L’IA muove cifre da bilancio statale: nel 2024 l’industria ha investito 500
miliardi di dollari in data center. Quest’anno “solamente” Microsoft prevede di
spenderne 80. E Bloomberg conta sedici nuovi miliardari legati al segmento
infrastrutturale della filiera. In concreto, un data center è un enorme edificio
in cui vengono stipati migliaia di computer. Ciascun server esegue miliardi di
calcoli al secondo, alimentando i grandi modelli linguistici (come Chat GPT): è
il motore della rivoluzione industriale in corso.
I governi di tutto il mondo dispensano incentivi e sgravi fiscali per attrarre
hyperscaler – i grandi gestori – e impiantare “gigafactory” nel territorio:
l’obiettivo è tenere il passo con l’innovazione, per non essere tagliati fuori
dalla corsa all’IA. Tra gli effetti benefici attesi, la creazione di posti di
lavoro e il rilancio di aree economicamente depresse. Le aziende che vincono le
commesse pubbliche accumulano fondi, gonfiando i listini di borsa. Mentre gli
investitori più avveduti, che hanno fiutato l’affare prima degli altri, si
fregano le mani. Bolle e cataclismi finanziari a parte, beninteso.
Ma dove i governi centrali scorgono opportunità – dando credito alle promesse di
Big Tech – le comunità locali ravvisano pericoli. I data center consumano acqua,
suolo ed energia; generano inquinamento sonoro e luminoso; sovraccaricano la
rete elettrica. Negli USA, l’avanguardia della quarta rivoluzione industriale,
sta montando la rivolta contro l’industria tecnologica. Da Nord a Sud, dalle
coste alle aree interne, prende forma e si consolida un movimento che affonda le
radici nelle comunità locali, nei sobborghi e nelle città di provincia ma ormai,
viste le dimensioni e la pressione che è in grado di esercitare, ha assunto
portata nazionale. Negli ultimi due anni il fronte “anti data-center” ha
bloccato o rinviato gare, bandi e mega-progetti; in ballo ci sono 64 miliardi di
dollari.
Il “Data Center Watch” ha messo in fila i numeri. E danno la misura del
fenomeno: l’ondata di proteste lambisce 24 Stati, per un totale di 142
organizzazioni impegnate nelle campagne contro queste infrastrutture –
sponsorizzate da Amazon, Google, Meta e altri colossi. Verosimilmente la
Virginia (che è il più grande hub di data center al mondo) ne costituisce
l’epicentro: soltanto in questo stato l’osservatorio segnala 42 associazioni. Di
frequente si tratta di gruppi che si sviluppano dal basso in maniera spontanea,
coagulandosi attorno a singole iniziative (mailing list, pagine Facebook
dedicate, petizioni online). Talvolta, la fronda è guidata da capitoli locali di
organizzazioni preesistenti e più strutturate, che si articolano su scala
federale.
Nel movimento sono confluite istanze di destra e di sinistra, suggellando un
“raro allineamento bipartisan nella politica infrastrutturale” che ha diffuso
preoccupazione nei corridoi della West Wing. Anche perché la partita si gioca
sul piano locale, nel sottobosco della burocrazia statale; se le municipalità si
mettono di traverso, su pressione della cittadinanza, i progetti – vincolati ad
autorizzazioni comunali o licenze – rischiano di saltare. “Da un’analisi delle
dichiarazioni pubbliche rilasciate dai funzionari eletti nei distretti che
stanno valutando data center”, si legge nel report, “è emerso che il 55% dei
politici che hanno preso posizione pubblicamente contro tali progetti erano
repubblicani, mentre il 45% erano democratici”. A Goodyear e Buckeye (Arizona) i
residenti hanno bloccato un investimento da 14 miliardi. Le autorità locali di
Peculiar (Missouri) hanno approvato un’ordinanza che rimuove i data center dalle
destinazioni d’uso consentite, stroncando un’iniziativa da 1,5 miliardi. Poi
ancora Chesterton (Indiana), 1,3 miliardi, Richmond (Virginia), 500 milioni. Il
bilancio finale fà impressione: progetti per 18 miliardi cancellati (e per 46
congelati).
Per militanti e cittadini di osservanza democratica la questione ambientale è in
cima alle priorità. In base alle proiezioni dell’International Energy Agency
entro il 2030 i data center assorbiranno metà della crescita della domanda di
elettricità negli USA. L’energia, intuitivamente, alimenta la potenza di
calcolo. Non solo; i server, infatti, lavorano senza sosta: per mantenere simili
ritmi ed evitare guasti è necessario raffreddarli a cadenza regolare.
A tale scopo gli impianti sparano aria condizionata industriale ad altissima
potenza e drenano grandi volumi d’acqua dalle riserve idriche locali. Le
associazioni ambientaliste catalogano altre esternalità negative come
l’occupazione di suolo agricolo e la produzione di rifiuti elettronici. Ma il
tema solleva preoccupazioni trasversali, a cominciare dai rialzi in bolletta:
all’aumentare del fabbisogno di elettricità dell’area, difatti, crescono i
prezzi per famiglie e imprese della zona.
I movimenti “nimby” (not in my back yard) non sono un fenomeno nuovo; questa
etichetta inquadra le manifestazioni locali contro le grandi infrastrutture
(come discariche o inceneritori). Ma gli USA, dove questa rivoluzione è ad uno
stato avanzato, prefigurano fenomeni di protesta che, con l’avanzare
dell’innovazione, potrebbero comparire anche in altre aree del pianeta (inclusa
l’UE). Condizionando l’elezione e la carriera di politici, cacicchi e funzionari
locali.
L'articolo Stati Uniti, il fronte anti data-center mette i bastoni tra le ruote
di Big Tech: bloccati progetti per 18 miliardi di dollari proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Meta
La Commissione europea sta pianificando una nuova indagine antitrust sugli
strumenti di funzionalità di intelligenza artificiale di Meta su Whatsapp. Lo
riporta il Financial Times, secondo cui l’indagine verterebbe su come il colosso
tech abbia integrato il suo sistema Meta AI nel suo servizio di messaggistica
all’inizio dell’anno, scrive il quotidiano citando due funzionari.
L’avvio dell’indagine dovrebbe essere annunciato nei prossimi giorni, anche se i
tempi potrebbero ancora variare. Nel mercato europeo infatti Meta AI – chatbot e
assistente virtuale – è stato integrato nell’interfaccia di WhatsApp a partire
da marzo 2025.
L’azienda ha riferito a Reuters di non aver ricevuto i dettagli dell’indagine e
ha fatto riferimento a una precedente dichiarazione di WhatsApp sull’inchiesta
avviata da parte delle autorità antitrust italiane, che ha definito “infondata”.
A luglio infatti l’Autorità garante della concorrenza e del mercato in Italia ha
avviato un’indagine nei confronti di Meta per presunto abuso di posizione
dominante con l’integrazione di uno strumento IA in WhatsApp. A novembre
l’analisi è stata ampliata per la verifica di abuso di posizione dominante nel
mercato dei servizi di AI chatbot nella piattaforma di messaggistica.
Il Financial Times riferisce inoltre che l’indagine sarà condotta in base alle
norme antitrust tradizionali anziché fare riferimento al Digital Markets Act,
legislazione di riferimento dell’Unione Europea criticata da Donald Trump e
attualmente impiegata per monitorare i servizi cloud di Amazon e Microsoft al
fine di applicare eventuali restrizioni.
“Il recente aggiornamento non influisce sulle decine di migliaia di aziende che
forniscono assistenza clienti e inviano aggiornamenti pertinenti, né sulle
aziende che utilizzano l’assistente IA di loro scelta per comunicare con i
propri clienti”, ha dichiarato Meta.
Il Ceo di Meta, Mark Zuckerberg, ha fatto pressioni sull’amministrazione Trump
contro quelle che l’azienda considera regolamentazioni europee troppo onerose,
che secondo Meta rischiano di far rimanere il blocco europeo indietro rispetto a
Stati Uniti e Cina nella corsa all’IA.
Sia il presidente Donald Trump sia il vicepresidente JD Vance si sono espressi
contro le norme che prendono di mira le Big Tech americane dopo vari incontri
con Zuckerberg. Intanto lo scorso mese, il segretario al commercio degli Stati
Uniti, Howard Lutnick, ha dichiarato durante una visita a Bruxelles che l’Ue
deve allentare la sua regolamentazione in campo tecnologico.
L'articolo Financial Times: “L’Ue prepara indagine antitrust su Meta AI
integrata in Whatsapp” proviene da Il Fatto Quotidiano.
È di abuso di posizione dominante l’accusa nei confronti di Meta da parte
dell’Antitrust, che ha avviato un procedimento cautelare ai danni della
multinazionale. Al centro dell’attenzione le nuove condizioni contrattuali,
introdotte il 15 ottobre scorso dalle nuove condizioni d’uso WhatsApp Business
Solution Terms, oltre all’integrazione di nuove funzioni Meta Ai. Secondo
l’Autorità queste introduzioni potrebbero limitare gli altri servizi AI Chatbot,
e sarebbe una violazione delle leggi europee in materia. Le condizioni
all’interno del nuovo contratto escludono dalla piattaforma WhatsApp tutte le
imprese concorrenti di Meta Ai nel mercato dei servizi AI Chatbot, i sistemi di
chat informatici con cui conversiamo ormai quasi giornalmente.
Nella nota dell’Antitrust si legge che “questa modifica delle condizioni
contrattuali è suscettibile di limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo
tecnico nel mercato dei servizi di AI Chatbot, a danno dei consumatori, e
costituisce una possibile violazione dell’articolo 102 TFUE. Inoltre, l’Autorità
ritiene che tale violazione della normativa sulla concorrenza da parte di Meta
possa pregiudicare, in modo grave e irreparabile, la contendibilità del mercato,
a causa della scarsa propensione dei consumatori a cambiare le abitudini che
ostacola il passaggio a servizi concorrenti”. L’Autorità si è anche riservata il
diritto di adottare eventuali misure cautelari ex art. 14-bis della legge n.
287/1990.
Il procedimento è stato avviato nei confronti di Meta Platforms Inc., Meta
Platforms Ireland Limited, WhatsApp Ireland Limited e Facebook Italy S.r.l.,
indicate complessivamente come Meta. “Respingiamo con forza queste accuse
infondate. L’API di WhatsApp non è stata progettata per essere utilizzata con
chatbot di intelligenza artificiale e farlo comporterebbe un grave sovraccarico
dei nostri sistemi. Il recente aggiornamento non ha alcun impatto sulle decine
di migliaia di aziende che forniscono assistenza ai clienti e inviano
comunicazioni rilevanti, né sulle aziende che utilizzano l’assistente AI che
preferiscono per conversare con la propria clientela”.
Per il Codacons è invece positiva la decisione dell’Antitrust. L’associazione
aveva presentato a marzo un esposto che, come si legge nella loro dichiarazione,
avrebbe portato a luglio l’apertura di un procedimento da parte delle Autorità.
“E su Meta – ricorda ancora il Codacons – incombe ora anche un altro rischio: lo
scorso 14 novembre è stato discusso dinanzi al Tribunale di Roma il ricorso
inibitorio promosso assieme ad Adusbef e Assourt e teso ad impedire l’accesso
dei minori a Instagram. Se il tribunale accoglierà l’azione legale, Meta dovrà
correre ai ripari bloccando centinaia di migliaia di profili in Italia”.
L'articolo “Abuso di posizione dominante”, l’Antitrust indaga su Meta. Sotto
accusa i chatbot di intelligenza artificiale proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il giudice Teodoro Ladròn Roda che ha presieduto la sezione numero 15 del
Tribunale commerciale di Madrid ha emesso ieri una sentenza che ha fatto felici
i media spagnoli e molto meno Mark Zuckerberg, a capo del colosso che raggruppa
social come Facebook, Whatsapp e Instagram. Il magistrato accolto il ricorso di
80 giornali, condannando Meta, che in Europa ha sede in Irlanda, a pagare 542
milioni di euro. Per il giudice Roda, la motivazione di concorrenza sleale
avanzata dai media iberici è corretta.
La causa intentata dall’Associazione dei Media d’Informazione (AMI) è durata due
anni: entro 20 giorni, Meta potrà impugnare la sentenza e i suoi portavoce hanno
già dichiarato che lo faranno, manifestando la loro contrarietà: “Non siamo
d’accordo con la decisione del tribunale e faremo ricorso. Si tratta di una
causa infondata che ignora deliberatamente il funzionamento del settore della
pubblicità online. Meta rispetta tutte le leggi e ha fornito informazioni
trasparenti per consentire agli utenti di controllare la propria esperienza con
i nostri servizi”.
In 59 pagine, il tribunale spagnolo scrive che le aziende di Zuckerberg hanno
ottenuto un “vantaggio competitivo” utilizzando in modo non corretto i dati di
milioni di utenti per la “vendita di pubblicità personalizzata”. Questo
vantaggio a parere degli autori del ricorso mette a rischio sia “la
sostenibilità dei media” che “il diritto all’informazione dei cittadini
spagnoli”. In base alle direttive di Bruxelles, per l’attività commerciale messa
in piedi da Meta è necessario il consenso degli utenti, e questa autorizzazione
– secondo la denuncia – tra la fine di maggio 2018, quando è entrato in vigore
il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) e luglio 2023, anno in
cui è stata intentata la causa, non è mai stata richiesta.
Il giudice ha dato ragione ai media spagnoli e riferendosi a Meta scrive così:
“Il suo fallimento risiede nel modo in cui ha ottenuto e utilizzato i dati
personali, in particolare nella violazione del Gdpr durante il periodo di
riferimento. È inaccettabile affermare che normative eccessive soffochino il suo
modello di business, concepito per economie con maggiore libertà imprenditoriale
[…]. Meta deve adattarsi al Gdpr, non il contrario. Un mercato di 450 milioni di
persone nell’UE giustifica certamente questo sforzo”.
Per quel che riguarda la ripartizione della multa, queste le indicazioni del
magistrato, come riportato da El Pais: 479 milioni di euro agli editori di
giornali e le società che detengono i diritti pubblicitari, più 60 milioni di
euro di interessi; 2,5 milioni di euro come risarcimento all’agenzia di stampa
Europa Press, più 328.000 euro di interessi; oltre 14.000 euro di risarcimento a
Radio Blanca.
L'articolo Concorrenza sleale, un tribunale di Madrid condanna Meta a pagare 542
milioni di euro ai media spagnoli proviene da Il Fatto Quotidiano.
I difensori della privacy già si preparavano a celebrare il funerale di Chat
control, il regolamento proposto dalla Commissione europea per sorvegliare tutti
i messaggi in chat di 450 milioni di cittadini europei. Invece il “Grande
fratello” è risorto più minaccioso di prima nel nuovo testo firmato dalla
Danimarca, presidente di turno del Consiglio europeo. La scansione automatica
dell’algoritmo investirà non solo i link, le foto e i video, ma anche le parole
e i testi.
LA MORTE DELLA PRIVACY IN NOME DEI MINORI
Lo scopo è combattere la piaga della pedofilia online in vertiginoso aumento.
Tecnicamente la proposta di chiama Csar, Child sexual abuse regulation. Ma
l’effetto collaterale è la “sorveglianza di massa” – per citare letteralmente il
Parlamento Ue – e la morte della privacy digitale. Di più: il controllo dei
testi apre la possibilità di equivoci drammatici e infondate accuse di
pedofilia. “Nessuna intelligenza artificiale può distinguere in modo affidabile
tra un flirt, il sarcasmo e un ‘adescamento’ criminale”, ha commentato Patrick
Breyer, giurista ed ex europarlamentare tedesco. “Immaginate che il vostro
telefono controlli ogni conversazione con il vostro partner, vostra figlia, il
vostro terapeuta e la trasmetta solo perché da qualche parte compare la parola
‘amore’ o ‘incontro’ – prosegue Breyer – Questa non è protezione dei minori, è
una caccia alle streghe digitale. Il risultato sarà un’ondata di falsi positivi,
che metterà cittadini innocenti sotto il sospetto generale ed esporrà masse di
chat e foto private, persino intime, a sconosciuti”. Dello stesso tenore le
preoccupazioni dell’europarlamentare 5 stelle Gaetano Pedullà. Secondo il
giornalista, il controllo dei testi “potrebbe portare a un’enorme quantità di
false accuse”.
Basta citare la storia di papà Mark, negli Usa, raccontata dal New York Times il
21 agosto 2022. Per una foto ai genitali del figlio, inviata al pediatra in chat
durante la pandemia, è scattata l’indagine per pedofilia: invece era solo un
problema di salute. L’algoritmo non sempre indovina, anzi. Breyer cita un dato
fornito dalla polizia tedesca: circa il 50% di tutte le segnalazioni sono
irrilevanti dal punto di vista penale. Ecco perché, secondo Pedullà, il
compromesso danese “è addirittura peggiore della versione stralciata qualche
settimana fa”. “Con la scusa della tutela dei minori, i governi vogliono
assicurarsi uno strumento potente di sorveglianza e controllo dei cittadini”,
conclude il pentastellato.
IL TRUCCO DANESE E LA “MITIGAZIONE DEL RISCHIO”
Giova ricordare: i servizi di messaggistica possono già spiare ogni chat a
caccia di pedofili, se lo vogliono. Facebook è in prima fila. La sorveglianza
avviene grazie ad una deroga europea alla tutela della privacy varata nel 2021,
rinnovata ogni anno. Prossima scadenza: aprile 2026. Anche per questo Mette
Frederiksen, premier danese socialdemocratica, aveva imposto la priorità per
chat control. La proposta di Copenaghen sembrava seppellire i timori del Grande
fratello perché aboliva l’obbligo della scansione automatica, in capo alle
piattaforme, fotografando la situazione attuale: sorveglianza sì, ma su base
volontaria e senza imposizioni per Whatsapp e gli altri: come Google, Meta,
Signal, Telegram, Proton.
Invece l’obbligo, uscito dalla finestra rientra dalla porta: “un inganno
politico di primissimo ordine”, secondo Breyer. Il trucco è all’articolo 4 del
nuovo testo, dice il giurista: i fornitori di servizi sono obbligati ad adottare
“tutte le misure appropriate di mitigazione del rischio”. Inclusa la scansione
dei messaggi privati, avvisa l’ex europarlamentare tedesco. Dunque la minaccia
per la privacy resta intatta.
Non solo. Per tutelare i minori, la verifica dell’età diventerebbe obbligatoria
prima di accedere a chat e servizi di posta elettronica. Ogni cittadino dovrebbe
fornire un documento d’identità o accettare una scansione. In pratica, “la morte
dell’anonimato online”, dice Pedullà. “Un disastro per dissidenti, giornalisti,
attivisti politici e persone in cerca di aiuto che fanno affidamento sulla
protezione dell’anonimato”, avverte Breyer.
LA MAGGIORANZA QUALIFICATA ORA È POSSIBILE
La nuova proposta è stata discussa il 12 novembre nella riunione tecnica del Law
Enforcement Working Party. Il 19 dovrebbe approdare sul tavolo degli
ambasciatori del Coreper, per preparare il voto decisivo nel Consiglio Ue. E
potrebbe essere la volta buona per la proposta di regolamento Chat control, dopo
tre anni di negoziati falliti. L’ostinazione degli Stati europei e della
Commissione Ue si spiega solo con la portata della posta in palio. La versione
danese è già stata discussa in una riunione informale degli ambasciatori
nazionali il 5 novembre. Come rivelato dalla testa Brussellese Politico, anche
la Germania sarebbe favorevole. La giravolta tedesca consentirebbe di
raggiungere la maggioranza qualificata e superare la minoranza di blocco. Ma non
è detta l’ultima parola.
L'articolo Chat control, trucco danese per resuscitare la sorveglianza di massa.
M5s: “In nome dei minori, controllano i cittadini” proviene da Il Fatto
Quotidiano.