Assistiamo a sempre più surreali dibattiti sulla necessità di rilanciare
l’Unione Europea rendendola finalmente un protagonista militare all’altezza dei
difficili tempi che corrono, ovvero del presunto tradimento statunitense. Tali
dibattiti evidenziano una volta di più la pessima qualità del ceto politico e
giornalistico italiano, espressione purtroppo veridica di un Paese alla deriva
sotto l’egida della pessima Meloni con la sua Armata Brancaleone di incapaci e
profittatori, nonché dell’altrettanto pessima finta opposizione piddina che
sulle questioni cruciali della pace e della guerra dimostra tutta la sua
subalternità alle forze dominanti.
Tutti costoro vaneggiano enunciando tesi sconnesse e destituite del benché
minimo fondamento, perché si ostinano a negare, come ogni psicopatico che si
rispetti, alcune verità del tutto elementari e inconfutabili.
Primo. La destabilizzazione tentata undici anni fa in Ucraina dalla Nato contro
la Russia e buona parte del popolo ucraino è fallita.
Secondo. Tale fallimento rientra nel quadro d’insieme del naufragio storico
dell’Occidente coloniale e neocoloniale. E’ definitivamente concluso, per
fortuna, il lungo periodo, durato circa 500 anni, dell’egemonia occidentale sul
pianeta.
Terzo. L’Occidente che sta tramontando definitivamente ha dominato il pianeta in
questi cinque secoli avvalendosi di strumenti di morte: guerre di sterminio,
genocidi e oppressione di moltitudini in Africa, America Latina, Asia. Non c’è
quindi nessun presunto primato in materia di diritti umani e democrazia da
rivendicare. La democrazia e lo Stato di diritto vivono attualmente una crisi
profonda e tendenzialmente esiziale proprio nel cuore stesso dell’Occidente
capitalistico.
Quarto. Il genocidio del popolo palestinese, tuttora in atto nonostante la finta
tregua di Sharm El Sheik, costituisce un’ulteriore mefitico sussulto del
corpaccio agonizzante dell’Occidente. Ne è protagonista lo Stato d’Israele,
governato da una compagine di nazisionisti che praticano apartheid, pulizia
etnica e massacri in modo non differente da quello che fu all’epoca il Terzo
Reich nazista e per tale motivo sono oggi sotto accusa in tutto il mondo, anche
in sedi giudiziarie riconosciute come la Corte internazionale di giustizia e la
Corte penale internazionale. Complici del genocidio sono del resto gli Stati
occidentali che da sempre finanziano e armano Israele coprendone i crimini, con
in testa Stati Uniti, Germania e Italia.
Quinto. Consapevole della decadenza occidentale in atto, il presidente
statunitense Donald Trump sta tentando una disperata manovra di contenimento
all’insegna del cosiddetto “Make America Great Again”. In tale ambito Trump
cerca un accordo con la Russia, nell’illusoria convinzione di dividerla dalla
Cina e in quella altrettanto demenziale di resuscitare la dottrina Monroe
affermando il proprio predominio in America Latina scatenando guerre
d’aggressione contro il Venezuela ma anche contro Colombia, Messico, Brasile,
Cuba. Si veda al riguardo il recente documento relativo alla Strategia nazionale
degli Stati Uniti. Contemporaneamente Trump sta pricedendo alla fascistizzazione
dello Stato all’insegna del razzismo contro i migranti.
Sesto. In questo quadro gli Stati Uniti, consapevoli – più e meglio degli ottusi
europei – della situazione di crisi terminale dell’Occidente, hanno deciso di
abbandonare la nave che sta affondando, lasciando gli europei a pagare il conto
della guerra in Ucraina e auspicando in sostanza la fine dell’Unione Europea.
Settimo. I dementi e corrotti governanti europei stanno scegliendo la via della
guerra contro la Russia, sia perché la potente lobby degli armamenti chiede il
riarmo, sia perché la militarizzazione della società sembra loro la risposta più
adeguata di fronte alla crisi della democrazia europea. Piuttosto che mollare il
potere personaggi come Merz, Macron, Stamer e Meloni sono pronti alla catastrofe
bellica. Per questo lanciano in continuazione allarmi infondati sulla presunta
aggressività russa, spingono fino all’inverosimile l’acceleratore sul riarmo,
impoverendo ulteriormente le loro economie e le loro società, ostacolano
irresponsabilmente il raggiungimento di una pace definitiva in Ucraina,
alimentando le pulsioni revansciste di Zelensky & C., rendendosi in tal modo
colpevoli, come lo fu all’epoca Boris Johnson, quando sabotò poco dopo
l’invasione russa il raggiungimento di un accordo di pace a Istanbul, della
morte di decine di migliaia di giovani ucraini e russi.
Prendere atto dei sette postulati appena enunciati costituisce la necessaria
operazione di pulizia preliminare per continuare a parlare di Europa. Ciò
comporta evidentemente una vera e propria rivoluzione concettuale e politica che
veda la rimozione delle attuali sconfitte, decotte e corrotte classi dominanti
europee per aprirsi a una prospettiva di pace e cooperazione nell’ambito di un
mondo multipolare, mentre la ruota della storia si rimette in moto, nonostante e
contro l’Unione Europea in disfacimento.
L'articolo L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per
prenderne atto (e da cui ripartire) proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Genocidio
Si apre con una lettera di censura il mio nuovo libro Empatia selettiva: perché
l’Occidente è rimasto a lungo indifferente al genocidio di Gaza. La lettera,
scritta da chi avrebbe dovuto essere il mio editore, chiedeva di sostituire il
termine “genocidio” con “atrocità di massa”. Rifiutai e mi ritrovai senza
editore. Per mesi nessuno ha voluto pubblicare il libro: né nel Regno Unito né
negli Stati Uniti, dove ho lavorato per quasi due decenni, né in Italia, dove
ora risiedo.
Non elenco le case editrici che hanno rifiutato il manoscritto, tergiversato,
avanzato distinguo o provato a convincermi a non usare la parola “genocidio.”
Analizzare le loro singole motivazioni richiederebbe un approfondimento, ma non
è questo il punto. Il vero problema è la loro presunta indipendenza e il “panico
morale” scatenato dal timore di essere accusati, in modo pretestuoso e
manipolatorio, di antisemitismo, come sottolinea Donatella Della Porta.
Paradossalmente, molti degli autori citati nel libro, tra cui Albert Einstein,
Hannah Arendt, Erich Fromm, Noam Chomsky, Gabor Maté, Norman Finkelstein e molti
altri, sono ebrei. Un dettaglio del tutto irrilevante per chi strumentalizza
l’antisemitismo per zittire chi denuncia un genocidio di 20.000 bambini
innocenti.
Tutte queste case editrici, ne sono abbastanza certo, si percepiscono come
istituzioni libere di Paesi avanzati, che promuovono nobili valori come i
diritti umani. E, in parte, lo sono davvero. Il problema è che si tratta di
diritti umani a targhe alterne, riconosciuti ad alcune vittime ma negati ad
altre.
Il doppio standard morale ed emotivo di fronte al genocidio di Gaza, è il tema
centrale del libro. Come sottolineato nella copertina del saggio, “Gaza è
diventata un punto cieco morale nell’occhio occidentale”, uno specchio che
riflette l’ipocrisia della nostra politica internazionale. A ben vedere, non
dovrebbe sorprendere più di tanto che il libro non sia stato voluto da un lungo
elenco di case editrici. Per molte, pubblicarlo avrebbe significato guardarsi
allo specchio e ammettere di operare in una società che, normalizzando un
genocidio, ha assistito al crollo dei propri principi etici. Come si legge nel
libro, “sotto le macerie di Gaza, l’Occidente ha seppellito la propria anima”.
Chi ha avuto invece il coraggio di pubblicarlo?
La casa editrice Brill, grazie a David Fasenfest, che ha reso possibile la
versione inglese, Selective Empathy: The West Through the Gaze of Gaza, in
uscita il 18 dicembre, e la Compagnia Editoriale Aliberti, grazie a Francesco
Aliberti, che ha pubblicato Empatia selettiva: perché l’Occidente è rimasto a
lungo indifferente al genocidio di Gaza, il 26 novembre scorso. Senza di loro,
questo libro non sarebbe stato pubblicato.
Ma siamo davvero sicuri che si tratti di censura e “panico morale”? C’è sempre
la possibilità che il libro non sia sufficientemente meritevole, per
originalità, qualità o leggibilità. Esaminiamo allora ciascuno di questi tre
aspetti.
Originalità. Si tratta del primo libro pubblicato in italiano con il titolo
“Empatia selettiva” e del secondo al mondo in lingua inglese. Il primo testo in
inglese con lo stesso titolo, auto-pubblicato, si concentra prevalentemente sul
narcisismo, non sull’empatia selettiva. Nessun altro libro ha analizzato questo
concetto di psicologia politica nel contesto del genocidio di Gaza.
Qualità. Il libro si basa su un ampio apparato di fonti scientifiche, tra cui
articoli pubblicati su riviste come The Lancet e British Medical Journal, oltre
a rapporti di organizzazioni internazionali come Oms, Nazioni Unite, Amnesty
International e Human Rights Watch. La ricerca alla base del volume ha portato
anche alla pubblicazione di un articolo su The Lancet, firmato insieme a Ilan
Pappé, Ghassan Abu-Sittah e Jonathan Montomoli, e a una lettera aperta
sottoscritta da storici, politologi ed esperti di genocidio di rilievo
internazionale, tra cui Avi Shlaim, Rashid Khalidi, Omer Bartov e Martin Shaw.
Queste iniziative hanno contribuito al riconoscimento formale del genocidio di
Gaza da parte di numerose associazioni accademiche e professionali che contano
oltre 10 milioni di iscritti.
Leggibilità. Il testo è pensato per un pubblico ampio, non specialistico. La
qualità del manoscritto è testimoniata dalle recensioni e dai commenti
autorevoli di studiosi e intellettuali di primo piano, tra cui Nassim Taleb (Il
cigno nero), George Monbiot (The Guardian), Richard Wilkinson (La misura
dell’anima) e altri.
La ricezione iniziale del libro segnala un interesse diffuso, testimoniato dalle
numerose presentazioni pubbliche nelle prime settimane dall’uscita. I proventi
dei diritti d’autore, e una parte del ricavato dalla vendita del libro
dell’editore, saranno devoluti ai progetti di assistenza sanitaria di Emergency.
L'articolo ‘Empatia selettiva’, voglio parlarvi del mio libro sul genocidio a
Gaza che non doveva uscire proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un “genocidio” commesso ai danni della popolazione di etnia russa o russofona
del Donbass con 5mila vittime civili a partire dal 2014. E’ l’accusa in base
alla quale la Russia ha incriminato decine di esponenti della classe politica e
militare ucraina. Tra i 41 accusati dalla Procura generale non figura il
presidente Volodymyr Zelensky, mentre compaiono il suo predecessore Petro
Poroshenko, il ministro della Difesa Denys Shmygal, l’ex capo delle forze armate
Valeriy Zaluzhny, quello attuale Oleksandr Syrsky, l’ex capo di gabinetto
presidenziale Andriy Yermak e Rustem Umerov, segretario del Consiglio di
Sicurezza nazionale e capo della delegazione ucraina per le trattative di pace.
In un comunicato, la Procura generale ha reso noto di avere “approvato
l’incriminazione nel procedimento penale contro la leadership politica e
militare dell’Ucraina”. I 41 dirigenti ed ex dirigenti sono accusati in
contumacia in base all’articolo 357 del Codice penale russo, vale a dire di
“genocidio”. Tutti sono stati iscritti nella lista dei ricercati da Mosca.
Secondo i capi d’imputazione, a partire dall’aprile del 2014, dopo il
rovesciamento del presidente filo-russo Viktor Yanukovich e la salita al potere
di un governo filo-occidentale, gli accusati “hanno ordinato ai loro subordinati
nelle forze armate ucraine e in altre formazioni armate di usare armi da fuoco,
veicoli corazzati, aerei da combattimento, missili e artiglieria contro civili
con l’intento di commettere un genocidio” contro la popolazione delle regioni di
Donetsk e Lugansk.
Secondo la Procura generale, sono stati uccisi quasi 5mila civili e 13.500 sono
stati feriti, di cui 1.275 minori. Sempre secondo l’accusa, di conseguenza oltre
2,3 milioni di cittadini sono stati costretti a fuggire dalle loro case e la
popolazione complessiva delle due regioni è scesa da 6,5 a 4,5 milioni.
L'articolo La Russia incrimina i vertici politici e militari dell’Ucraina:
“Responsabili di genocidio nel Donbass dal 2014” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
di Sara Gandini e Paolo Bartolini
I social non sono sempre luoghi di deprimente appiattimento, politico e
culturale: a volte permettono di far circolare interventi e informazioni che non
ottengono spazio nei telegiornali e sulla stampa mainstream. In particolare ci
ha colpito uno spezzone rivelatore del giornalista Marc Innaro nel quale questo
professionista dalla schiena dritta racconta il clima di censura e intimidazione
a cui sono stati soggetti coloro che hanno voluto semplicemente offrire una
prospettiva alternativa su quanto stava (e sta) accadendo all’incrocio dei tre
punti dirimenti dell’attuale età dell’emergenza: la gestione pandemica, la
guerra in Ucraina, il genocidio (ancora in corso) che Israele sta portando
avanti ai danni dei palestinesi.
Innaro ha spiegato in modo chiaro come in Rai si è fatto di tutto per
scoraggiare i giornalisti a fare il loro lavoro e testimoniare ciò con cui
venivano a contatto. Durante una intervista a Che tempo che fa, Innaro ha
infatti raccontato che in Russia la gestione della pandemia era meno “blindata”,
più attenta a non opprimere angosciosamente la popolazione usando misure di buon
senso, come permettere ai supermercati di avere orari prolungati, pagati dallo
stato, e mezzi pubblici più frequenti per evitare affollamenti.
Inoltre ha spiegato come in Russia si parlasse di una sperimentazione che
sembrava dare buoni risultati contro la Covid-19 come la terapia con il plasma
iper-immune, e a quel punto Burioni, ospite fisso dell’epoca, pensò bene di
tuonare contro Innaro accusandolo di antiscienza. Quando poi di fatto la
sperimentazione ha dimostrato risultati ottimi ed è stata pubblicata su riviste
molto importanti.
Sappiamo benissimo, in seguito, come lo stesso giornalista sia stato
“allontanato” per le sue misurate osservazioni sulla vicenda russo-ucraina, da
fine conoscitore della storia precedente al febbraio 2022, solo per aver
ricordato che l’invasione dell’Ucraina non era comprensibile senza dare il
giusto peso ai timori russi circa l’espansione della Nato ad est.
Infine, giunto in Egitto proprio in concomitanza con l’esplosione della furia
militare israeliana, Innaro ha sentito altre pressioni che gli impedivano di
raccontare il punto di vista di chi denunciava il genocidio, decidendo alla fine
di uscire dal circuito Rai.
Tutto questo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che i fenomeni più eclatanti
di questi cinque anni sono legati da un filo sottile. Nessuna cospirazione o
piano segreto per sterminare l’umanità. Piuttosto un consolidarsi di strategie
di controllo dell’opinione pubblica e di repressione del dissenso, funzionale a
interessi sfumati e convergenti. Da quelli del neoliberalismo di guerra
(atlantista ed europeo) a quelli delle aziende farmaceutiche, per arrivare a
quelli legati alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale (vedi Draghi:
“se non ti vaccini contagi e muori” e “se l’Europa non investe sull’Ai muore”).
Evitare le polarizzazioni superficiali e andare in profondità significa oggi
riconoscere che la logica bellicista (già presente nella retorica della
governance pandemica, con il Nemico da sconfiggere, i sacrifici eroici, i
disertori da punire e i delatori da premiare) ha saturato quasi ogni angolo
dell’informazione, della politica, dell’economia, dell’immaginario. Resistere in
modo nonviolento a questa sciocca ferocia, spacciata per “Difesa” delle nostre
vite dalle minacce provenienti dalle turpi autocrazie, è necessario in ogni
sede.
Le voci del dissenso sono chiamate ad alzarsi e a farsi coro, perché l’età delle
emergenze è il laboratorio dove si prepara la fine dell’umanità, soprattutto
occidentale, a partire degli ucraini forzati ad arruolarsi per arrivare alle
violenze sulle donne ucraine, dai soprusi degli occupanti agli abusi dei mariti
di ritorno dal fronte, e infine il macello dei palestinesi, tutte vittime
designate dell’economia emergenziale e di guerra.
Grazie quindi a chi da mesi e mesi, ogni giorno, partecipa al presidio in
solidarietà con Gaza davanti al duomo di Milano. Una presenza silenziosa ma
significativa, che con una determinazione commovente pone domande a tutti noi.
L'articolo Colpisce il racconto di Marc Innaro sulle pressioni in Rai. Covid,
Ucraina e Gaza: fenomeni legati da un filo sottile proviene da Il Fatto
Quotidiano.
di Roberto Iannuzzi *
“Il cessate il fuoco rischia di creare la pericolosa illusione che la vita a
Gaza stia tornando alla normalità. Ma […] il mondo non deve lasciarsi ingannare.
Il genocidio israeliano non è finito”. A pronunciare queste parole è stata Agnès
Callamard, già relatrice speciale dell’Onu, attualmente alla guida di Amnesty
International.
Un parere analogo lo ha espresso lo storico israeliano Raz Segal, professore di
studi sull’Olocausto e sui genocidi presso la Stockton University, nel New
Jersey.
Segal ha affermato che i leader israeliani continuano a proferire dichiarazioni
dall’intento chiaramente genocidario. Un rapporto dell’Unctad (United Nations
Conference on Trade and Development) ha rilevato che Israele ha causato nella
Striscia “il peggior collasso economico mai registrato”. Il Pil pro capite
nell’enclave palestinese è crollato a 161 dollari l’anno, meno di 50 centesimi
al giorno. Uno dei più bassi al mondo. Oltre il 92% degli edifici residenziali è
stato distrutto e danneggiato.
Secondo Callamard, “le autorità israeliane perseverano nelle loro politiche
spietate, limitando l’accesso agli aiuti umanitari vitali e ai servizi
essenziali, e imponendo deliberatamente condizioni calcolate per distruggere
fisicamente i palestinesi a Gaza”. Amnesty afferma che gli israeliani continuano
a impedire la ricostruzione di infrastrutture essenziali per il sostegno alla
vita.
Secondo l’Onu, dal 10 ottobre (data di inizio della tregua) al 1° dicembre sono
effettivamente entrati nella Striscia poco più di 100 camion al giorno, invece
dei 600 stipulati dall’accordo sul cessate il fuoco. Il cibo è insufficiente, e
Israele non permette l’ingresso di tende e prefabbricati, di cui vi sarebbe
urgente bisogno con l’arrivo delle piogge e della stagione fredda.
Oltre un milione e mezzo di palestinesi a Gaza vive nelle tende e in altri
ricoveri di fortuna. Le ultime piogge torrenziali hanno distrutto più di 22.000
tende. Il sovraffollamento e l’esposizione ai liquami, a causa del sistema
fognario distrutto, rendono ancor più grave la situazione. Come ha affermato
l’ex ministro israeliano Yossi Beilin, non esiste in realtà un piano di pace
perché non vi è accordo su quel piano.
Esso parla di uno stato palestinese a cui il premier israeliano Benjamin
Netanyahu ha dichiarato di opporsi irrevocabilmente. Neanche sul disarmo di
Hamas vi è accordo fra le parti. Al più vi è un cessate il fuoco, sostiene
Beilin, che viene continuamente violato. Dal 10 ottobre, data di inizio della
tregua, Israele ha ucciso almeno 360 palestinesi.
Pur affermando di volersi attenere al piano Trump, lo stato ebraico continua a
compiere operazioni militari nella Striscia. Per anni Israele ha dichiarato di
rispettare il processo di pace mentre imponeva “fatti sul terreno” che ne hanno
determinato il fallimento. Il governo Netanyahu ha ora “importato” lo stesso
modello a Gaza.
L’ingresso nella Striscia della forza internazionale di stabilizzazione prevista
dal piano Trump rischia di incancrenire la crisi dell’enclave palestinese invece
di alleviarla, supportando di fatto l’occupazione israeliana.
La quasi totalità della popolazione palestinese è ammassata in meno della metà
della Striscia, quella controllata da Hamas. La parte occupata da Israele è
spopolata. Nell’enclave palestinese vi è una partizione di fatto.
L’amministrazione Trump prevede la costruzione di “comunità alternative sicure”
solo nella cosiddetta “zona verde” controllata da Israele, con l’obiettivo di
attirarvi i palestinesi con la promessa di cibo, medicine e rifugi. Ma tali
comunità rischiano di trasformarsi in campi di concentramento controllati da
muri, telecamere di sorveglianza e avamposti militari israeliani. I palestinesi
che vorranno accedervi potrebbero essere arrestati anche solo per aver lavorato
nella pubblica amministrazione di Hamas, e coloro che vi saranno ammessi
rischiano di non poterne uscire. La zona controllata da Hamas rimarrà invece
senza ricostruzione ed esposta alle incursioni militari israeliane.
Alla gestione della Striscia divisa in due partecipa il cosiddetto Centro di
Controllo Civile-Militare (Cccm) creato dagli Stati Uniti a Kiryat Gat, nel sud
di Israele. Alla conduzione del centro contribuiscono 40 paesi ed almeno due
compagnie statunitensi specializzate nella creazione di software e sistemi di
sorveglianza basati sull’intelligenza artificiale (IA): Palantir e Dataminr.
Palantir ha una stretta collaborazione con Israele, ed è accusata di complicità
nei crimini di guerra commessi dalle forze israeliane a Gaza negli ultimi due
anni.
La presenza di queste due compagnie all’interno del Cccm lascia intendere che il
controllo israeliano su Gaza, ora in collaborazione con gli Usa, rimarrà ferreo
ed incentrato su sistemi d’arma e di sorveglianza gestiti dall’IA. Tali sistemi
sono in grado di controllare movimenti e comunicazioni della popolazione di
Gaza, monitorando social, chat, contatti telefonici e internet.
L’enclave palestinese sembra tragicamente destinata a rimanere un distopico
laboratorio di sperimentazione di queste tecnologie, in un labirinto spettrale
di macerie e disperazione apparentemente senza uscita.
In questo inferno, l’agonia dovuta al mancato ingresso degli aiuti e
all’impossibilità di ricostruire potrebbe in ogni momento sfociare in altri
massacri determinati dalla ripresa delle operazioni militari israeliane. Ma
sull’ininterrotta tragedia di Gaza è di nuovo caduto il silenzio. Il mondo
sembra ancora una volta aver distolto lo sguardo.
*Autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i
punti oscuri della narrazione israeliana” (2024).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/
L'articolo A Gaza il genocidio continua, altro che cessate il fuoco. Ma il mondo
ha distolto di nuovo lo sguardo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Intanto a Gaza – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano in edicola oggi
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L'articolo Intanto a Gaza proviene da Il Fatto Quotidiano.
Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo a Torino,
è stato prelevato e trasferito in un Centro di permanenza per il rimpatrio. Il
provvedimento arriva settimane dopo le sue parole pronunciate durante una
manifestazione pro Palestina del 9 ottobre, quando aveva definito l’attacco del
7 ottobre 2023 come una reazione ad anni di occupazione. Una dichiarazione che
rientra nel campo della libertà di espressione politica – piaccia o no – è
bastata per trasformarlo nel bersaglio di un’operazione mediatica e
istituzionale culminata nella revoca del suo permesso di soggiorno di lungo
periodo e in un ordine di espulsione.
Shahin vive in Italia da oltre vent’anni. È egiziano e, in quanto oppositore del
regime di Al-Sisi, sarebbe in pericolo reale e immediato se rimandato in Egitto.
Nonostante questo, e nonostante abbia presentato una nuova domanda di asilo
tramite il modello C3 – che per legge sospende ogni espulsione fino alla
decisione della Commissione – la magistratura ha comunque convalidato il
rimpatrio, aggirando una procedura che normalmente tutela chi chiede protezione
internazionale. Un atto punitivo insomma.
Come ricorda il movimento Torino per Gaza, Shahin paga una sola colpa: essersi
esposto pubblicamente, e senza pause, denunciando il genocidio in corso a Gaza e
sostenendo la causa palestinese. Una posizione politica e morale trasformata in
motivo di espulsione. Un uomo musulmano che prende parola sulla Palestina è
trattato come un problema di sicurezza, non come un soggetto avente diritto alla
libertà di espressione, garantito a chiunque altro.
E questo caso non è affatto isolato. Negli ultimi due anni è emersa una tendenza
sistematica: uomini arabi, musulmani e palestinesi vengono sorvegliati, puniti e
criminalizzati in modo sproporzionato rispetto ai fatti contestati. Il
trattamento riservato ad Ahmad Salem, 24 anni, ne è un esempio lampante.
Arrivato in Italia per chiedere protezione internazionale, è finito nella
sezione di alta sicurezza del carcere di Rossano Calabro. Durante la procedura
di asilo gli è stato sequestrato il telefono e parti di suoi interventi pubblici
– slogan, appelli alla mobilitazione civile per la Palestina, contenuti politici
– sono stati etichettati come “terrorismo”. Frammenti decontestualizzati sono
bastati per trasformare l’espressione del dissenso palestinese in un reato. Il
tutto mentre tre giovani palestinesi – Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh
– sono accusati di “terrorismo” sulla base del volere di Israele, con Yaeesh
ancora detenuto da oltre un anno. Anche qui emerge lo stesso schema: presunzione
di colpevolezza, sovrastima del rischio, accettazione acritica delle narrative
israeliane e criminalizzazione automatica del profilo palestinese.
A questo si aggiunge quanto accaduto a Mohammad Hannoun, presidente
dell’Associazione Palestinesi in Italia. Fermato all’aeroporto di Linate, è
stato denunciato per “istigazione alla violenza” e colpito da un foglio di via
che gli vieta di entrare a Milano per un anno. Provvedimento già applicato in
passato, sempre in correlazione alla sua attività pubblica in solidarietà al
popolo palestinese. Hannoun definisce l’operazione “un atto di aggressione”: “Mi
dispiace di questo atto di aggressione nei miei confronti, mentre il nostro
governo è complice diretto del genocidio a Gaza, dove fornisce armi per
sterminare i gazawi. (…) All’uscita dell’aeromobile gli agenti della polizia mi
hanno identificato e mi hanno portato in ufficio a Linate per darmi due
notifiche. La prima era l’allontanamento dalla città per un anno, l’altra una
denuncia per istigazione alla violenza”.
Anche qui si ripete lo stesso schema: l’attivismo palestinese e musulmano viene
decontestualizzato, punito e represso con l’espulsione fisica dal territorio,
con l’isolamento; ogni parola è un potenziale reato, ogni presenza pubblica
trattata come un problema di sicurezza nazionale. Non è un caso: è parte di una
strategia che colpisce sempre gli stessi corpi, gli stessi accenti, le stesse
identità.
Un’ulteriore conferma arriva dal caso dell’imam di Bologna Zulfiqar Khan,
allontanato dall’Italia l’anno scorso attraverso un decreto immediato del
Ministero dell’Interno basato su una selezione di sermoni, frasi e contenuti
religiosi interpretati come indicatori di pericolosità. Un uomo residente in
Italia da decenni, privato del permesso di soggiorno ed espulso senza garanzie
adeguate e senza un vero processo. Anche qui, un dissenso o un linguaggio
religioso che non piace è stato sufficiente per attivare la macchina
dell’espulsione.
Mettendo insieme questi casi, emerge una dinamica chiara: quando il soggetto è
un uomo musulmano o palestinese che denuncia il genocidio di Gaza o critica la
politica occidentale in Medio Oriente, lo Stato interviene con misure
eccezionali ed eccessive – fogli di via, espulsioni, revoche del permesso di
soggiorno – accuse sproporzionate e criminalizzazione delle opinioni. È una
strategia che colpisce sempre le stesse identità, incoraggiata da un clima
politico che normalizza l’idea islamofobica del musulmano “pericoloso” e
“radicale”.
Questo non è sicurezza: è razzializzazione del dissenso. È islamofobia
istituzionale normalizzata. È un avvertimento politico a un’intera comunità: il
diritto di parola non vale uguale per tutti. E chi parla contro un genocidio,
soprattutto se coinvolto direttamente, rischia, in questo Paese, di essere
trattato come se fosse lui il pericolo.
L'articolo Perché l’espulsione dell’Imam di Torino per il suo dissenso contro il
genocidio a Gaza non è un caso isolato proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Roberto De Vogli, Jonathan Montomoli e Massimo Amato (cofondatore Movimento
Giustizia e Pace in Medio Oriente)
27 dicembre 2024. Tra le macerie degli edifici distrutti, un uomo in camice
bianco si fa avanti verso due carri armati che sbarrano la strada. È il dottor
Hussam Abu Safiya, pediatra e neonatologo, direttore dell’ospedale Kamal Adwan,
situato nel nord della Striscia di Gaza. Poco dopo, Abu Safiya viene arrestato.
Il suo “reato”? Aver salvato vite, anche mettendo a rischio la propria.
Il Kamal Adwan era una delle ultime strutture ospedaliere di grandi dimensioni
ancora funzionanti nel nord di Gaza. Le forze israeliane hanno compiuto
un’ulteriore “operazione militare” danneggiando sezioni fondamentali come il
laboratorio, il blocco operatorio e il deposito dei materiali sanitari. Insieme
al dottor Safiya sono stati arrestati anche altri membri del personale medico,
mentre i pazienti in condizioni critiche sono stati evacuati.
L’esercito israeliano aveva più volte ordinato al dottor Safiya e ai suoi
colleghi di abbandonare l’ospedale, ma loro hanno rifiutato, fedeli al
giuramento professionale che li impegna a curare chiunque abbia bisogno.
Nonostante le minacce e l’uccisione di suo figlio, Abu Safiya ha ribadito: “Ce
ne andremo solo quando l’ultimo palestinese avrà lasciato il nord di Gaza.”
Dopo quasi due anni di bombardamenti e uso della fame come arma di sterminio,
l’aspettativa di vita nella Striscia di Gaza si è ridotta di oltre trent’anni,
quasi dimezzandosi. Un recente studio pubblicato sul Scandinavian Journal of
Public Health stima che, a fronte dei 60.199 decessi ufficialmente riportati a
luglio 2025, il numero reale di vittime a Gaza potrebbe arrivare a circa
601.990, di cui 148.240 bambini sotto i 15 anni.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra l’ottobre 2023 e il maggio
2025 l’esercito israeliano ha colpito 720 volte obiettivi sanitari nella
Striscia, tra cui 125 strutture mediche, 34 ospedali e 186 ambulanze. Questi
attacchi, condotti in aperta violazione delle Convenzioni di Ginevra, dello
Statuto di Roma e del diritto umanitario internazionale, hanno causato la morte
di 1.722 tra medici, infermieri e soccorritori: il numero più alto di operatori
sanitari uccisi in una zona di guerra nella storia recente, pari all’8,9% del
personale medico di Gaza. Un saniticidio. Come ha spiegato il dottor Safiya:
“Abbiamo chiesto al mondo una protezione internazionale del sistema sanitario.
Queste sono leggi stabilite dalle Convenzioni di Ginevra, che sanciscono la
protezione del sistema sanitario.” E ha aggiunto: “Dove sono queste leggi? Qual
è il peccato che abbiamo commesso in questo ospedale per essere bombardati e
uccisi in questo modo?”.
Dal 27 dicembre 2024, Abu Safiya è in prigione senza che gli sia stata
formalmente mossa alcuna accusa. Quando la sua avvocata, Ghaida Qassem, è
finalmente riuscita a vederlo, l’11 febbraio 2025, si è trovata di fronte un
uomo esausto, affetto da infezioni non curate e con chiari segni di tortura. Il
14 luglio, alla sua terza visita, il dottor Abu Safiya versava in condizioni
critiche, gravemente dimagrito.
Il suo caso non è unico. Sono migliaia i palestinesi detenuti illegalmente nelle
carceri israeliane, tra cui 95 operatori sanitari. Molti di loro sono detenuti
senza capi di imputazione e, a tutt’oggi, non si conoscono le loro condizioni di
salute. Ecco perché condividiamo qui l’appello ideato e promosso dal Movimento
Giustizia e Pace in Medio Oriente per la liberazione di Hossam Abu Safiya e di
tutti gli operatori sanitari ostaggi a Israele. L’appello, rivolto
principalmente ai professionisti della salute ma aperto alla firma di tutti, ha
già raccolto numerose adesioni prestigiose, tra cui quelle di Richard Horton,
direttore di The Lancet, Ghassan Abu-Sittah, rettore dell’Università di Glasgow,
Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto Farmacologico Mario
Negri, oltre a medici volontari che hanno operato a Gaza come Tanya Haj-Hassan,
Mark Perlmutter e Feroze Sidhwa.
Se durante la pandemia medici e infermieri in prima linea erano stati
giustamente considerati eroi, l’abnegazione e il coraggio mostrati dai
professionisti della salute e dai volontari sanitari a Gaza rappresentano un
esempio di eroismo senza precedenti.
L'articolo Un appello per Gaza: liberate il dottor Abu Safiya e tutti gli altri
operatori sanitari ostaggi di Israele proviene da Il Fatto Quotidiano.