proibiscono chiaramente l’utilizzo della
pubblicità nei sistemi d’intelligenza artificiale – spiega Fulvio Sarzana,
avvocato e docente presso l’Università Lum di Bari -. Certo però le tematiche
antitrust hanno un peso importante: parliamo comunque di decisioni automatizzate
che possono anche incidere sui diritti fondamentali dei cittadini”.
PRIVACY, ANTITRUST E AI ACT
Ci sono infatti due tipi di problematiche: la prima riguarda la privacy e il
regolamento europeo (GDPR) che impone la possibilità di contrastare il
trattamento automatizzato dei propri dati; la seconda è di tipo concorrenziale,
legata alla posizione dominante dei servizi pubblicitari che potrebbe
coinvolgere anche il settore dei chatbot. Ciononostante, “l’advertising – spiega
Sarzana – non è uno dei campi contenuti nell’allegato 3 dell’AI Act perché non
si ritiene causi rischi sistemici per i diritti fondamentali dei cittadini”.
TRASPARENZA ASSENTE
Si aggiunge poi il problema della protezione del segreto industriale da parte
delle aziende: capire quanto ciò che appare all’utente sia veicolato
dall’advertising o dai rapporti tra inserzionisti e aziende sarà sempre più
difficile. “È il problema del black box dell’intelligenza artificiale: – spiega
Sarzana – non siamo in grado di capire come funziona l’algoritmo. Il GDPR
permette di opporsi al trattamento automatizzato della nostra persona, di
opporsi alla ricostruzione di noi e della nostra personalità fatta dai sistemi.
Però sapere come funziona l’algoritmo e quindi capire quali siano gli
accostamenti che portano a una risultanza, ad oggi, non è previsto da alcuna
norma. E questo ha a che vedere sia con le pubblicità che con i diritti delle
persone”. Non esistono insomma disposizioni che obbligano a mostrare il codice:
“Rimarrà sempre un aspetto oscuro nelle tecnologie, a maggior ragione
dell’intelligenza artificiale, che può generare anche allucinazioni o fornire
quadri distorti delle persone, oltre creare un ecosistema opaco ”. Capace un
giorno di spingerci, anche con linguaggio sempre più comprensivo, naturale e
confidenziale, a comprare.
L'articolo La pubblicità si affaccia anche nella AI. Il caso (smentito) di
Gemini e quello di ChatGPT. Le leggi? Sono già obsolete proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Google
Utilizzando i contenuti degli editori online e i video caricati su Youtube per
sviluppare la propria intelligenza artificiale, Google ha violato le norme Ue
sulla concorrenza? È questa la domanda alla quale dovrà rispondere l’indagine
aperta dalla Commissione Europea sul gigante di Mountain View per accertare se
Google abbia imposto condizioni contrattuali ingiuste a editori e creatori di
contenuti, oppure garantendosi un accesso privilegiato a questi contenuti, con
possibili effetti negativi sugli sviluppatori di modelli di AI concorrenti.
L’indagine antitrust sarà condotta con procedura prioritaria: se confermate, le
pratiche sleali si configurerebbero come abuso di posizione dominante. Bruxelles
teme che Google abbia utilizzato in modo improprio i contenuti degli editori
online per alimentare i propri servizi di intelligenza artificiale generativa
come AI Overviews e AI Mode mostrati nelle pagine dei risultati di ricerca,
senza offrire agli editori un’adeguata remunerazione e senza consentire loro di
rifiutare l’uso dei propri contenuti senza perdere l’accesso al traffico
proveniente da Google Search, da cui molti dipendono.
Timori Ue analoghi riguardano anche i video e gli altri contenuti caricati su
YouTube per addestrare i modelli di AI generativa di Google, anche in questo
caso senza compensare i creatori né permettere loro di opporsi. Chi carica
contenuti su YouTube, evidenzia Bruxelles, è obbligato a concedere a Google il
permesso di usarli anche per l’addestramento dell’IA senza tuttavia ricevere un
corrispettivo.
“Una società libera e democratica si fonda su media diversificati, libero
accesso all’informazione e un panorama creativo dinamico. Questi valori sono
centrali per la nostra identità di europei”, ha evidenziato la vicepresidente
dell’esecutivo Ue, Teresa Ribera, ammonendo che “l’IA sta portando innovazioni
straordinarie e molti benefici per cittadini e imprese in tutta Europa, ma
questo progresso non può avvenire a scapito dei principi alla base delle nostre
società”.
L'articolo L’Ue apre un’indagine antitrust su Google: “Contenuti degli editori
online utilizzati per sviluppare l’AI” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sono stati svelati i temi o le persone che nel 2025 in Italia hanno fatto
registrare il maggiore incremento di ricerche, contenuti nella consueta analisi
“Un anno di ricerche di Google”. I risultati? L’addio a papa Francesco, i temi
legati al medio Oriente e Israele, l’exploit del cantante Lucio Corsi a Sanremo.
L’analisi evidenzia che è stato un anno di grandi addii che ha suscitato
l’interesse degli internauti. In primis la morte di papa Francesco il 21 aprile
2025 che ha provocato un’ondata di commozione e presenze internazionali a Roma
in un delicato momento geopolitico. Ma anche lo storico volto televisivo Pippo
Baudo, il re della moda Giorgio Armani, Robert Redford, l’addio delle gemelle
Kessler, unite fino alla fine, e di Eleonora Giorgi.
Un corposo spazio nelle classifiche delle tendenze 2025 di Google lo occupano
gli spettacoli. Spicca l’artista Lucio Corsi, arrivato secondo allo scorso
Festival di Sanremo: è in cima alla lista dei personaggi e delle canzoni con
‘Volevo essere un duro’. Nella stessa lista c’è anche Olly (il vincitore dello
stesso Festival), Bianca Balti, la modella che ha testimoniato sui social la sua
malattia, e i tennisti Lorenzo Musetti e Jasmine Paolini.
Il film che emerge dalle ricerche su Google nel 2025 è “Conclave” uscito pochi
mesi prima della morte di papa Francesco; la serie tv “Monster: La storia di Ed
Gein”; tra le ricette al top c’è il casatiello napoletano. Poi da evidenziare in
cima alla lista dei ‘cosa significa figura la parola parafilia’, cioè le
pulsioni sessuali che possono sconfinare in deviazioni; a seguire ‘la
separazione delle carriere’ in relazione alla riforma della giustizia su cui si
dovrebbe tenere un referendum in Italia tra pochi mesi.
I grandi temi di attualità spiccano nella lista delle domande che gli utenti
hanno rivolto a Google nel 2025. Tra questi ‘perché Israele ha attaccato l’Iran
e Gaza?’, ma anche ‘perché Leone XIV?’, il successore di papa Francesco; ‘perché
Los Angeles brucia? in riferimento ai roghi che quasi un anno fa funestato
Hollywood, ‘perché Sarkozy è in carcere’ e ‘perché Cecilia Sala è stata
arrestata?’ in merito alla detenzione della giornalista italiana a Teheran, poi
rilasciata.
L'articolo Le parole più cercate dagli italiani su Google nel 2025: la morte di
Papa Francesco, la crisi in Medio Oriente e il successo di Lucio Corsi al
Festival di Sanremo proviene da Il Fatto Quotidiano.
I difensori della privacy già si preparavano a celebrare il funerale di Chat
control, il regolamento proposto dalla Commissione europea per sorvegliare tutti
i messaggi in chat di 450 milioni di cittadini europei. Invece il “Grande
fratello” è risorto più minaccioso di prima nel nuovo testo firmato dalla
Danimarca, presidente di turno del Consiglio europeo. La scansione automatica
dell’algoritmo investirà non solo i link, le foto e i video, ma anche le parole
e i testi.
LA MORTE DELLA PRIVACY IN NOME DEI MINORI
Lo scopo è combattere la piaga della pedofilia online in vertiginoso aumento.
Tecnicamente la proposta di chiama Csar, Child sexual abuse regulation. Ma
l’effetto collaterale è la “sorveglianza di massa” – per citare letteralmente il
Parlamento Ue – e la morte della privacy digitale. Di più: il controllo dei
testi apre la possibilità di equivoci drammatici e infondate accuse di
pedofilia. “Nessuna intelligenza artificiale può distinguere in modo affidabile
tra un flirt, il sarcasmo e un ‘adescamento’ criminale”, ha commentato Patrick
Breyer, giurista ed ex europarlamentare tedesco. “Immaginate che il vostro
telefono controlli ogni conversazione con il vostro partner, vostra figlia, il
vostro terapeuta e la trasmetta solo perché da qualche parte compare la parola
‘amore’ o ‘incontro’ – prosegue Breyer – Questa non è protezione dei minori, è
una caccia alle streghe digitale. Il risultato sarà un’ondata di falsi positivi,
che metterà cittadini innocenti sotto il sospetto generale ed esporrà masse di
chat e foto private, persino intime, a sconosciuti”. Dello stesso tenore le
preoccupazioni dell’europarlamentare 5 stelle Gaetano Pedullà. Secondo il
giornalista, il controllo dei testi “potrebbe portare a un’enorme quantità di
false accuse”.
Basta citare la storia di papà Mark, negli Usa, raccontata dal New York Times il
21 agosto 2022. Per una foto ai genitali del figlio, inviata al pediatra in chat
durante la pandemia, è scattata l’indagine per pedofilia: invece era solo un
problema di salute. L’algoritmo non sempre indovina, anzi. Breyer cita un dato
fornito dalla polizia tedesca: circa il 50% di tutte le segnalazioni sono
irrilevanti dal punto di vista penale. Ecco perché, secondo Pedullà, il
compromesso danese “è addirittura peggiore della versione stralciata qualche
settimana fa”. “Con la scusa della tutela dei minori, i governi vogliono
assicurarsi uno strumento potente di sorveglianza e controllo dei cittadini”,
conclude il pentastellato.
IL TRUCCO DANESE E LA “MITIGAZIONE DEL RISCHIO”
Giova ricordare: i servizi di messaggistica possono già spiare ogni chat a
caccia di pedofili, se lo vogliono. Facebook è in prima fila. La sorveglianza
avviene grazie ad una deroga europea alla tutela della privacy varata nel 2021,
rinnovata ogni anno. Prossima scadenza: aprile 2026. Anche per questo Mette
Frederiksen, premier danese socialdemocratica, aveva imposto la priorità per
chat control. La proposta di Copenaghen sembrava seppellire i timori del Grande
fratello perché aboliva l’obbligo della scansione automatica, in capo alle
piattaforme, fotografando la situazione attuale: sorveglianza sì, ma su base
volontaria e senza imposizioni per Whatsapp e gli altri: come Google, Meta,
Signal, Telegram, Proton.
Invece l’obbligo, uscito dalla finestra rientra dalla porta: “un inganno
politico di primissimo ordine”, secondo Breyer. Il trucco è all’articolo 4 del
nuovo testo, dice il giurista: i fornitori di servizi sono obbligati ad adottare
“tutte le misure appropriate di mitigazione del rischio”. Inclusa la scansione
dei messaggi privati, avvisa l’ex europarlamentare tedesco. Dunque la minaccia
per la privacy resta intatta.
Non solo. Per tutelare i minori, la verifica dell’età diventerebbe obbligatoria
prima di accedere a chat e servizi di posta elettronica. Ogni cittadino dovrebbe
fornire un documento d’identità o accettare una scansione. In pratica, “la morte
dell’anonimato online”, dice Pedullà. “Un disastro per dissidenti, giornalisti,
attivisti politici e persone in cerca di aiuto che fanno affidamento sulla
protezione dell’anonimato”, avverte Breyer.
LA MAGGIORANZA QUALIFICATA ORA È POSSIBILE
La nuova proposta è stata discussa il 12 novembre nella riunione tecnica del Law
Enforcement Working Party. Il 19 dovrebbe approdare sul tavolo degli
ambasciatori del Coreper, per preparare il voto decisivo nel Consiglio Ue. E
potrebbe essere la volta buona per la proposta di regolamento Chat control, dopo
tre anni di negoziati falliti. L’ostinazione degli Stati europei e della
Commissione Ue si spiega solo con la portata della posta in palio. La versione
danese è già stata discussa in una riunione informale degli ambasciatori
nazionali il 5 novembre. Come rivelato dalla testa Brussellese Politico, anche
la Germania sarebbe favorevole. La giravolta tedesca consentirebbe di
raggiungere la maggioranza qualificata e superare la minoranza di blocco. Ma non
è detta l’ultima parola.
L'articolo Chat control, trucco danese per resuscitare la sorveglianza di massa.
M5s: “In nome dei minori, controllano i cittadini” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La Commissione Ue torna all’attacco contro Google. Dopo anni di istruttorie e
maxi-multe sul fronte concorrenza, Bruxelles apre un nuovo fronte sul rispetto
del Digital Markets Act in vigore dallo scorso anno. Nel mirino il declassamento
nei risultati di ricerca dei siti di news che accanto a contenuti editoriali
ospitano contenuti prodotti da terzi: materiali creati da partner commerciali,
agenzie o collaboratori esterni. Secondo il colosso californiano, questa
politica serve a evitare che soggetti esterni sfruttino la reputazione di un
editore per migliorare artificialmente il loro posizionamento. Ma il
monitoraggio della Commissione mostra che la retrocessione scatta anche quando i
contenuti di terzi sono parte di modelli editoriali perfettamente legittimi
mirati a monetizzare i contenuti. E qui si apre il problema.
Molte testate online, infatti, pubblicano articoli o materiali forniti da
agenzie, rubriche curate da collaboratori, contenuti partner o speciali
commerciali chiaramente identificabili. È una forma di integrazione editoriale
che non ha nulla a che fare con l’abuso del ranking, ma che consente agli
editori di diversificare ricavi e prodotti. Secondo Bruxelles, Google invece non
distingue e applica una penalizzazione automatica che può ridurre drasticamente
la visibilità in Search, con impatti diretti sul traffico e, di conseguenza,
sulla sostenibilità economica delle redazioni.
L’indagine aperta da Bruxelles riguarda chiunque pubblichi contenuti di terzi
sottoposti a controllo editoriale: quotidiani, magazine, siti verticali, portali
tematici. La policy di Google si è tradotta in una riduzione del traffico e
quindi in una “significativa perdita di fatturato” per gli editori e per i
fornitori di contenuti terzi, spiega un funzionario Ue. “Gli editori hanno
opzioni molto limitate, se non nulle, per rispondere effettivamente
all’applicazione di questa politica da parte di Alphabet per ripristinare la
loro visibilità online su ricerca Google, il che, in sostanza, si traduce in una
pressione sugli editori affinché rinuncino alle partnership commerciali o
lascino che queste pagine redditizie diventino invisibili sulla ricerca Google”.
Per la Commissione, questo può “limitare la libertà degli editori di condurre
attività commerciali legittime, innovare e collaborare con fornitori di
contenuti”, violando il principio di accesso equo e non discriminatorio
prescritto dal Dma.
In caso sia accertata la violazione, la Commissione può imporre sanzioni fino al
10% del fatturato mondiale totale dell’azienda e fino al 20% in caso di
recidiva. In caso di violazioni sistematiche, può adottare anche misure
correttive aggiuntive, come l’obbligo per un gatekeeper di vendere un’azienda o
parti di essa, oppure il divieto di acquisire servizi aggiuntivi correlati alla
non conformità sistemica.
L’Ue, attraverso la vice presidente della Commissione Teresa Ribera, si è detta
“preoccupata che le policy di Google non consentano agli editori di notizie di
essere trattati in modo equo, ragionevole e non discriminatorio nei risultati di
ricerca”. “Oggi”, ha detto, “adottiamo misure per garantire che i gatekeeper
digitali non impediscano ingiustamente alle aziende che si affidano a loro di
promuovere i propri prodotti e servizi”.
L'articolo Indagine Ue su Google: “Declassa i siti web che in modo legittimo
monetizzano i contenuti” proviene da Il Fatto Quotidiano.