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Suicidio assistito, in Italia aumentano le richieste ma le norme sono ancora ferme: lo studio
Un’opinione pubblica sensibilizzata e un Parlamento assente. Una ricerca accademica ha scattato una fotografia completa dell’Italia sul tema del suicidio assistito. Le richieste aumentano e il vuoto normativo si fa più pesante, lasciando sempre più cittadini e rappresentanti delle istituzioni privi di risposte su come procedere al suicidio assistito. Un vuoto che genera delle risposte frammentarie e talvolta contradditorie, come spesso capita con il Servizio sanitario nazionale. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychiatry ed è firmato da Emanuela Turillazzi e Naomi Iacoponi dell’Università di Pisa, insieme a Donato Morena e Vittorio Fineschi della Sapienza di Roma. Un punto fondamentale che emerge dalla ricerca è come l’opinione pubblica appaia molto più avanti della politica. Secondo i dati Censis, il 74% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito, con percentuali ancora più alte tra i giovani e tra i laureati. Il lavoro di ricerca ripercorre anche la storia giuridica del suicidio assistito in Italia: nel 2019, ci fu la storica sentenza con cui la Corte costituzionale indicò le condizioni in cui l’aiuto al suicidio può essere considerato non punibile. Da allora, il percorso è stato tutt’altro che lineare: molte aziende sanitarie non hanno applicato le indicazioni della Consulta in modo uniforme, accumulando ritardi e rifiuti a procedere, costringendo i malati a fare ricorso. Un vuoto normativo che ha generato un conflitto istituzionale. In questo quadro incerto, la Toscana è stata la prima regione ad aver approvato nel marzo 2025 una normativa organica che definisce tempi, procedure e responsabilità per la valutazione delle richieste. Una scelta subito contestata dal governo, che ha impugnato la legge. Il risultato è un conflitto istituzionale che aggiunge ulteriori incertezze a una questione già complessa. Lo studio ricostruisce anche i casi che hanno segnato la storia recente del fine vita in Italia. La vicenda di “Mario”, il primo paziente a ottenere il suicidio assistito nel nostro Paese, così come la storia di “Anna”, la prima persona a cui il trattamento è stato garantito con costi interamente coperti dal sistema pubblico. Altri casi, come quello di Davide Trentini, hanno esteso l’interpretazione dei criteri stabiliti dalla Consulta per i “trattamenti di sostegno vitale”. Tutto questo avviene mentre l’opinione pubblica appare molto più avanti della politica. Secondo i dati Censis citati nello studio, il 74% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito. A fronte di un consenso così ampio, il Paese continua però a non dotarsi di una legge nazionale. I ricercatori hanno poi aperto una riflessione sui trattamenti di sostegno vitale, ovvero tutti quei macchinari e interventi farmacologici o assistenziali che sono indispensabili alla sopravvivenza della persona malata. Nel corso degli anni, questo concetto è stato alla base per giustificare il suicidio assistito a livello giuridico. Tuttavia, questa visione presenta dei limiti. Come sottolinea infatti Emanuele Turillazzi: “La dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale è un criterio troppo limitativo. La nostra idea è di superare questo vincolo e concentrarci su ciò che davvero conta: una patologia irreversibile, una sofferenza che il paziente ritiene intollerabile e una volontà libera, consapevole e direttamente espressa dalla persona. Sono questi, secondo noi, i requisiti fondamentali. Il resto – gli aspetti procedurali e le verifiche – spetta al sistema sanitario e ai comitati etici territoriali. Solo così è possibile ridurre le disuguaglianze territoriali e rimettere al centro diritti, autodeterminazione e dignità della persona“. L'articolo Suicidio assistito, in Italia aumentano le richieste ma le norme sono ancora ferme: lo studio proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Suicidio assistito ed eutanasia, dalla Germania alla Spagna cosa accade in Europa mentre l’Italia è ferma
La scelta delle gemelle Kessler di ricorrere al suicidio assistito in Germania ha riportato in primo piano un tema che in Italia resta irrisolto: il fine vita. Dal 2019, con la sentenza sul caso di Dj Fabo, la Corte costituzionale ha depenalizzato il suicidio medicalmente assistito, riconoscendo il diritto delle persone di anticipare una morte comunque imminente, perché affette da patologie irreversibili che provocano intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche e dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. Si tratta di una cornice molto più ristretta rispetto a quella tedesca, dove la malattia non è un requisito obbligatorio e l’unica condizione essenziale è che la scelta sia libera, consapevole e autonoma. Negli anni, il Parlamento italiano non ha mai trasformato i principi indicati dalla Consulta in una legge organica. Anzi: negli ultimi mesi il governo Meloni ha provato a bloccare anche il tentativo della Toscana – la prima Regione a legiferare sul tema – e della Sardegna di definire almeno una procedura chiara a livello locale. Il risultato è un sistema frammentato, in cui Regioni e singole aziende sanitarie applicano la sentenza in modo diverso, spesso imponendo ostacoli che rendono l’accesso impossibile anche a chi ne avrebbe diritto. Un quadro che, nel confronto con alcuni Paesi dell’Unione Europea, evidenzia quanto l’Italia sia ancora ferma, mentre intorno a lei il dibattito si è tradotto – con sfumature diverse – in regole, tutele e percorsi più definiti. GERMANIA Il suicidio assistito è stato depenalizzato nel 2020 da una sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di “aiuto al morire”, sterbehilfe. Come in Italia, non si tratta di eutanasia: il medico non può compiere l’atto finale, che deve essere completamente autonomo. La persona deve essere maggiorenne, capace di intendere e di volere, e deve autosomministrarsi il farmaco letale. Non è richiesta una malattia incurabile né una morte imminente: è questo il punto che ha permesso alle gemelle Kessler – senza un quadro clinico terminale – di accedere alla procedura. L’assistenza pratica è offerta da tre associazioni senza scopo di lucro, tra cui la Dghs di Berlino, che ha seguito le Kessler. Per accedervi bisogna essere soci da almeno sei mesi. La quota annuale è di 60 euro e il costo della prestazione varia tra i 3mila e i 4500 euro. Il protocollo prevede colloqui ripetuti e la presenza di un medico durante l’infusione. Nel 2024 si sono registrati circa 1200 suicidi assistiti ma, nonostante il numero sia in crescita, anche in Germania manca ancora una legge organica che disciplini la materia. PAESI BASSI Sono stati i primi al mondo a legalizzare sia l’eutanasia sia il suicidio assistito, con una legge entrata in vigore nel 2002. Il modello olandese è tra i più strutturati d’Europa. Stabilisce criteri e percorsi uniformi, con un sistema di controllo multilivello. Per accedere alla procedura, la persona deve essere affetta da una malattia incurabile o da sofferenze considerate “insopportabili e senza prospettive di miglioramento” – compresi disturbi mentali – ma non deve essere per forza dipendente da trattamenti salvavita né trovarsi in una fase terminale. La valutazione del caso spetta a due figure: il medico curante e un medico indipendente esterno, che devono confermare insieme che i criteri siano soddisfatti. Dopo il decesso, ogni caso viene esaminato da una commissione di controllo, che verifica il rispetto della legge e segnala eventuali irregolarità alla magistratura. L’atto finale deve essere eseguito da un medico. Questo rende la procedura accessibile anche a persone che non sono più fisicamente in grado di autosomministrarsi il farmaco. Inoltre, la legge permette che le persone rilascino delle wilsverklaring, “dichiarazioni anticipate di volontà”. Ciò significa che chi rischia di perdere la capacità di intendere e di volere per motivi medici può comunicare in anticipo le sue volontà, essendo sicuro che verranno rispettate al momento opportuno. Il dibattito interno sul fine vita è molto acceso, soprattutto alla luce dell’aumento costante del numero di richieste. Nel 2024 la crescita è stata del 10% e, sebbene i numeri assoluti siano ancora bassi, allarma l’aumento delle eutanasie eseguite su pazienti con disturbi psicologici, soprattutto quelle richieste dagli under 30. Una deriva che crea molte preoccupazioni e dubbi, sia sulle condizioni dei giovani nel Paese sia sull’impianto etico della misura. BELGIO Anche il Belgio ha legalizzato sia l’eutanasia sia il suicidio assistito nel 2002, appena due mesi dopo i Paesi Bassi. È uno dei sistemi più avanzati al mondo: dal 2014 la possibilità di accedere alla procedura è stata estesa anche ai minori, senza limiti di età. Una scelta unica nel panorama internazionale. Per proseguire è comunque necessario che il bambino sia in grado di comprendere la decisione, che esprima la propria volontà e che ci sia il consenso dei genitori. Oltreché di un’équipe di specialisti che certifichi una condizione medica grave, incurabile e irreversibile. Da quando è entrata in vigore la norma, i casi di eutanasia su minori sono stati sei. In totale, hanno fatto ricorso all’eutanasia oltre 30mila persone. Negli ultimi anni il trend è in forte crescita: secondo la Commissione federale di controllo e valutazione dell’eutanasia, nel 2023 le procedure sono aumentate del 15%, e nel 2024 del 16,6% rispetto all’anno precedente. Nel 2024 la Commissione ha ricevuto 3991 dichiarazioni di eutanasia, pari al 3,6% di tutti i decessi registrati nel Paese. Il profilo dei pazienti resta relativamente stabile. La maggior parte ha più di 70 anni (72,6%) e quasi la metà supera gli 80 anni. I casi sotto i 40 anni sono molto rari (1,3%). Il cancro è la causa principale delle richieste, coinvolgendo il 54% dei pazienti. Nel 76,6% dei casi la morte era prevista a breve termine, ma cresce il numero delle persone che chiedono l’eutanasia pur non trovandosi in prossimità della fine della loro vita: 932 casi nel 2024, contro i 713 del 2023. Le condizioni psichiatriche rappresentano ancora una minoranza, pari all’1,4% dei casi: 48 persone nel 2024. SPAGNA La Ley Orgánica de Regulación de la Eutanasia è in vigore da giugno 2021. Prima della sua approvazione, aiutare qualcuno a morire era un reato punibile fino a 10 anni di carcere. La norma ha legalizzato sia l’eutanasia attiva sia il suicidio medicalmente assistito. Possono farvi ricorso le persone maggiorenni affette da una “malattia grave e incurabile” oppure da una patologia “cronica, grave e invalidante” che comporti una sofferenza fisica o psichica costante e intollerabile. Il processo è rigoroso: il paziente deve presentare due richieste scritte, a distanza di almeno 15 giorni l’una dall’altra, confermando di essere consapevole dell’esistenza di cure palliative. La valutazione spetta a due medici e, dopo il loro parere, a una commissione autonoma che deve autorizzare in via definitiva la prestazione. Una volta approvate, l’eutanasia o la morte assistita sono a carico del sistema sanitario nazionale. Secondo i dati del Ministero della Salute, fino al 2024 erano state eseguite 1034 procedure, il 42% delle 2.475 domande presentate. Circa un quarto delle persone che ne aveva fatto richiesta è morto nell’attesa. Motivo per cui l’Associazione spagnola per il Diritto a Morire con Dignità sta chiedendo alla politica di intervenire per accorciare i tempi dell’iter. L'articolo Suicidio assistito ed eutanasia, dalla Germania alla Spagna cosa accade in Europa mentre l’Italia è ferma proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Fine vita, sarebbe ora che ognuno potesse esercitare il libero arbitrio: le gemelle Kessler ce l’hanno ricordato
La vita è una malattia che si trasmette per via sessuale. Ed è, soprattutto – come richiede una delle troppe condizioni imposte dalla legislazione italiana per poter consentire il “fine vita” (perché si tratta soltanto di rifiuto delle cure e interruzione delle cure palliative) – una “malattia irreversibile”. Le gemelle Kessler, invece, icone della televisione del secolo scorso, hanno potuto abbandonare la vita congiuntamente poiché in Germania è consentita l’eutanasia medicalmente assistita. Da studioso della filosofia, sono portato a chiedermi se tale superiorità della Germania rispetto al nostro Paese sia dovuta all’altrettale primazia filosofica della nazione che ha dato i natali a Kant, Hegel e Freud. Sì, perché quello che continuiamo a fare in Italia – e in tutti i paesi in cui lo Stato non consente alle persone di praticare l’eutanasia – è fondamentalmente un errore filosofico. Errore che, innanzitutto, consiste nel separare vita e morte considerandole due dimensioni diverse. Quando, in realtà, sono due lati di una stessa medaglia, perché “la meta di tutto ciò che è vivo è la morte”, scriveva Freud sulla scia di quanto – un secolo prima – aveva affermato Hegel (entrambi tedeschi) in maniera ancora più radicale: “Un essere vivente, nel momento stesso in cui fa la sua comparsa in vita, è già pronto per morire”. Da questo errore originario deriva il secondo, perfettamente conseguente. Quello di pensare che la morte sia un qualcosa che avviene “dopo” la vita quando, invece, “esse sono interdipendenti”, perché “esistono simultaneamente, non consecutivamente”, come scriveva il grande psichiatra americano Irvin Yalom. L’unica morte che conosciamo, infatti, avviene in vita, quando finisce un’epoca in cui siamo stati felici, quando perdiamo delle persone care, quando torniamo in luoghi del cuore, dopo molti anni, e nulla ci sembra più come prima anche se lo scenario è lo stesso. Sono tutti frammenti di morte che avvengono mentre siamo vivi e non potrebbe essere diversamente. Perché la morte intesa in senso metafisico non ci è dato conoscerla né – come affermava Epicuro – temerla: “Quando ci siamo noi, non c’è la morte; quando c’è la morte non ci siamo noi”. Intesa in questo senso, la vita va considerata alla stregua di un grande corso di formazione alla dipartita, a un “dopo” possibile in forma spirituale (per chi ci crede). Di questo grande corso di formazione, l’ultima tappa più dura consiste nel “morire”, che è questione ben diversa – ancora una volta – dalla morte in quanto tale. Quel morire può avvenire quando siamo ancora ben in vita, per una malattia o un incidente, ma soprattutto può accadere senza che vi sia la morte stessa: a fronte di dolori atroci e insopportabili non soltanto a livello fisico ma anche psicologico (tema, quest’ultimo, per troppo tempo sminuito o ignorato del tutto). Ecco perché sarebbe ora di consentire a ciascuno l’esercizio del libero arbitrio rispetto alla decisione di smettere la propria vita, quindi di essere aiutati in ciò da quella medicina pubblica che esiste grazie alle tasse di tutti i cittadini, compresi coloro che piombano in un abisso di dolore tale da rendergli preferibile la scelta suddetta. Coloro che sostengono la sacralità della vita, considerata a guisa di un “dono” divino di cui l’uomo non può privarsi per una scelta volontaria, non considerano che – volendo credere alla divinità creatrice – questa ci ha fatto dono anche della morte, parte integrante della vita stessa all’interno di una dimensione più ampia che le contiene entrambe (esistenza). Ma, soprattutto, tale divinità ha lasciato al libero arbitrio di ciascuno la possibilità di fare della propria vita ciò che più si desidera e ritiene giusto. Fosse anche interromperla anzitempo. Se così non fosse, non avrebbe alcun senso quanto dice la stessa dottrina cristiana, cioè che saremo giudicati sulla base delle nostre azioni in terra (e in vita). Quale sommo e indiscutibile giudizio divino, infatti, sarebbe possibile e decisivo se già qualcuno in terra ha decretato cosa è Bene e cosa è Male rispetto all’essenza stessa della vita?! Non spetta ad alcuna istituzione terrena, né ad alcun individuo, giudicare e ancor più impedire all’essere umano di gestire la propria vita (e quindi la propria morte) se le sue decisioni non danneggiano persone altre. Tantomeno dovrebbero farlo dei parlamentari mediamente sempre più ignoranti su questioni culturali basiche, figuriamoci rispetto alle altezze filosofiche. Liberalizzare il libero arbitrio è una scelta umana e a favore dell’umano – altrimenti l’enfasi posta a ogni pie’ sospinto sul pensiero critico è solo fuffa – tanto più che non significa costringere chi non vuole a scegliere di morire. Mentre proibire il libero arbitrio, invece, costringe tutti a doversi genuflettere a un’ideologia. Nella nostra epoca impoverita, al posto dei grandi filosofi tedeschi, ce lo hanno dimostrato le grandi gemelle Kessler. L'articolo Fine vita, sarebbe ora che ognuno potesse esercitare il libero arbitrio: le gemelle Kessler ce l’hanno ricordato proviene da Il Fatto Quotidiano.
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