Tag - Arte

Milano accoglie il BMW Art Car World Tour e trasforma otto auto in arte viva
Milano ha un modo unico di accogliere certi appuntamenti: non li espone soltanto, li interpreta. All’ADI Design Museum il BMW Art Car World Tour arriva come una chiusura ideale dell’anno e come un inizio, perché celebra i cinquant’anni di una collezione che continua a parlare al presente. Otto vetture, otto “sculture in movimento”, come le definisce Luciano Galimberti, presidente del museo, che ha aperto l’esposizione ricordando la missione dell’istituzione: non un mausoleo del design, ma un luogo dove il progetto diventa chiave di lettura del contemporaneo. Il percorso, infatti, non è costruito per stupire: cerca piuttosto di mettere in relazione le auto con ciò che esse rappresentano. Calder, Stella, Lichtenstein, Mahlangu, Koons, Chia, Holzer, Mehretu: in mezzo secolo questi nomi hanno trasformato la carrozzeria in una tela capace di muoversi, correre, competere. E il design, inteso come disciplina che traduce visione in forma, diventa così ponte naturale con l’industria, il motorsport, la cultura materiale. Massimiliano Di Silvestre, presidente e AD di BMW Italia, lo ha spiegato con una chiarezza che va oltre la retorica dell’anniversario: “Le Art Car sono un unicum: arte, design, tecnologia e motorsport che da cinquant’anni si incontrano e si fondono. Esporre otto vetture qui a Milano è un privilegio, ma anche una responsabilità: questa è la tappa più ricca del tour mondiale”. E non è un caso che la Serie 3, nata anch’essa nel 1975, celebri il suo cinquantesimo compleanno nello stesso anno. Un allineamento simbolico che racconta un brand sempre più interessato a costruire dialoghi culturali oltre la dimensione automobilistica. Il racconto di Thomas Girst, curatore della collezione e responsabile dell’engagement culturale del BMW Group, aggiunge un tassello decisivo: “L’Italia sta celebrando il 50° anniversario delle Art Car con un entusiasmo straordinario. Qui si ritrovano appassionati di design, arte, motorsport e tecnologia: è un momento in cui tutto si tiene, tutto si parla”. E, in effetti, guardando la V12 LMR di Jenny Holzer o la M3 GT2 di Koons, si capisce quanto la componente agonistica sia parte della narrazione estetica, e non un dettaglio accessorio. La mostra sbarca a Milano, dove resterà fino all’8 gennaio 2026, dopo un anno di tappe internazionali – da Art Basel Hong Kong al Le Mans Classic – e anticipa il 2026, quando tutta la collezione correrà idealmente verso Parigi e Rétromobile per celebrare il mezzo secolo del salone. Intanto, all’ADI Design Museum si costruisce un percorso che parte dalla 3.0 CSL di Calder, la madre di tutte, e arriva alla più recente creazione di Julie Mehretu, interpretazione su scala della M Hybrid V8, l’auto che ha riportato BMW a Le Mans nella nuova era. Galimberti, parlando ai presentidurante l’innaugurazione, ha immaginato un sogno: “Vederle circolare per strada sarebbe magnifico, un traffico colorato e felice. Non si può, ma il museo è il luogo dove questo sogno può prendere forma”. Ed è davvero così: la sala diventa un’arena dove cinquanta anni di sperimentazione artistica corrono in parallelo ai cambiamenti della mobilità, della società, del gusto. L'articolo Milano accoglie il BMW Art Car World Tour e trasforma otto auto in arte viva proviene da Il Fatto Quotidiano.
Milano
Fatti a motore
Arte
Bmw
Caro sindaco di Otranto: ora che il mosaico della cattedrale non è più invisibile, mi fate cittadino onorario?
Gentile sindaco Francesco Bruni, a seguito del mio poster a proposito dell’impossibilità di ammirare il mosaico della cattedrale di Otranto, perché questo era coperto dalle panche con inginocchiatoio, Lei ha dichiarato che sono arrivato fuori tempo massimo, perché a luglio 2025 finalmente le panche sono state tolte: Repubblica Bari titola Il mosaico della cattedrale di Otranto non è visibile. Jacopo Fo attacca e il sindaco: “Falso”. Sarebbe in realtà bastata una piccola ricerca su Internet per scoprire che questo poster lo sto ripubblicando dal 2018. La penultima volta che l’ho pubblicato è stata nel maggio 2025. Ora vorrei innanzitutto farLe onore, perché è finalmente riuscito a convincere la curia a spostare le panche e a rendere fruibile al mondo questo capolavoro assoluto, immenso e unico. Mi sarebbe piaciuto che, nell’occasione del suo successo nel togliere queste benedette panche, avesse fatto un cenno a tutti quelli che, come me, da anni protestano contro questa assurdità che danneggia il turismo. Il grande mosaico di Aquileia porta nella cittadina friulana 260mila turisti all’anno, Otranto registra 126mila presenze… e sì che il mosaico di Otranto non ha nulla da invidiare a quello di Aquileia se non il fatto che quello di Otranto non era visibile. Una ricerca su Internet di pochi minuti avrebbe poi permesso, sia a Lei sia al giornalista che l’ha intervistata, di scoprire che ore dopo l’ultima pubblicazione – a novembre 2025 – di questo poster, sono stato avvisato dai miei lettori, attenti e amorevoli, e immediatamente ho corretto l’errore. E siccome non mi piace nascondere gli errori che faccio, non mi sono limitato a togliere il poster, anzi: l’ho lasciato, aggiungendo una scritta che diceva che l’informazione era sbagliata e ho aggiunto un ringraziamento per le persone che mi avevano segnalato l’errore. Dunque: non sono arrivato oltre il tempo massimo, in quanto ho iniziato da molto a insistere su questo problema: quindi potreste per favore farmi cittadino onorario di Otranto? Ps. Comunque, gentile sindaco, il suo successo è parziale: non ci sono più le panche ma durante le funzioni religiose, i matrimoni e i funerali il mosaico verrà coperto dalle sedie. L’articolo di Repubblica invita i turisti a informarsi sul calendario delle funzioni religiose. Ma questo calendario non si trova disponibile in Rete. Forse il comune dovrebbe farsi carico di questa incombenza? E come farete ad avvisare i turisti? Forse bisognerebbe mettere grandi cartelli luminosi all’ingresso della città e nei pressi della cattedrale e dépliant informativi in tutte le strutture turistiche, come gli orari ferroviari… Quanti turisti non riusciranno a vedere il mosaico perché “momentaneamente indisponibile alla vista causa funzione religiosa”? Vede, caro sindaco Bruni, la mia idea di riprodurre all’esterno della basilica il mosaico in modo che sia sempre visibile non è poi così sciocca. Ma visto che pochi cittadini di Otranto sono furenti per questa questione forse io mi preoccupo per nulla. In fondo Otranto vive benissimo con poco turismo, non ci sono problemi di disoccupazione e le attività commerciali vanno a gonfie vele. Chi se ne frega dei turisti! Contenti voi… Inoltre, Lei è stato sindaco dal 1997 al 2007, per due mandati consecutivi. Suppongo che durante questi due mandati precedenti il mosaico della cattedrale di Otranto sia stato visibile, cioè non coperto stabilmente dalle panche. Perché se così non fosse sarebbe Lei ad essere fuori tempo massimo: avrebbe impiegato 12 anni da sindaco per ottenere un cambiamento fondamentale per il turismo. L'articolo Caro sindaco di Otranto: ora che il mosaico della cattedrale non è più invisibile, mi fate cittadino onorario? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Società
Blog
Arte
La rivincita delle streghe: così la storia di immagini, simboli e pregiudizi ridà voce e dignità alle “eretiche del sapere”
Prima di essere temute, erano adorate. Prima dei roghi, erano fiaccole accese nei templi del mondo. Circe che trasforma, Medea che conosce, Ecate che guida nell’oscurità: i loro sussurri provenivano dalle caverne, dai pozzi sacri, giungevano in sogno per guidare le sorti di uomini, battaglie e interi popoli. Era il tempo in cui la Pizia di Delfi, le Sibille greco-romane, la Velleda germanica, la Völva norrena custodivano verità che agli uomini sempre saranno precluse. Con l’avvento della cristianità e delle istituzioni moderne, l’angelo stilnovista e la sposa biblica dei Cantici degradarono nella strega demoniaca: su di lei ricaddero le ansie collettive di una società repressa e instabile, ossessionata dal corpo, flagellata da epidemie, crisi economiche, guerre. E fu così che dal 1430 iniziò la “caccia alle streghe”. Dopo le tappe di Monza e Bologna, Stregherie. Iconografia, riti e simboli delle eretiche del sapere apre a Padova in veste completamente rinnovata e immersiva. Lo storico dell’arte e criminologo Andrea Pellegrino firma la nuova edizione del progetto che indaga le forme mutevoli della stregoneria popolare tra le pieghe dei secoli, nei suoi immaginari, nelle pratiche e nelle repressioni. Attraverso le immagini che hanno modellato – e distorto – la figura della strega, lo spettatore è invitato ad attraversare le ombre per liberarsi dai pregiudizi e dai luoghi comuni. Attingendo a piene mani dall’antropologia, dalla storia dell’arte e da quella sociale, il curatore prende le distanze dalle caricature fiabesche e dalle ossessioni inquisitorie per restituire complessità storica e simbolica a una figura demonizzata troppo a lungo. La mostra Stregherie si attraversa come un incantesimo: le nove sezioni sono le soglie da varcare per “rinascere” con una nuova consapevolezza critica, quella della conoscenza, dell’arte e della cultura, triade più potente di qualsiasi magia. Le opere, le litografie, gli oggetti magico-rituali, i libri di medicina popolare, testimoniano il bisogno ancestrale che l’uomo ha di attribuire senso all’incertezza, di dialogare con l’invisibile, di trovare negli elementi naturali gli alleati contro l’imprevedibilità dell’esistenza. ‹ › 1 / 20 1 Robert Shipster , Le streghe di Endor – 1797 , collezione Invernizzi ‹ › 2 / 20 2 John William Waterhouse , Il cerchio magico – XIX sec. , collezione Invernizzi ‹ › 3 / 20 3 Joseph Apoux , Le streghe – c.a. 1888 , collezione Invernizzi ‹ › 4 / 20 4 Joseph Apoux , Intimità - c.a. 1888 , Collezione Invernizzi ‹ › 5 / 20 5 Albrecht Durer , La magia – 1484, tiratura XIX sec. , collezione Invernizzi ‹ › 6 / 20 6 C. Neureuther , Hänsel und Grethel - 1876 , collezione Invernizzi ‹ › 7 / 20 7 Anonimo , 3 sculture demone esoterico legno e ferro – XVII/XVIII sec. , collezione Pezzini ‹ › 8 / 20 8 Dipinto olio su tela scena mostruosa con stregone, diavolo topi serpenti e mostri – 1928 , collezione Pezzini ‹ › 9 / 20 9 Anonimo , Mano per insegnare l’arte della chiromanzia – fine ‘800 , collezione Pezzini ‹ › 10 / 20 10 Francisco José de Goya y Lucientes , Devota Professione - 1881-1886 , collezione Invernizzi ‹ › 11 / 20 11 Léon Auguste Salles , (La strega) - seconda metà XIX sec. , collezione Invernizzi ‹ › 12 / 20 12 Lumb Stocks , Streghe e stregoni danzanti – seconda metà XIX sec. , collezione Invernizzi ‹ › 13 / 20 13 George-Achille Fould, Madame Satan, 1909, Collezione Luca Locati Luciani ‹ › 14 / 20 15 Léopold Desbrosses, Hille Bobbe, 1876, collezione Invernizzi   ‹ › 15 / 20 16 Paul Sulpice Guillaume Gavarni, Il filtro, 1839, collezione Invernizzi ‹ › 16 / 20 17 Elisa Seitzinger, Superego, arazzo ‹ › 17 / 20 18 Gran Etteilla, Jean Baptiste Alliette, ‘800 ‹ › 18 / 20 19 Nicolò Mulè, 20 Tavole della strega Gualina Stabiosa (Upui), percorso della madre eccelsa in caratteri tebani, Museo della Stregoneria Moderna ‹ › 19 / 20 20 Nicolò Mulè, 20 Tavole della strega Gualina Stabiosa (Upui), percorso della madre eccelsa in caratteri tebani, Museo della Stregoneria Moderna ‹ › 20 / 20 21 Jean Veber, Streghe moderne, circa 1910, collezione Invernizzi Le hanno inseguite e oltraggiate perché conoscevano le radici che curano e quelle che uccidono; il momento esatto in cui tagliare la mandragora, le fasi della luna, i mormorii delle foglie. Vedevano magia oscura dove c’era conoscenza che non condividevano perché non era scritta nelle loro Bibbie. Ed è per questo che le hanno bruciate: le hanno trascinate a processo come lussuriose, torturate come perverse, costrette a confessare il falso come incantatrici. Ma erano donne libere, sole per scelta o per disperazione, senza vergogna né marito. Come Lilith che non si inginocchia ad Adamo e abbandona l’Eden, come Salomè che danza per se stessa. Gli atti dei processi per stregoneria sono firmati con l’inchiostro nero della paura: non la paura delle accusate, quella degli accusatori. La strega a rovescio sul caprone di Dürer è muscolosa, nuda e libera mentre sfascia l’ideale rinascimentale di bellezza e sovverte l’ordine naturale e morale del mondo. Le streghe di Goya sono vecchie megere, sdentate e deformi, caricature che incarnano l’ignoranza della superstizione e l’abuso di potere della società spagnola in preda al fanatismo. Questo era il duplice volto del timore maschile nei confronti della donna: l’inutilità sociale della vecchiaia e la potenza seduttiva della giovinezza. La razionalità illuminata spense i roghi a fine Settecento ma la strega non scomparve, cambiò volto. Nel pieno del Positivismo scientifico, con il diffondersi dello spiritismo e delle pratiche medianiche in Europa e in America, tornò come la medium, la cartomante, la lettrice di sogni. I salotti si popolarono di affascinanti Sibille moderne, consigliere di famiglie aristocratiche e borghesi, capaci di svelare destini e segreti, di parlare con i morti, canalizzare energie, sfidare i confini tra il visibile e l’invisibile. Il corpo femminile era il tramite di fenomeni straordinari come levitazioni, scrittura automatica, apparizioni di ectoplasmi, suoni misteriosi, che un tempo sarebbero stati letti come segni di possessione diabolica, mentre nell’Ottocento vengono studiati come fenomeni scientifici. Il cerchio si chiude con il passaggio al secolo breve quando la donna è ormai consapevole di sé e del proprio potere – un sapere inscritto nella carne, nei cicli, nei desideri, non più corpo da redimere ma corpo che resiste contro la violenza patriarcale. Non sono riusciti a spegnerle e oggi sono ovunque, nelle piazze, nei libri, nei film, nei sogni delle bambine che non vogliono essere principesse. L’archetipo stregonesco in Salvador Dalí è proiezione dell’inconscio collettivo, e la strega incarna il potere del desiderio e l’irrazionale che abita la modernità. Ha abitato le soglie tra scienza e magia, oppressione e libertà, corpo e trascendenza. Specchio di paure e speranze, tessitrice di tabù, custode dei conflitti di genere e delle utopie della società, la strega si muove tra i secoli come un’ombra inquietante ma familiare. Dedicarle una mostra oggi è un atto di memoria ma soprattutto di immaginazione: un invito a inoltrarsi nel passato per scorgere le ombre – e le luci – del nostro presente. *** Info Stregherie | Iconografia, riti e simboli delle eretiche del sapere Dove | “Cattedrale” Ex Macello Quando | Fino al primo febbraio 2026 Orari | Merc-dom 10:30-19:30. Aperture straordinarie: 8 dicembre (stesso orario): dal 26 dicembre all’ 11 gennaio aperto tutti i giorni Biglietti | Intero 16 euro, ridotto 14, bambini 6 euro Contatti | email info@vertigosyndrome.it Web | stregherie.it Social | Fb @Stregherie.mostra – Ig @stregherie_mostra L'articolo La rivincita delle streghe: così la storia di immagini, simboli e pregiudizi ridà voce e dignità alle “eretiche del sapere” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Diritti
Arte
Storia dell'Arte
Mostre
Egittomania | Dal mega-museo inaugurato al Cairo al murale di Pietrasanta passando per i tesori dei faraoni alle Scuderie del Quirinale
Tutti pazzi per l’Egitto. La cosiddetta “Egittomania” parte da lontano, toccando periodi storici che hanno caratterizzato l’Europa, come il Rinascimento, quando l’opera Hieroglyphica fu scoperta a Firenze nel 1419 e attribuita ad Horapollon, filosofo greco del V secolo dopo Cristo, nato a Nilopoli in Egitto appunto. Oppure il furore egizio che accompagnò le conquiste napoleoniche. In pratica da allora un pizzico di follia per l’Egitto ci ha sempre accompagnati. Solo che oggi, diversamente da 200 anni fa, l’Antico Egitto e la civiltà che in esso si sviluppò sono al centro dell’interesse non più solo della comunità scientifica a vari livelli, ma anche del pubblico, proprio quello che due secoli fa non esisteva e che oggi invece richiede sempre più di emozionarsi di fronte a un reperto straordinario a una storia mai raccontata. Ed è per questo che al Cairo è stato inaugurato il Grand Egyptian Museum, il più grande museo egizio al mondo e uno dei più grandi musei archeologici esistenti dedicati ad un’unica civiltà. Ispiratore del nuovo grande museo è Zahi Hawass, l’archeologo ed egittologo egiziano di fama internazionale, già ministro del Turismo e delle Antichità d’Egitto. Ilfattoquotidiano.it lo ha incontrato a Firenze, tra i protagonisti di “Stefano Ricci Explorer Symposium”, incontro esclusivo con i nomi più autorevoli dell’esplorazione mondiale, organizzato a Palazzo Vecchio. “Io sono colui che praticamente ha costruito quel museo – afferma Hawass – dopo che nel 2002 ricevetti l’incarico dall’allora ministro della Cultura. Utilizzando i proventi della mostra dedicata a Tutankhamon è stato finanziato il progetto della nuova costruzione”. L’ex ministro concede il merito al presidente Al Sisi che ha investito 2 miliardi di dollari e ha potuto rendere possibile il progetto, “scelto – sottolinea Hawass – tra gli altri 1600 che avevano risposto al bando lanciato nel 2002”. Il museo ha dimensioni colossali – circa 450mila metri quadrati che ospitano oltre 100mila reperti. Ma quali sono quelli da non perdere assolutamente? “Prima di tutto la statua di Ramsete II – aggiunge l’archeologo -, e quelle degli altri re e regine, poi le gallerie, i meravigliosi manufatti, ma più importanti di tutti i 5mila oggetti del tesoro di Tutankhamon“. Non tutto è in mostra. Quali altre sorprese può regalare l’Egitto? “Alcune le ho scoperte io. Per esempio la Città dorata, le aree archeologiche di scavo di Saqqara dove scoprimmo la tomba reale del figlio di un faraone. E comunque il 2026 sarà l’anno più importante dal punto di vista archeologico”. C’è poi il risvolto della medaglia, ovvero l’infinita dispersione dell’immenso patrimonio dell’Antico Egitto in giro per il mondo. Cosa ne pensa Zahi Hawass? Sostiene la tesi che gli oggetti provenienti dagli scavi siano diffusi sul pianeta o è bene concentrare i reperti nei luoghi di rinvenimento? “Dirò due cose: prima di tutto i musei devono smettere di acquistare reperti dell’Antico Egitto. La seconda: io vorrei riportare in Egitto tre oggetti molto importanti. La Stele di Rosetta in mostra al British Museum di Londra. Lo Zodiaco di Dendera che si trova al Louvre di Parigi e per il quale ho aperto una petizione in internet: appena sarà giunta a un milione di firme presenterò la formale richiesta di restituzione alla Francia. E infine un’altra petizione riguarda la Testa della regina Nefertiti che si trova al Neues Museum di Berlino“. E se qualcuno ha sì un debole per l’antico Egitto, ma si trova impossibilitato a recarsi al Cairo? Può intanto cercare soddisfazione nel visitare la grande mostra Tesori dei Faraoni, in corso alle Scuderie del Quirinale di Roma fino al 3 maggio 2026. Curata da Tarek El Awady, che a suo tempo diresse proprio il Museo Egizio del Cairo, la mostra propone 130 preziosi reperti, 108 dei quali provengono dal suindicato Museo Egizio del Cairo, due manufatti giungono dal Museo di Luxor e 20 sono quelli riportati alla luce durante i recenti scavi condotti sulla riva occidentale di Luxor, nella cosiddetta “Città d’oro”, grazie a una missione archeologica egiziana diretta dal suddetto Zahi Hawass. E proprio quest’ultimo scrive nel bel catalogo che accompagna la mostra che “il più grande monumento mai costruito dall’Egitto non fu una piramide o un tempio, ma l’idea stessa di eternità”. E a quale elemento naturale possiamo affidare l’idea di eternità se non all’oro? Infatti il metallo più prezioso, simbolo del divino e dell’eternità, è il vero protagonista di questo itinerario nel mondo dell’antico Egitto. Basta pensare al sarcofago dorato della regina Ahhotep II, per esempio, alla Collana delle Mosche d’oro, che andava in premio a chi si era distinto in battaglia, oppure al collare di Psusennes I, tutti oggetti che dimostrano quanto l’ornamento potesse diventare linguaggio politico e riflesso di una teologia del potere. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Scuderie del Quirinale (@scuderiequirinale) Dalle mostre temporanee a quelle permanenti: infatti se da un lato gli amanti dell’arte egizia in ogni momento dell’anno possono visitare i due musei italiani dove più alta è la concentrazione di reperti appartenenti al polo delle Piramidi – il Museo egizio di Torino e il Museo Archeologico Nazionale di Firenze -, anche solo per curiosità vale la pena ricordare ciò che sta avvenendo su un muro dell’antico complesso monumentale di Sant’Agostino, a Pietrasanta, in Versilia. Qui un artista di origine siciliana – Tano Pisano – lo scorso luglio collocò un murale di sei metri per due di altezza dedicato alla guerra israelo palestinese. Erano settimane durissime e le notizie di continui eccidi e bombardamenti di innocenti si rincorrevano. L’artista concepì l’opera – dal titolo emblematico PACE – come un “puzzle” di 48 pannelli in plexiglas dipinti in maniera astratta o figurativa, che appena un mese dopo la sua presentazione al pubblico iniziò una lenta, inesorabile trasformazione: infatti un elemento per volta veniva sostituito con un ritratto e via via così fino a dopo Natale, quando l’opera non sarà più una costruzione poetica astratta, bensì un murale composto da quasi 50 volti dipinti dall’artista. In pratica ogni settimana circa, due coloratissimi pannelli dipinti lasceranno spazio a un numero sempre maggiore di immagini dei “ritratti del Fayyum”, ispirate cioè ai dipinti straordinariamente realistici che datano tra il I secolo avanti Cristo e il III dopo Cristo, e ritrovati nella famosa necropoli in Egitto. Realizzati quando il protagonista era ancora in vita, dopo la sua morte questi ritratti venivano attaccati ai sarcofagi del defunto e in pratica rappresentano la “invenzione” dell’immagine del defunto sulla tomba che ancora oggi viene collocata in alcuni cimiteri. Da segnalare che già nella “iniziale versione” del murale PACE vi era un ritratto del Fayyum che nella parte superiore reca le bandiere della Palestina e di Israele, vicine, affiancate così tanto da non sembrare simboli di popoli in lotta. Poi i ritratti degli antichi egizi defunti, sono aumentati a dismisura, chiarendo che tutto ciò è pensato in funzione di una “chiamata alla pace”, da contrapporre alle troppe “chiamate alle armi” che Tano Pisano – siciliano di nascita e versiliese d’adozione – percepisce, poiché anche l’artista, come tanti altri del resto, ammette di essere sopraffatto dalla realtà che rivela una pericolosa mancanza di spazi mentali di libertà. L'articolo Egittomania | Dal mega-museo inaugurato al Cairo al murale di Pietrasanta passando per i tesori dei faraoni alle Scuderie del Quirinale proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cultura
Egitto
Arte
Arte Contemporanea
Mostre
Frida Khalo da record, il quadro “Il Sogno” venduto all’asta per quasi 55 milioni: è la cifra più alta mai pagata per un’artista donna
Un autoritratto di Frida Kahlo ha infranto un nuovo record di vendita. Chissà cosa avrebbe pensato la pittrice messicana morta nel 1954, di certo non tra gli agi, a vedere il suo El sueño (La cama) battuto all’asta per 54,7 milioni di dollari? La cifra da record sia tra i suoi dipinti, sia tra le quotazione di opere di un’artista donna è stato registrato nelle scorse ore all’asta di Sotheby’s a New York dopo una breve contrattazione durata quattro minuti. La serata era a tema quadri surrealisti, quindi erano presenti in vendita opere di Salvador Dalí, René Magritte, Max Ernst e Dorothea Tanning. In El sueño l’autrice si autorappresenta addormentata in un letto con uno scheletro sorridente avvolto nella dinamite sul tetto del baldacchino sopra di lei. Un’impronta oggettivamente surrealista anche se Kahlo non ha mai apprezzato questo incasellamento sostenendo che non “ha mai dipinto sogni, ma la sua realtà”. Nella quotazione finale il dipinto della Kahlo, datato 1940, ha superato di oltre dieci milioni di dollari il dipinto “Jimson Weed/White Flower No. 1” (1932) venduto alcuni anni fa. Come ricorda il Guardian, Sotheby’s non ha ancora identificato l’acquirente del dipinto, ma nell’ambiente delle case d’asta era previsto che El sueño avrebbe raggiunto una cifra compresa tra i 40 e i 60 milioni di dollari. La vendita a 54,7 milioni di dollari infrange un altro record: quello nell’ambito dell’arte latinoamericana precedentemente stabilito sempre dalla Kahlo con il dipinto Diego y Yo (Diego e io) nel 2021, quando fu venduto per 34,9 milioni di dollari. Dipinto che raffigura l’artista e il suo più volte marito, Diego Rivera. L’autoritratto da record è tra le poche opere della Kahlo rimaste tra le collezioni private al di fuori dei confini del Messico, dove il suo corpus artistico è stato dichiarato monumento nazionale ed esposto in musei e collezioni pubbliche del paese. Le norme di gestione dei dipinti della Kahlo presenti in terra messicana recitano che i quadri non possono essere venduti all’estero e nemmeno distrutti. El sueño era stato esposto in pubblico l’ultima volta alla fine degli anni Novanta per poi scomparire di nuovo in uno spazio privato dove rimarrà per molto tempo, sempre che l’anonimo acquirente non accetti di prestarlo in gallerie e musei che hanno già fatto richiesta per future mostre tra New York, Londra e Bruxelles. Il catalogo di Sotheby’s descrive El sueño riferendosi all’intimità profonda della Kahlo: “La scheletro sospeso è spesso interpretato come una visualizzazione della sua ansia di morire nel sonno, una paura fin troppo plausibile per un’artista la cui esistenza quotidiana è stata plasmata dal dolore cronico e dai traumi del passato”. Kahlo ha vissuto una vita travagliata in termini di salute, flagellata fin da quando era bambina dalla poliomelite, poi dalle conseguenze di un incidente d’autobus avuto a 18 anni, infine dal peggioramento dei problemi alla schiena, alla colonna vertebrale, al bacino avuti da adulta che la costrinsero a subire numerosi interventi chirurgici e a superare dolorose e gravi infezioni post operatorie. Infine, nei giorni scorsi, sempre da Sotheby’s si è volati alti con un’altra quotazione record di un’opera d’arte. I 236,4 milioni di dollari sborsati dopo venti minuti di rilanci per il Ritratto di Elisabeth Lederer, opera dell’artista austriaco Gustav Klimt, è risultato il quarto dipinto più costoso della storia mai venduto all’asta, piazzandosi tra un Cezanne e un Gauguin. L'articolo Frida Khalo da record, il quadro “Il Sogno” venduto all’asta per quasi 55 milioni: è la cifra più alta mai pagata per un’artista donna proviene da Il Fatto Quotidiano.
Libri e Arte
Arte
Il ritorno della Chimera d’Arezzo: il capolavoro dell’arte etrusca splende in una nuova sala al Maf
È uno degli oggetti archeologici più famosi del patrimonio culturale italiano. La Chimera d’Arezzo, simbolo dell’arte etrusca e del successo che questa ha sempre riscosso nell’ultimo mezzo millennio, occupa da oggi una sala completamente rinnovata del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il cui ingresso è sulla piazza della Santissima Annunziata dove si affaccia anche il brunelleschiano Istituto degli Innocenti, la statua equestre di Ferdinando I de’ Medici – opera di Giambologna – e le fontane del suo allievo prediletto, Pietro Tacca. Proprio in piena epoca medicea avvenne il ritrovamento della scultura bronzea che misura 80 centimetri d’altezza per 130 circa di lunghezza. Sconfitta da Bellerofonte, la Chimera, leggendaria creatura della mitologia greca, è rappresentata da un leone dal corpo possente e criniera fiammeggiante, una testa di capro priva, al momento del ritrovamento, della coda di serpente, di cui fu rinvenuto soltanto un frammento mai restaurato e reintegrato nella seconda metà del Settecento. L’opera tornò alla luce il 15 novembre 1553, durante gli scavi per la costruzione di un bastione nelle mura di Arezzo, nei pressi della Porta di San Lorentino. Secondo le cronache dell’epoca, la statua si affermò subito per la sorprendente naturalezza e per la tensione drammatica del corpo ferito. Nelle Deliberazioni del Magistrato, dei Priori e del Consiglio Generale di Arezzo, si legge infatti che “fu trovato il seguente insigne monumento degli Etruschi. Era un leone di bronzo fatto con maestria ed eleganza, di grandezza naturale, di aspetto feroce, furente, forse per la ferita che aveva sulla coscia sinistra, teneva irte le chiome e spalancate le fauci, e come un trofeo da ostentare portava sopra la schiena una testa di capro ucciso, che perde sangue e vita”. Fin da subito, la sensazionale scoperta di uno dei maggiori capolavori dell’arte etrusca divenne importante per la politica di Cosimo I de’ Medici, allora duca di Firenze, interessato a riportare alla ribalta la cultura indipendente dei popoli dell’Italia prima del dominio dei Romani. La Chimera diventò così simbolo di continuità con la grande civiltà etrusca, indipendente da Roma e portatrice di un’identità italiana autonoma e antica, capace di alimentare il mito di Firenze, non più solo come città del Rinascimento, ma anche come capitale dell’Etruria rinata, di cui Cosimo I volle fregiarsi del titolo latino di Magnus Dux Etruriae. Per Giorgio Vasari, che pure era aretino, Cosimo I de’ Medici divenne perciò il “Domatore di tutte le fiere” e scelse la sede più prestigiosa per la scultura, cioè Palazzo Vecchio, centro del potere della Signoria e residenza dei Medici. In poco tempo la Chimera diventò un vero e proprio oggetto di culto, di ammirazione e di studio. Nel suo corpo ibrido – metà animale, metà simbolo – i Medici riconoscevano l’immagine della forza domata dalla ragione, l’essenza stessa del loro progetto politico: trasformare la molteplicità e la ribellione in armonia e governo. Nel corso dei secoli, la Chimera ha poi accompagnato le vicende della dinastia: nel 1718 fu trasferita per volere di Cosimo III nella Galleria granducale, mentre nel 1737, fu “consegnata”, insieme al resto della collezione medicea, al nuovo granduca Francesco Stefano di Lorena, e alla sua discendenza, dalle mani dell’ultima erede dei Medici, Anna Maria Luisa, secondo i termini del “Patto di Famiglia” che vincolò il patrimonio mediceo alla città di Firenze. ‹ › 1 / 5 IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO Foto di Mario Ciampi ‹ › 2 / 5 IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO Foto di Mario Ciampi ‹ › 3 / 5 IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO Foto di Mario Ciampi ‹ › 4 / 5 IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO Foto di Mario Ciampi ‹ › 5 / 5 IL NUOVO ALLESTIMENTO DELLA CHIMERA DI AREZZO Foto di Mario Ciampi Quindi nel 1871 la statua, insieme agli altri Grandi Bronzi della collezione, fu trasferita nel nuovo Museo Egizio Etrusco aperto nei locali dell’ex educandato del Fuligno in via Faenza, a due passi dall’attuale stazione ferroviaria di Santa Maria Novella. Dieci anni più tardi, istituito il Regio Museo Archeologico di Firenze, il primo dedicato all’identità archeologica dell’Italia unita e oggi Museo Archeologico Nazionale di Firenze, anche la Chimera trovò nuova collocazione nel Palazzo della Crocetta, in piazza Santissima Annunziata e da lì non si è più spostata, nonostante di tanto in tanto qualcuno manifesti il desiderio di ricondurla ad Arezzo, là dove fu scoperta quasi mezzo millennio fa, facendo finta che la presenza dell’opera a Firenze sia ormai ampiamente e indiscutibilmente storicizzata. Qui il capolavoro adesso si presenta in un nuovo allestimento che permette ai visitatori di sperimentare un rapporto personale e suggestivo con l’opera: se pur tutelata nella sua straordinaria delicatezza e fragilità, domina il centro della sala poggiando su un basamento monumentale che ne eleva la collocazione, esaltandone la potenza plastica e la tensione narrativa. Concepita come uno spazio teatrale, la sala presenta quattro panche disposte in cerchio attorno alla statua etrusca che invitano a un’osservazione ravvicinata e contemplativa. Inoltre, integrano lo spazio espositivo, un tendaggio scenografico — simile a un sipario teatrale — su cui è proiettata l’ombra della Chimera che accentua il carattere solenne e meditativo dell’ambiente. Inoltre vi è una vetrina sospesa che, custodendo tre piccoli bronzi etruschi provenienti dallo stesso contesto in cui la Chimera fu rinvenuta (raffiguranti un grifone, il dio etrusco Tinia, cioè Giove, e un giovane offerente) genera un dialogo silenzioso tra le opere e la loro storia. Da segnalare che, in chiave contemporanea, la riapertura della sala della Chimera rimarrà anche come momento significativo della storia del Museo, segnando il passaggio dalla Direzione regionale Musei nazionali della Toscana al nuovo istituto autonomo del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, istituito nel 2024 e affidato al nuovo direttore Daniele Federico Maras. E non basta: dopo questa tappa, l’impegno al rinnovamento del museo proseguirà con il riallestimento delle vicine sale delle sculture etrusche, dove troveranno la propria sede definitiva altri capolavori dell’arte etrusca come l’Arringatore e la Testa Lorenzini e che verranno aperte nei prossimi mesi nell’ambito di un progetto espositivo dedicato alla lunga storia delle collezioni granducali di Firenze. Info Museo Il Museo è aperto dal lunedì al sabato dalle ore 8.30 alle ore 14, con prolungamento fino alle 19 il martedì e il giovedì. Sono inoltre previste aperture straordinarie dedicate alla nuova esposizione della Chimera nelle serate di mercoledì 26 novembre e di mercoledì 3 dicembre, dalle 18 alle 22, quest’ultima in significativa coincidenza con la “Giornata internazionale delle persone con disabilità”; inoltre nella giornata di domenica 7 dicembre dalle 8.30 alle 14. L'articolo Il ritorno della Chimera d’Arezzo: il capolavoro dell’arte etrusca splende in una nuova sala al Maf proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cultura
Firenze
Arte
Una sterzata all’arte italiana lunga vent’anni: il ritorno di Giovanni Segantini, il campione del divisionismo
A dieci anni dall’ultima mostra, torna in Italia un’esposizione che segue il percorso di Giovanni Segantini, artista nato in Trentino, formatosi a Milano, una vita spesa tra la Brianza e la Svizzera, uno dei massimi esponenti del Divisionismo. La grande antologica è allestita fino al 22 febbraio al Museo Civico di Bassano Del Grappa, in provincia di Vicenza, ed è curata da Niccolò D’Agati. Si tratta di un evento artistico di particolare suggestione, che racconta la corrente artistica i cui aderenti erano accomunati dalla tecnica pittorica che prevedeva l’accostamento di colori puri, stesi sulla tela in pennellate regolari, al fine di ottenere la massima luminosità delle tinte, la cui sintesi cromatica si attua nella rètina dell’osservatore. Da lontano quei dipinti sembrano quasi tridimensionali, ma se osservati da vicino rivelano tutta la loro difficoltà di esecuzione e, di conseguenza, la maestria di chi li aveva concepiti e realizzati. In soli 20 anni di attività artistica – nacque infatti nel 1858 e morì nel 1899, a 41 anni – tecnicamente Segantini impose una sterzata decisa all’arte italiana, percorrendo insieme ad altri artisti divisionisti – tra i quali spiccano Pellizza da Volpedo e Plinio Nomellini – un viatico che avrebbe rappresentato una sorta di “risposta italiana” all’Impressionismo francese. Tematicamente, invece, Segantini risulta tra i più sensibili osservatori del mondo naturale e impareggiabile cantore della montagna quale luogo fisico, e al tempo stesso simbolico, a tal punto che questa mostra rappresenta il giusto omaggio a un artista troppo spesso lontano dai riflettori puntati sull’arte italiana del XIX secolo. ‹ › 1 / 7 NAVIGLIO A PONTE SAN MARCO ‹ › 2 / 7 ALL'OVILE ‹ › 3 / 7 5_SEGANTINI_ULTIMO-AUTORITRATTO ‹ › 4 / 7 4_MILLET_PASTORELLA-CON-IL-SUO-GREGGE ‹ › 5 / 7 3_SEGANTINI_RITORNO-DAL-BOSCO ‹ › 6 / 7 2_SEGANTINI_SOLE-D_AUTUNNO ‹ › 7 / 7 1_SEGANTINI_AVE-MARIA-A-TRASBORDO Al piano terra e al primo piano del museo bassanese, il visitatore trova ad accoglierlo circa un centinaio di opere provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private italiane ed europee – dal parigino Musee d’Orsay al Rijksmuseum di Amsterdam, tanto per citare i principali –, quasi tutte con cornici importanti e alcune delle quali rintracciate a distanza di oltre un secolo dalla loro realizzazione, che definiscono un percorso espositivo diviso in quattro sezioni e in tre focus tematici i quali, a partire dall’esordio a Brera, inquadrano gli snodi più importanti della vicenda biografica di Segantini, mettendo allo stesso tempo in luce la straordinaria evoluzione della sua pittura. Un nucleo importante di opere giunge poi da Sankt Moritz, località sciistica di lusso della valle svizzera dell’Engadina, nota per aver ospitato per ben due volte i giochi olimpici invernali, dove ha sede il piccolo, ma affascinante Museo Segantini che propone di continuo esposizioni capaci di far vivere emozioni visive, e allo stesso tempo culturali, che hanno per comune denominatore l’arte di Segantini. Tutte considerate, le tele e i disegni in mostra concorrono a dare l’opportunità di ricostruire la figura di dell’artista attraverso un’inedita rilettura della sua opera, messa anche a confronto con l’arte coeva, per raccontare una carriera che dagli esordi “scapigliati” agli ultimi slanci simbolisti volti a catturare la Natura, fu capace di influenzare i maggiori movimenti artistici del suo tempo. La mostra si articola in quattro sezioni ben definite. La prima è dedicata alla fase milanese, segnata dall’incontro con il gallerista e sodale Vittore Grubicy De Dragon, nonché dal diretto confronto con l’eredità della Scapigliatura e del Naturalismo lombardo. Se in questo vivace contesto si fece evidente l’innata propensione del pittore allo studio delle potenzialità espressive di luce e colore, con il trasferimento in Brianza, verso la fine del 1880, si registra invece un rinnovamento della concezione dell’uso del colore in direzione di un crescente interesse per la Natura quale elemento di comunione tra uomo, paesaggio e animali. A questa iniziale parte della mostra appartiene una serie di ritratti maschili e, soprattutto, femminili, alcuni dei quali rivelano tratti assolutamente contemporanei, così come sono in evidenza immagini di luoghi milanesi, tra i quali spicca Naviglio a Ponte San Marco, una tela del 1880, e alcune nature morte che rivelano attenzioni dell’artista davvero particolari. Nella seconda sezione sono messi in luce anche i contatti con l’arte di Jean-Francois Millet, con la produzione grafica di Vincent van Gogh e con le opere degli artisti della Scuola dell’Aja, per la prima volta posti a diretto confronto con la sua pittura. È in questa sezione che il Seminatore di Segantini va a confrontarsi con quello di Van Gogh. A chiudere questa seconda parte di mostra è il primo, vero autentico capolavoro di Segantini – Ave Maria a trasbordo – proveniente da Sankt Moritz, che rappresenta il primo “atto” dell’avventura divisionista di Segantini. Tra l’altro questo dipinto resterà disponibile nella mostra di Bassano solo fino all’8 dicembre. Il percorso prosegue poi con la terza, affascinante sezione dedicata alla fase svizzera, avviatasi a Savognin nel 1886, durante la quale Segantini realizzò le grandi e celebri composizioni dedicate alla vita montana, arricchite dallo studio sugli effetti di luce e colore attraverso la definizione di una personale tecnica pittorica che lo fece emergere quale uno dei protagonisti del Divisionismo italiano. E di questo periodo si possono ammirare in mostra dipinti come Sole d’autunno, Ritorno dal bosco, ma soprattutto quella che può considerarsi l’autentica superstar della mostra – All’ovile, del 1892 – la grande tela in cui la tecnica divisionista è al suo massimo fulgore e per la quale l’artista si spinse perfino all’utilizzo di polveri d’oro e lamine metalliche. La mostra si chiude sull’ultimo decennio della produzione segantiniana, caratterizzata dal trasferimento a Maloja e dall’apertura alla poetica simbolista, raggiunto attraverso la peculiare formula del “simbolismo naturalistico”, una personale interpretazione del rapporto universale tra Uomo e Natura, ben visibile in dipinti di grande suggestione come Le due madri, L’ora mesta e La vanità, dove una fanciulla nuda – quanto meno di botticelliana ispirazione – una volta abbandonata la comfort zone della conchiglia, adesso si specchia in una pozza alpina, ma invece di ammirare la propria immagine ricevendo conferma della propria beltà, scorge un dragone simbolo dell’invidia. *** Info Giovanni Segantini A cura di | Niccolò D’Agati Dove | Museo Civico, Bassano Del Grappa Quando | Fino al 22 febbraio 2026 Orari | Tutti i giorni 10-19. Chiusura il martedì Biglietti | Intero 13 euro, ridotto 11, famiglia 28, giovani 5 Contatti e prenotazioni | Tel. 0424 177 0020 – email segantinibassano@ne-t.it Web | https://www.museibassano.it/it/mostra/giovanni-segantini Social | Fb @museibassano – Ig @museibassano L'articolo Una sterzata all’arte italiana lunga vent’anni: il ritorno di Giovanni Segantini, il campione del divisionismo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cultura
Arte
Storia dell'Arte