Milano ha un modo unico di accogliere certi appuntamenti: non li espone
soltanto, li interpreta. All’ADI Design Museum il BMW Art Car World Tour arriva
come una chiusura ideale dell’anno e come un inizio, perché celebra i
cinquant’anni di una collezione che continua a parlare al presente. Otto
vetture, otto “sculture in movimento”, come le definisce Luciano Galimberti,
presidente del museo, che ha aperto l’esposizione ricordando la missione
dell’istituzione: non un mausoleo del design, ma un luogo dove il progetto
diventa chiave di lettura del contemporaneo.
Il percorso, infatti, non è costruito per stupire: cerca piuttosto di mettere in
relazione le auto con ciò che esse rappresentano. Calder, Stella, Lichtenstein,
Mahlangu, Koons, Chia, Holzer, Mehretu: in mezzo secolo questi nomi hanno
trasformato la carrozzeria in una tela capace di muoversi, correre, competere. E
il design, inteso come disciplina che traduce visione in forma, diventa così
ponte naturale con l’industria, il motorsport, la cultura materiale.
Massimiliano Di Silvestre, presidente e AD di BMW Italia, lo ha spiegato con una
chiarezza che va oltre la retorica dell’anniversario: “Le Art Car sono un
unicum: arte, design, tecnologia e motorsport che da cinquant’anni si incontrano
e si fondono. Esporre otto vetture qui a Milano è un privilegio, ma anche una
responsabilità: questa è la tappa più ricca del tour mondiale”. E non è un caso
che la Serie 3, nata anch’essa nel 1975, celebri il suo cinquantesimo compleanno
nello stesso anno. Un allineamento simbolico che racconta un brand sempre più
interessato a costruire dialoghi culturali oltre la dimensione automobilistica.
Il racconto di Thomas Girst, curatore della collezione e responsabile
dell’engagement culturale del BMW Group, aggiunge un tassello decisivo:
“L’Italia sta celebrando il 50° anniversario delle Art Car con un entusiasmo
straordinario. Qui si ritrovano appassionati di design, arte, motorsport e
tecnologia: è un momento in cui tutto si tiene, tutto si parla”. E, in effetti,
guardando la V12 LMR di Jenny Holzer o la M3 GT2 di Koons, si capisce quanto la
componente agonistica sia parte della narrazione estetica, e non un dettaglio
accessorio.
La mostra sbarca a Milano, dove resterà fino all’8 gennaio 2026, dopo un anno di
tappe internazionali – da Art Basel Hong Kong al Le Mans Classic – e anticipa il
2026, quando tutta la collezione correrà idealmente verso Parigi e Rétromobile
per celebrare il mezzo secolo del salone.
Intanto, all’ADI Design Museum si costruisce un percorso che parte dalla 3.0 CSL
di Calder, la madre di tutte, e arriva alla più recente creazione di Julie
Mehretu, interpretazione su scala della M Hybrid V8, l’auto che ha riportato BMW
a Le Mans nella nuova era.
Galimberti, parlando ai presentidurante l’innaugurazione, ha immaginato un
sogno: “Vederle circolare per strada sarebbe magnifico, un traffico colorato e
felice. Non si può, ma il museo è il luogo dove questo sogno può prendere
forma”. Ed è davvero così: la sala diventa un’arena dove cinquanta anni di
sperimentazione artistica corrono in parallelo ai cambiamenti della mobilità,
della società, del gusto.
L'articolo Milano accoglie il BMW Art Car World Tour e trasforma otto auto in
arte viva proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Arte
Gentile sindaco Francesco Bruni,
a seguito del mio poster a proposito dell’impossibilità di ammirare il mosaico
della cattedrale di Otranto, perché questo era coperto dalle panche con
inginocchiatoio, Lei ha dichiarato che sono arrivato fuori tempo massimo, perché
a luglio 2025 finalmente le panche sono state tolte: Repubblica Bari titola Il
mosaico della cattedrale di Otranto non è visibile. Jacopo Fo attacca e il
sindaco: “Falso”.
Sarebbe in realtà bastata una piccola ricerca su Internet per scoprire che
questo poster lo sto ripubblicando dal 2018. La penultima volta che l’ho
pubblicato è stata nel maggio 2025.
Ora vorrei innanzitutto farLe onore, perché è finalmente riuscito a convincere
la curia a spostare le panche e a rendere fruibile al mondo questo capolavoro
assoluto, immenso e unico. Mi sarebbe piaciuto che, nell’occasione del suo
successo nel togliere queste benedette panche, avesse fatto un cenno a tutti
quelli che, come me, da anni protestano contro questa assurdità che danneggia il
turismo. Il grande mosaico di Aquileia porta nella cittadina friulana 260mila
turisti all’anno, Otranto registra 126mila presenze… e sì che il mosaico di
Otranto non ha nulla da invidiare a quello di Aquileia se non il fatto che
quello di Otranto non era visibile.
Una ricerca su Internet di pochi minuti avrebbe poi permesso, sia a Lei sia al
giornalista che l’ha intervistata, di scoprire che ore dopo l’ultima
pubblicazione – a novembre 2025 – di questo poster, sono stato avvisato dai miei
lettori, attenti e amorevoli, e immediatamente ho corretto l’errore. E siccome
non mi piace nascondere gli errori che faccio, non mi sono limitato a togliere
il poster, anzi: l’ho lasciato, aggiungendo una scritta che diceva che
l’informazione era sbagliata e ho aggiunto un ringraziamento per le persone che
mi avevano segnalato l’errore.
Dunque: non sono arrivato oltre il tempo massimo, in quanto ho iniziato da molto
a insistere su questo problema: quindi potreste per favore farmi cittadino
onorario di Otranto?
Ps. Comunque, gentile sindaco, il suo successo è parziale: non ci sono più le
panche ma durante le funzioni religiose, i matrimoni e i funerali il mosaico
verrà coperto dalle sedie. L’articolo di Repubblica invita i turisti a
informarsi sul calendario delle funzioni religiose. Ma questo calendario non si
trova disponibile in Rete. Forse il comune dovrebbe farsi carico di questa
incombenza? E come farete ad avvisare i turisti? Forse bisognerebbe mettere
grandi cartelli luminosi all’ingresso della città e nei pressi della cattedrale
e dépliant informativi in tutte le strutture turistiche, come gli orari
ferroviari… Quanti turisti non riusciranno a vedere il mosaico perché
“momentaneamente indisponibile alla vista causa funzione religiosa”?
Vede, caro sindaco Bruni, la mia idea di riprodurre all’esterno della basilica
il mosaico in modo che sia sempre visibile non è poi così sciocca. Ma visto che
pochi cittadini di Otranto sono furenti per questa questione forse io mi
preoccupo per nulla. In fondo Otranto vive benissimo con poco turismo, non ci
sono problemi di disoccupazione e le attività commerciali vanno a gonfie vele.
Chi se ne frega dei turisti! Contenti voi…
Inoltre, Lei è stato sindaco dal 1997 al 2007, per due mandati consecutivi.
Suppongo che durante questi due mandati precedenti il mosaico della cattedrale
di Otranto sia stato visibile, cioè non coperto stabilmente dalle panche. Perché
se così non fosse sarebbe Lei ad essere fuori tempo massimo: avrebbe impiegato
12 anni da sindaco per ottenere un cambiamento fondamentale per il turismo.
L'articolo Caro sindaco di Otranto: ora che il mosaico della cattedrale non è
più invisibile, mi fate cittadino onorario? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Prima di essere temute, erano adorate. Prima dei roghi, erano fiaccole accese
nei templi del mondo. Circe che trasforma, Medea che conosce, Ecate che guida
nell’oscurità: i loro sussurri provenivano dalle caverne, dai pozzi sacri,
giungevano in sogno per guidare le sorti di uomini, battaglie e interi popoli.
Era il tempo in cui la Pizia di Delfi, le Sibille greco-romane, la Velleda
germanica, la Völva norrena custodivano verità che agli uomini sempre saranno
precluse. Con l’avvento della cristianità e delle istituzioni moderne, l’angelo
stilnovista e la sposa biblica dei Cantici degradarono nella strega demoniaca:
su di lei ricaddero le ansie collettive di una società repressa e instabile,
ossessionata dal corpo, flagellata da epidemie, crisi economiche, guerre. E fu
così che dal 1430 iniziò la “caccia alle streghe”.
Dopo le tappe di Monza e Bologna, Stregherie. Iconografia, riti e simboli delle
eretiche del sapere apre a Padova in veste completamente rinnovata e immersiva.
Lo storico dell’arte e criminologo Andrea Pellegrino firma la nuova edizione del
progetto che indaga le forme mutevoli della stregoneria popolare tra le pieghe
dei secoli, nei suoi immaginari, nelle pratiche e nelle repressioni. Attraverso
le immagini che hanno modellato – e distorto – la figura della strega, lo
spettatore è invitato ad attraversare le ombre per liberarsi dai pregiudizi e
dai luoghi comuni. Attingendo a piene mani dall’antropologia, dalla storia
dell’arte e da quella sociale, il curatore prende le distanze dalle caricature
fiabesche e dalle ossessioni inquisitorie per restituire complessità storica e
simbolica a una figura demonizzata troppo a lungo. La mostra Stregherie si
attraversa come un incantesimo: le nove sezioni sono le soglie da varcare per
“rinascere” con una nuova consapevolezza critica, quella della conoscenza,
dell’arte e della cultura, triade più potente di qualsiasi magia. Le opere, le
litografie, gli oggetti magico-rituali, i libri di medicina popolare,
testimoniano il bisogno ancestrale che l’uomo ha di attribuire senso
all’incertezza, di dialogare con l’invisibile, di trovare negli elementi
naturali gli alleati contro l’imprevedibilità dell’esistenza.
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Robert Shipster , Le streghe di Endor – 1797 , collezione Invernizzi
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John William Waterhouse , Il cerchio magico – XIX sec. , collezione Invernizzi
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Joseph Apoux , Le streghe – c.a. 1888 , collezione Invernizzi
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Joseph Apoux , Intimità - c.a. 1888 , Collezione Invernizzi
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Albrecht Durer , La magia – 1484, tiratura XIX sec. , collezione Invernizzi
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C. Neureuther , Hänsel und Grethel - 1876 , collezione Invernizzi
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Anonimo , 3 sculture demone esoterico legno e ferro – XVII/XVIII sec. ,
collezione Pezzini
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Dipinto olio su tela scena mostruosa con stregone, diavolo topi serpenti e
mostri – 1928 , collezione Pezzini
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Anonimo , Mano per insegnare l’arte della chiromanzia – fine ‘800 , collezione
Pezzini
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Francisco José de Goya y Lucientes , Devota Professione - 1881-1886 , collezione
Invernizzi
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Léon Auguste Salles , (La strega) - seconda metà XIX sec. , collezione
Invernizzi
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Lumb Stocks , Streghe e stregoni danzanti – seconda metà XIX sec. , collezione
Invernizzi
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George-Achille Fould, Madame Satan, 1909, Collezione Luca Locati Luciani
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Léopold Desbrosses, Hille Bobbe, 1876, collezione Invernizzi
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Paul Sulpice Guillaume Gavarni, Il filtro, 1839, collezione Invernizzi
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Elisa Seitzinger, Superego, arazzo
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Gran Etteilla, Jean Baptiste Alliette, ‘800
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Nicolò Mulè, 20 Tavole della strega Gualina Stabiosa (Upui), percorso della
madre eccelsa in caratteri tebani, Museo della Stregoneria Moderna
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Nicolò Mulè, 20 Tavole della strega Gualina Stabiosa (Upui), percorso della
madre eccelsa in caratteri tebani, Museo della Stregoneria Moderna
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Jean Veber, Streghe moderne, circa 1910, collezione Invernizzi
Le hanno inseguite e oltraggiate perché conoscevano le radici che curano e
quelle che uccidono; il momento esatto in cui tagliare la mandragora, le fasi
della luna, i mormorii delle foglie. Vedevano magia oscura dove c’era conoscenza
che non condividevano perché non era scritta nelle loro Bibbie. Ed è per questo
che le hanno bruciate: le hanno trascinate a processo come lussuriose, torturate
come perverse, costrette a confessare il falso come incantatrici. Ma erano donne
libere, sole per scelta o per disperazione, senza vergogna né marito. Come
Lilith che non si inginocchia ad Adamo e abbandona l’Eden, come Salomè che
danza per se stessa. Gli atti dei processi per stregoneria sono firmati con
l’inchiostro nero della paura: non la paura delle accusate, quella degli
accusatori. La strega a rovescio sul caprone di Dürer è muscolosa, nuda e libera
mentre sfascia l’ideale rinascimentale di bellezza e sovverte l’ordine naturale
e morale del mondo. Le streghe di Goya sono vecchie megere, sdentate e deformi,
caricature che incarnano l’ignoranza della superstizione e l’abuso di potere
della società spagnola in preda al fanatismo. Questo era il duplice volto del
timore maschile nei confronti della donna: l’inutilità sociale della vecchiaia
e la potenza seduttiva della giovinezza.
La razionalità illuminata spense i roghi a fine Settecento ma la strega non
scomparve, cambiò volto. Nel pieno del Positivismo scientifico, con il
diffondersi dello spiritismo e delle pratiche medianiche in Europa e in America,
tornò come la medium, la cartomante, la lettrice di sogni. I salotti si
popolarono di affascinanti Sibille moderne, consigliere di famiglie
aristocratiche e borghesi, capaci di svelare destini e segreti, di parlare con i
morti, canalizzare energie, sfidare i confini tra il visibile e l’invisibile. Il
corpo femminile era il tramite di fenomeni straordinari come levitazioni,
scrittura automatica, apparizioni di ectoplasmi, suoni misteriosi, che un tempo
sarebbero stati letti come segni di possessione diabolica, mentre nell’Ottocento
vengono studiati come fenomeni scientifici. Il cerchio si chiude con il
passaggio al secolo breve quando la donna è ormai consapevole di sé e del
proprio potere – un sapere inscritto nella carne, nei cicli, nei desideri, non
più corpo da redimere ma corpo che resiste contro la violenza patriarcale. Non
sono riusciti a spegnerle e oggi sono ovunque, nelle piazze, nei libri, nei
film, nei sogni delle bambine che non vogliono essere principesse. L’archetipo
stregonesco in Salvador Dalí è proiezione dell’inconscio collettivo, e la
strega incarna il potere del desiderio e l’irrazionale che abita la modernità.
Ha abitato le soglie tra scienza e magia, oppressione e libertà, corpo e
trascendenza. Specchio di paure e speranze, tessitrice di tabù, custode dei
conflitti di genere e delle utopie della società, la strega si muove tra i
secoli come un’ombra inquietante ma familiare. Dedicarle una mostra oggi è un
atto di memoria ma soprattutto di immaginazione: un invito a inoltrarsi nel
passato per scorgere le ombre – e le luci – del nostro presente.
***
Info
Stregherie | Iconografia, riti e simboli delle eretiche del sapere
Dove | “Cattedrale” Ex Macello
Quando | Fino al primo febbraio 2026
Orari | Merc-dom 10:30-19:30. Aperture straordinarie: 8 dicembre (stesso
orario): dal 26 dicembre all’ 11 gennaio aperto tutti i giorni
Biglietti | Intero 16 euro, ridotto 14, bambini 6 euro
Contatti | email info@vertigosyndrome.it
Web | stregherie.it
Social | Fb @Stregherie.mostra – Ig @stregherie_mostra
L'articolo La rivincita delle streghe: così la storia di immagini, simboli e
pregiudizi ridà voce e dignità alle “eretiche del sapere” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tutti pazzi per l’Egitto. La cosiddetta “Egittomania” parte da lontano, toccando
periodi storici che hanno caratterizzato l’Europa, come il Rinascimento, quando
l’opera Hieroglyphica fu scoperta a Firenze nel 1419 e attribuita ad Horapollon,
filosofo greco del V secolo dopo Cristo, nato a Nilopoli in Egitto appunto.
Oppure il furore egizio che accompagnò le conquiste napoleoniche. In pratica da
allora un pizzico di follia per l’Egitto ci ha sempre accompagnati. Solo che
oggi, diversamente da 200 anni fa, l’Antico Egitto e la civiltà che in esso si
sviluppò sono al centro dell’interesse non più solo della comunità scientifica a
vari livelli, ma anche del pubblico, proprio quello che due secoli fa non
esisteva e che oggi invece richiede sempre più di emozionarsi di fronte a un
reperto straordinario a una storia mai raccontata. Ed è per questo che al Cairo
è stato inaugurato il Grand Egyptian Museum, il più grande museo egizio al mondo
e uno dei più grandi musei archeologici esistenti dedicati ad un’unica civiltà.
Ispiratore del nuovo grande museo è Zahi Hawass, l’archeologo ed egittologo
egiziano di fama internazionale, già ministro del Turismo e delle Antichità
d’Egitto. Ilfattoquotidiano.it lo ha incontrato a Firenze, tra i protagonisti di
“Stefano Ricci Explorer Symposium”, incontro esclusivo con i nomi più autorevoli
dell’esplorazione mondiale, organizzato a Palazzo Vecchio. “Io sono colui che
praticamente ha costruito quel museo – afferma Hawass – dopo che nel 2002
ricevetti l’incarico dall’allora ministro della Cultura. Utilizzando i proventi
della mostra dedicata a Tutankhamon è stato finanziato il progetto della nuova
costruzione”. L’ex ministro concede il merito al presidente Al Sisi che ha
investito 2 miliardi di dollari e ha potuto rendere possibile il progetto,
“scelto – sottolinea Hawass – tra gli altri 1600 che avevano risposto al bando
lanciato nel 2002”.
Il museo ha dimensioni colossali – circa 450mila metri quadrati che ospitano
oltre 100mila reperti. Ma quali sono quelli da non perdere assolutamente? “Prima
di tutto la statua di Ramsete II – aggiunge l’archeologo -, e quelle degli altri
re e regine, poi le gallerie, i meravigliosi manufatti, ma più importanti di
tutti i 5mila oggetti del tesoro di Tutankhamon“. Non tutto è in mostra. Quali
altre sorprese può regalare l’Egitto? “Alcune le ho scoperte io. Per esempio la
Città dorata, le aree archeologiche di scavo di Saqqara dove scoprimmo la tomba
reale del figlio di un faraone. E comunque il 2026 sarà l’anno più importante
dal punto di vista archeologico”.
C’è poi il risvolto della medaglia, ovvero l’infinita dispersione dell’immenso
patrimonio dell’Antico Egitto in giro per il mondo. Cosa ne pensa Zahi Hawass?
Sostiene la tesi che gli oggetti provenienti dagli scavi siano diffusi sul
pianeta o è bene concentrare i reperti nei luoghi di rinvenimento? “Dirò due
cose: prima di tutto i musei devono smettere di acquistare reperti dell’Antico
Egitto. La seconda: io vorrei riportare in Egitto tre oggetti molto importanti.
La Stele di Rosetta in mostra al British Museum di Londra. Lo Zodiaco di Dendera
che si trova al Louvre di Parigi e per il quale ho aperto una petizione in
internet: appena sarà giunta a un milione di firme presenterò la formale
richiesta di restituzione alla Francia. E infine un’altra petizione riguarda la
Testa della regina Nefertiti che si trova al Neues Museum di Berlino“.
E se qualcuno ha sì un debole per l’antico Egitto, ma si trova impossibilitato a
recarsi al Cairo? Può intanto cercare soddisfazione nel visitare la grande
mostra Tesori dei Faraoni, in corso alle Scuderie del Quirinale di Roma fino al
3 maggio 2026. Curata da Tarek El Awady, che a suo tempo diresse proprio il
Museo Egizio del Cairo, la mostra propone 130 preziosi reperti, 108 dei quali
provengono dal suindicato Museo Egizio del Cairo, due manufatti giungono dal
Museo di Luxor e 20 sono quelli riportati alla luce durante i recenti scavi
condotti sulla riva occidentale di Luxor, nella cosiddetta “Città d’oro”, grazie
a una missione archeologica egiziana diretta dal suddetto Zahi Hawass. E proprio
quest’ultimo scrive nel bel catalogo che accompagna la mostra che “il più grande
monumento mai costruito dall’Egitto non fu una piramide o un tempio, ma l’idea
stessa di eternità”. E a quale elemento naturale possiamo affidare l’idea di
eternità se non all’oro? Infatti il metallo più prezioso, simbolo del divino e
dell’eternità, è il vero protagonista di questo itinerario nel mondo dell’antico
Egitto. Basta pensare al sarcofago dorato della regina Ahhotep II, per esempio,
alla Collana delle Mosche d’oro, che andava in premio a chi si era distinto in
battaglia, oppure al collare di Psusennes I, tutti oggetti che dimostrano quanto
l’ornamento potesse diventare linguaggio politico e riflesso di una teologia del
potere.
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Dalle mostre temporanee a quelle permanenti: infatti se da un lato gli amanti
dell’arte egizia in ogni momento dell’anno possono visitare i due musei italiani
dove più alta è la concentrazione di reperti appartenenti al polo delle Piramidi
– il Museo egizio di Torino e il Museo Archeologico Nazionale di Firenze -,
anche solo per curiosità vale la pena ricordare ciò che sta avvenendo su un muro
dell’antico complesso monumentale di Sant’Agostino, a Pietrasanta, in Versilia.
Qui un artista di origine siciliana – Tano Pisano – lo scorso luglio collocò un
murale di sei metri per due di altezza dedicato alla guerra israelo palestinese.
Erano settimane durissime e le notizie di continui eccidi e bombardamenti di
innocenti si rincorrevano. L’artista concepì l’opera – dal titolo emblematico
PACE – come un “puzzle” di 48 pannelli in plexiglas dipinti in maniera astratta
o figurativa, che appena un mese dopo la sua presentazione al pubblico iniziò
una lenta, inesorabile trasformazione: infatti un elemento per volta veniva
sostituito con un ritratto e via via così fino a dopo Natale, quando l’opera non
sarà più una costruzione poetica astratta, bensì un murale composto da quasi 50
volti dipinti dall’artista.
In pratica ogni settimana circa, due coloratissimi pannelli dipinti lasceranno
spazio a un numero sempre maggiore di immagini dei “ritratti del Fayyum”,
ispirate cioè ai dipinti straordinariamente realistici che datano tra il I
secolo avanti Cristo e il III dopo Cristo, e ritrovati nella famosa necropoli in
Egitto. Realizzati quando il protagonista era ancora in vita, dopo la sua morte
questi ritratti venivano attaccati ai sarcofagi del defunto e in pratica
rappresentano la “invenzione” dell’immagine del defunto sulla tomba che ancora
oggi viene collocata in alcuni cimiteri.
Da segnalare che già nella “iniziale versione” del murale PACE vi era un
ritratto del Fayyum che nella parte superiore reca le bandiere della Palestina e
di Israele, vicine, affiancate così tanto da non sembrare simboli di popoli in
lotta. Poi i ritratti degli antichi egizi defunti, sono aumentati a dismisura,
chiarendo che tutto ciò è pensato in funzione di una “chiamata alla pace”, da
contrapporre alle troppe “chiamate alle armi” che Tano Pisano – siciliano di
nascita e versiliese d’adozione – percepisce, poiché anche l’artista, come tanti
altri del resto, ammette di essere sopraffatto dalla realtà che rivela una
pericolosa mancanza di spazi mentali di libertà.
L'articolo Egittomania | Dal mega-museo inaugurato al Cairo al murale di
Pietrasanta passando per i tesori dei faraoni alle Scuderie del Quirinale
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un autoritratto di Frida Kahlo ha infranto un nuovo record di vendita. Chissà
cosa avrebbe pensato la pittrice messicana morta nel 1954, di certo non tra gli
agi, a vedere il suo El sueño (La cama) battuto all’asta per 54,7 milioni di
dollari? La cifra da record sia tra i suoi dipinti, sia tra le quotazione di
opere di un’artista donna è stato registrato nelle scorse ore all’asta di
Sotheby’s a New York dopo una breve contrattazione durata quattro minuti. La
serata era a tema quadri surrealisti, quindi erano presenti in vendita opere di
Salvador Dalí, René Magritte, Max Ernst e Dorothea Tanning. In El sueño
l’autrice si autorappresenta addormentata in un letto con uno scheletro
sorridente avvolto nella dinamite sul tetto del baldacchino sopra di lei.
Un’impronta oggettivamente surrealista anche se Kahlo non ha mai apprezzato
questo incasellamento sostenendo che non “ha mai dipinto sogni, ma la sua
realtà”. Nella quotazione finale il dipinto della Kahlo, datato 1940, ha
superato di oltre dieci milioni di dollari il dipinto “Jimson Weed/White Flower
No. 1” (1932) venduto alcuni anni fa.
Come ricorda il Guardian, Sotheby’s non ha ancora identificato l’acquirente del
dipinto, ma nell’ambiente delle case d’asta era previsto che El sueño avrebbe
raggiunto una cifra compresa tra i 40 e i 60 milioni di dollari. La vendita a
54,7 milioni di dollari infrange un altro record: quello nell’ambito dell’arte
latinoamericana precedentemente stabilito sempre dalla Kahlo con il dipinto
Diego y Yo (Diego e io) nel 2021, quando fu venduto per 34,9 milioni di dollari.
Dipinto che raffigura l’artista e il suo più volte marito, Diego Rivera.
L’autoritratto da record è tra le poche opere della Kahlo rimaste tra le
collezioni private al di fuori dei confini del Messico, dove il suo corpus
artistico è stato dichiarato monumento nazionale ed esposto in musei e
collezioni pubbliche del paese. Le norme di gestione dei dipinti della Kahlo
presenti in terra messicana recitano che i quadri non possono essere venduti
all’estero e nemmeno distrutti.
El sueño era stato esposto in pubblico l’ultima volta alla fine degli anni
Novanta per poi scomparire di nuovo in uno spazio privato dove rimarrà per molto
tempo, sempre che l’anonimo acquirente non accetti di prestarlo in gallerie e
musei che hanno già fatto richiesta per future mostre tra New York, Londra e
Bruxelles. Il catalogo di Sotheby’s descrive El sueño riferendosi all’intimità
profonda della Kahlo: “La scheletro sospeso è spesso interpretato come una
visualizzazione della sua ansia di morire nel sonno, una paura fin troppo
plausibile per un’artista la cui esistenza quotidiana è stata plasmata dal
dolore cronico e dai traumi del passato”. Kahlo ha vissuto una vita travagliata
in termini di salute, flagellata fin da quando era bambina dalla poliomelite,
poi dalle conseguenze di un incidente d’autobus avuto a 18 anni, infine dal
peggioramento dei problemi alla schiena, alla colonna vertebrale, al bacino
avuti da adulta che la costrinsero a subire numerosi interventi chirurgici e a
superare dolorose e gravi infezioni post operatorie. Infine, nei giorni scorsi,
sempre da Sotheby’s si è volati alti con un’altra quotazione record di un’opera
d’arte. I 236,4 milioni di dollari sborsati dopo venti minuti di rilanci per il
Ritratto di Elisabeth Lederer, opera dell’artista austriaco Gustav Klimt, è
risultato il quarto dipinto più costoso della storia mai venduto all’asta,
piazzandosi tra un Cezanne e un Gauguin.
L'articolo Frida Khalo da record, il quadro “Il Sogno” venduto all’asta per
quasi 55 milioni: è la cifra più alta mai pagata per un’artista donna proviene
da Il Fatto Quotidiano.
È uno degli oggetti archeologici più famosi del patrimonio culturale italiano.
La Chimera d’Arezzo, simbolo dell’arte etrusca e del successo che questa ha
sempre riscosso nell’ultimo mezzo millennio, occupa da oggi una sala
completamente rinnovata del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il cui
ingresso è sulla piazza della Santissima Annunziata dove si affaccia anche il
brunelleschiano Istituto degli Innocenti, la statua equestre di Ferdinando I de’
Medici – opera di Giambologna – e le fontane del suo allievo prediletto, Pietro
Tacca.
Proprio in piena epoca medicea avvenne il ritrovamento della scultura bronzea
che misura 80 centimetri d’altezza per 130 circa di lunghezza. Sconfitta da
Bellerofonte, la Chimera, leggendaria creatura della mitologia greca, è
rappresentata da un leone dal corpo possente e criniera fiammeggiante, una testa
di capro priva, al momento del ritrovamento, della coda di serpente, di cui fu
rinvenuto soltanto un frammento mai restaurato e reintegrato nella seconda metà
del Settecento. L’opera tornò alla luce il 15 novembre 1553, durante gli scavi
per la costruzione di un bastione nelle mura di Arezzo, nei pressi della Porta
di San Lorentino.
Secondo le cronache dell’epoca, la statua si affermò subito per la sorprendente
naturalezza e per la tensione drammatica del corpo ferito. Nelle Deliberazioni
del Magistrato, dei Priori e del Consiglio Generale di Arezzo, si legge infatti
che “fu trovato il seguente insigne monumento degli Etruschi. Era un leone di
bronzo fatto con maestria ed eleganza, di grandezza naturale, di aspetto feroce,
furente, forse per la ferita che aveva sulla coscia sinistra, teneva irte le
chiome e spalancate le fauci, e come un trofeo da ostentare portava sopra la
schiena una testa di capro ucciso, che perde sangue e vita”.
Fin da subito, la sensazionale scoperta di uno dei maggiori capolavori dell’arte
etrusca divenne importante per la politica di Cosimo I de’ Medici, allora duca
di Firenze, interessato a riportare alla ribalta la cultura indipendente dei
popoli dell’Italia prima del dominio dei Romani. La Chimera diventò così simbolo
di continuità con la grande civiltà etrusca, indipendente da Roma e portatrice
di un’identità italiana autonoma e antica, capace di alimentare il mito di
Firenze, non più solo come città del Rinascimento, ma anche come capitale
dell’Etruria rinata, di cui Cosimo I volle fregiarsi del titolo latino di Magnus
Dux Etruriae.
Per Giorgio Vasari, che pure era aretino, Cosimo I de’ Medici divenne perciò il
“Domatore di tutte le fiere” e scelse la sede più prestigiosa per la scultura,
cioè Palazzo Vecchio, centro del potere della Signoria e residenza dei Medici.
In poco tempo la Chimera diventò un vero e proprio oggetto di culto, di
ammirazione e di studio. Nel suo corpo ibrido – metà animale, metà simbolo – i
Medici riconoscevano l’immagine della forza domata dalla ragione, l’essenza
stessa del loro progetto politico: trasformare la molteplicità e la ribellione
in armonia e governo.
Nel corso dei secoli, la Chimera ha poi accompagnato le vicende della dinastia:
nel 1718 fu trasferita per volere di Cosimo III nella Galleria granducale,
mentre nel 1737, fu “consegnata”, insieme al resto della collezione medicea, al
nuovo granduca Francesco Stefano di Lorena, e alla sua discendenza, dalle mani
dell’ultima erede dei Medici, Anna Maria Luisa, secondo i termini del “Patto di
Famiglia” che vincolò il patrimonio mediceo alla città di Firenze.
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IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO
Foto di Mario Ciampi
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IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO
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IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO
Foto di Mario Ciampi
Quindi nel 1871 la statua, insieme agli altri Grandi Bronzi della collezione, fu
trasferita nel nuovo Museo Egizio Etrusco aperto nei locali dell’ex educandato
del Fuligno in via Faenza, a due passi dall’attuale stazione ferroviaria di
Santa Maria Novella. Dieci anni più tardi, istituito il Regio Museo Archeologico
di Firenze, il primo dedicato all’identità archeologica dell’Italia unita e oggi
Museo Archeologico Nazionale di Firenze, anche la Chimera trovò nuova
collocazione nel Palazzo della Crocetta, in piazza Santissima Annunziata e da lì
non si è più spostata, nonostante di tanto in tanto qualcuno manifesti il
desiderio di ricondurla ad Arezzo, là dove fu scoperta quasi mezzo millennio fa,
facendo finta che la presenza dell’opera a Firenze sia ormai ampiamente e
indiscutibilmente storicizzata.
Qui il capolavoro adesso si presenta in un nuovo allestimento che permette ai
visitatori di sperimentare un rapporto personale e suggestivo con l’opera: se
pur tutelata nella sua straordinaria delicatezza e fragilità, domina il centro
della sala poggiando su un basamento monumentale che ne eleva la collocazione,
esaltandone la potenza plastica e la tensione narrativa. Concepita come uno
spazio teatrale, la sala presenta quattro panche disposte in cerchio attorno
alla statua etrusca che invitano a un’osservazione ravvicinata e contemplativa.
Inoltre, integrano lo spazio espositivo, un tendaggio scenografico — simile a un
sipario teatrale — su cui è proiettata l’ombra della Chimera che accentua il
carattere solenne e meditativo dell’ambiente. Inoltre vi è una vetrina sospesa
che, custodendo tre piccoli bronzi etruschi provenienti dallo stesso contesto in
cui la Chimera fu rinvenuta (raffiguranti un grifone, il dio etrusco Tinia, cioè
Giove, e un giovane offerente) genera un dialogo silenzioso tra le opere e la
loro storia.
Da segnalare che, in chiave contemporanea, la riapertura della sala della
Chimera rimarrà anche come momento significativo della storia del Museo,
segnando il passaggio dalla Direzione regionale Musei nazionali della Toscana al
nuovo istituto autonomo del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, istituito
nel 2024 e affidato al nuovo direttore Daniele Federico Maras. E non basta: dopo
questa tappa, l’impegno al rinnovamento del museo proseguirà con il
riallestimento delle vicine sale delle sculture etrusche, dove troveranno la
propria sede definitiva altri capolavori dell’arte etrusca come l’Arringatore e
la Testa Lorenzini e che verranno aperte nei prossimi mesi nell’ambito di un
progetto espositivo dedicato alla lunga storia delle collezioni granducali di
Firenze.
Info Museo
Il Museo è aperto dal lunedì al sabato dalle ore 8.30 alle ore 14, con
prolungamento fino alle 19 il martedì e il giovedì. Sono inoltre previste
aperture straordinarie dedicate alla nuova esposizione della Chimera nelle
serate di mercoledì 26 novembre e di mercoledì 3 dicembre, dalle 18 alle 22,
quest’ultima in significativa coincidenza con la “Giornata internazionale delle
persone con disabilità”; inoltre nella giornata di domenica 7 dicembre dalle
8.30 alle 14.
L'articolo Il ritorno della Chimera d’Arezzo: il capolavoro dell’arte etrusca
splende in una nuova sala al Maf proviene da Il Fatto Quotidiano.
A dieci anni dall’ultima mostra, torna in Italia un’esposizione che segue il
percorso di Giovanni Segantini, artista nato in Trentino, formatosi a Milano,
una vita spesa tra la Brianza e la Svizzera, uno dei massimi esponenti del
Divisionismo. La grande antologica è allestita fino al 22 febbraio al Museo
Civico di Bassano Del Grappa, in provincia di Vicenza, ed è curata da Niccolò
D’Agati. Si tratta di un evento artistico di particolare suggestione, che
racconta la corrente artistica i cui aderenti erano accomunati dalla tecnica
pittorica che prevedeva l’accostamento di colori puri, stesi sulla tela in
pennellate regolari, al fine di ottenere la massima luminosità delle tinte, la
cui sintesi cromatica si attua nella rètina dell’osservatore. Da lontano quei
dipinti sembrano quasi tridimensionali, ma se osservati da vicino rivelano tutta
la loro difficoltà di esecuzione e, di conseguenza, la maestria di chi li aveva
concepiti e realizzati.
In soli 20 anni di attività artistica – nacque infatti nel 1858 e morì nel 1899,
a 41 anni – tecnicamente Segantini impose una sterzata decisa all’arte italiana,
percorrendo insieme ad altri artisti divisionisti – tra i quali spiccano
Pellizza da Volpedo e Plinio Nomellini – un viatico che avrebbe rappresentato
una sorta di “risposta italiana” all’Impressionismo francese. Tematicamente,
invece, Segantini risulta tra i più sensibili osservatori del mondo naturale e
impareggiabile cantore della montagna quale luogo fisico, e al tempo stesso
simbolico, a tal punto che questa mostra rappresenta il giusto omaggio a un
artista troppo spesso lontano dai riflettori puntati sull’arte italiana del XIX
secolo.
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NAVIGLIO A PONTE SAN MARCO
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ALL'OVILE
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5_SEGANTINI_ULTIMO-AUTORITRATTO
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4_MILLET_PASTORELLA-CON-IL-SUO-GREGGE
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3_SEGANTINI_RITORNO-DAL-BOSCO
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2_SEGANTINI_SOLE-D_AUTUNNO
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1_SEGANTINI_AVE-MARIA-A-TRASBORDO
Al piano terra e al primo piano del museo bassanese, il visitatore trova ad
accoglierlo circa un centinaio di opere provenienti dalle principali collezioni
pubbliche e private italiane ed europee – dal parigino Musee d’Orsay al
Rijksmuseum di Amsterdam, tanto per citare i principali –, quasi tutte con
cornici importanti e alcune delle quali rintracciate a distanza di oltre un
secolo dalla loro realizzazione, che definiscono un percorso espositivo diviso
in quattro sezioni e in tre focus tematici i quali, a partire dall’esordio a
Brera, inquadrano gli snodi più importanti della vicenda biografica di
Segantini, mettendo allo stesso tempo in luce la straordinaria evoluzione della
sua pittura.
Un nucleo importante di opere giunge poi da Sankt Moritz, località sciistica di
lusso della valle svizzera dell’Engadina, nota per aver ospitato per ben due
volte i giochi olimpici invernali, dove ha sede il piccolo, ma affascinante
Museo Segantini che propone di continuo esposizioni capaci di far vivere
emozioni visive, e allo stesso tempo culturali, che hanno per comune
denominatore l’arte di Segantini.
Tutte considerate, le tele e i disegni in mostra concorrono a dare l’opportunità
di ricostruire la figura di dell’artista attraverso un’inedita rilettura della
sua opera, messa anche a confronto con l’arte coeva, per raccontare una carriera
che dagli esordi “scapigliati” agli ultimi slanci simbolisti volti a catturare
la Natura, fu capace di influenzare i maggiori movimenti artistici del suo
tempo.
La mostra si articola in quattro sezioni ben definite. La prima è dedicata alla
fase milanese, segnata dall’incontro con il gallerista e sodale Vittore Grubicy
De Dragon, nonché dal diretto confronto con l’eredità della Scapigliatura e del
Naturalismo lombardo. Se in questo vivace contesto si fece evidente l’innata
propensione del pittore allo studio delle potenzialità espressive di luce e
colore, con il trasferimento in Brianza, verso la fine del 1880, si registra
invece un rinnovamento della concezione dell’uso del colore in direzione di un
crescente interesse per la Natura quale elemento di comunione tra uomo,
paesaggio e animali. A questa iniziale parte della mostra appartiene una serie
di ritratti maschili e, soprattutto, femminili, alcuni dei quali rivelano tratti
assolutamente contemporanei, così come sono in evidenza immagini di luoghi
milanesi, tra i quali spicca Naviglio a Ponte San Marco, una tela del 1880, e
alcune nature morte che rivelano attenzioni dell’artista davvero particolari.
Nella seconda sezione sono messi in luce anche i contatti con l’arte di
Jean-Francois Millet, con la produzione grafica di Vincent van Gogh e con le
opere degli artisti della Scuola dell’Aja, per la prima volta posti a diretto
confronto con la sua pittura. È in questa sezione che il Seminatore di Segantini
va a confrontarsi con quello di Van Gogh. A chiudere questa seconda parte di
mostra è il primo, vero autentico capolavoro di Segantini – Ave Maria a
trasbordo – proveniente da Sankt Moritz, che rappresenta il primo “atto”
dell’avventura divisionista di Segantini. Tra l’altro questo dipinto resterà
disponibile nella mostra di Bassano solo fino all’8 dicembre.
Il percorso prosegue poi con la terza, affascinante sezione dedicata alla fase
svizzera, avviatasi a Savognin nel 1886, durante la quale Segantini realizzò le
grandi e celebri composizioni dedicate alla vita montana, arricchite dallo
studio sugli effetti di luce e colore attraverso la definizione di una personale
tecnica pittorica che lo fece emergere quale uno dei protagonisti del
Divisionismo italiano. E di questo periodo si possono ammirare in mostra dipinti
come Sole d’autunno, Ritorno dal bosco, ma soprattutto quella che può
considerarsi l’autentica superstar della mostra – All’ovile, del 1892 – la
grande tela in cui la tecnica divisionista è al suo massimo fulgore e per la
quale l’artista si spinse perfino all’utilizzo di polveri d’oro e lamine
metalliche.
La mostra si chiude sull’ultimo decennio della produzione segantiniana,
caratterizzata dal trasferimento a Maloja e dall’apertura alla poetica
simbolista, raggiunto attraverso la peculiare formula del “simbolismo
naturalistico”, una personale interpretazione del rapporto universale tra Uomo e
Natura, ben visibile in dipinti di grande suggestione come Le due madri, L’ora
mesta e La vanità, dove una fanciulla nuda – quanto meno di botticelliana
ispirazione – una volta abbandonata la comfort zone della conchiglia, adesso si
specchia in una pozza alpina, ma invece di ammirare la propria immagine
ricevendo conferma della propria beltà, scorge un dragone simbolo dell’invidia.
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Info
Giovanni Segantini
A cura di | Niccolò D’Agati
Dove | Museo Civico, Bassano Del Grappa
Quando | Fino al 22 febbraio 2026
Orari | Tutti i giorni 10-19. Chiusura il martedì
Biglietti | Intero 13 euro, ridotto 11, famiglia 28, giovani 5
Contatti e prenotazioni | Tel. 0424 177 0020 – email segantinibassano@ne-t.it
Web | https://www.museibassano.it/it/mostra/giovanni-segantini
Social | Fb @museibassano – Ig @museibassano
L'articolo Una sterzata all’arte italiana lunga vent’anni: il ritorno di
Giovanni Segantini, il campione del divisionismo proviene da Il Fatto
Quotidiano.