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Il ‘Sistema Sorrento’ protetto dal patron del settimanale locale: “Assunzioni e mazzette in cambio di buona stampa”
Contratti, assunzioni e mazzette in cambio di ‘buona stampa’ sul settimanale ‘Agorà’, una sorta di house organ del ‘Sistema Sorrento’. Dai verbali inediti delle indagini sullo scientifico meccanismo di corruzione intorno agli appalti messo in piedi dall’ex sindaco Massimo Coppola, emerge il ruolo complice e asservito dell’informazione locale su carta. Il cui dominus era Francesco Di Maio, giornalista pubblicista, arrestato il 20 maggio insieme a Coppola in flagranza di reato, mentre intascavano l’ultima rata delle tangenti dell’imprenditore di Prisma Michele De Angelis. Di Maio è stato il principe del giornalismo-propaganda in costiera sorrentina, in qualità di direttore di fatto e patron di ‘Agorà’, settimanale con prezzo di copertina un euro e 20 centesimi, molto diffuso nelle edicole della zona sin dalla nascita, avvenuta negli anni ‘90. Forte di questa fama consolidata nel tempo, Di Maio bussava alle porte dei sindaci e delle amministrazioni comunali di Sorrento, Piano di Sorrento e Sant’Agnello, proponendosi per collaborare nelle istituzioni locali. Ufficialmente, come esperto di giornalismo e comunicazione. Ufficiosamente, nel pacchetto c’era anche la certezza che su ‘Agora’ ci sarebbe stato un trattamento di favore. Altrimenti, potevano partire campagne ostili. Dal 2022 fino all’arresto, Di Maio ha lavorato nello staff di Coppola con un part time di 18 ore a settimana. L’ex sindaco spiega come e perché avvenne il matrimonio in uno stralcio del verbale dell’11.9.25, depositato dalla Procura di Torre Annunziata con la conclusione delle indagini del filone ‘Prisma’, e il rinvio a giudizio immediato dei due imputati. “Di Maio – ha affermato Coppola – mi fece capire che, per avere una linea editoriale a mio favore, doveva ricevere delle gratificazioni come successe a Piano di Sorrento quando, sotto l’amministrazione Iaccarino, venne assunto al Comune per redigere articoli in favore dell’amministrazione”. Detto, fatto. Per tre anni ‘Agorà’ canterà le lodi del ‘supersindaco Coppola’, virgolettato attribuito sul settimanale al magnate di Msc Gianluigi Aponte in una delle sue rare trasferte a Sorrento. Di Maio è una delle concause del primo arresto di Coppola. È stato l’intermediario dell’accordo indebito tra l’ex sindaco e Michele De Angelis, ricevendo una fetta della torta, il 30% delle tangenti. Di Maio e De Angelis erano amici. L’imprenditore era una specie di ‘editore occulto’ di Agorà – anche se lui ha negato davanti agli inquirenti – aveva fornito a Di Maio la stampante per produrre il giornale, ne ricaricava i toner, pagava il giornalista per consulenze editoriali, fatturate, che in pratica servivano a ottenere articoli favorevoli all’immagine della sua coop specializzata in refezioni scolastiche. De Angelis, pur minimizzando, ha confermato la circostanza nell’interrogatorio del 3.6.25: “Io ho chiesto (a Di Maio, ndr) ogni tanto di pubblicare qualche articolo sull’azienda o di prendere le mie difese se qualcuno attaccava la mia ditta, ma ho sempre pagato per questi servigi e questi servigi Di Maio li faceva a tutti”. Agorà era un giornale al servizio dei protagonisti della Tangentopoli sorrentina. Ha cessato le pubblicazioni con l’arresto di Di Maio. Che, par di capire dalla stenotipia dell’interrogatorio di garanzia del 23.5.25, sul bancone della merce in vendita per i politici locali non metteva solo la promessa di stampa a favore, ma anche quella di non avere stampa ‘contro’. Forse faceva più paura questo. Giudice Emanuela Cozzitorto: Quindi lei entra nello staff del sindaco per evitare in qualche modo… Per farle… ? Di Maio: Tenendo conto del peso specifico del giornale. Giudice: Del giornale… Quindi diciamo, il sindaco la mette nel suo staff per evitare che lei pubblicasse articoli infamanti nei suoi confronti, ho capito bene? Di Maio: Stiamo a posto. L'articolo Il ‘Sistema Sorrento’ protetto dal patron del settimanale locale: “Assunzioni e mazzette in cambio di buona stampa” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Femminicidi, com’è cambiata la narrazione della cronaca: articoli più aderenti, ma persistono distorsioni
Come è cambiata la narrazione della cronaca nei casi di femminicidio? Dopo anni di sensibilizzazione e formazione da parte delle attiviste dei Centri antiviolenza e di GiULIA, i giornalisti e le giornaliste hanno acquisito maggiori competenze e letture più aderenti alla realtà del fenomeno ma ancora persistono distorsioni, pregiudizi o stereotipi. E’ stato presentato recentemente il nuovo report dell’Osservatorio Step, curato da Flaminia Saccà. Un precedente report Step che analizzava 16.715 articoli negli anni 2017, 2018 e 2019 aveva rilevato “una rappresentazione distorta, permeata da pregiudizi tendenti a vittimizzare le donne e ad attenuare le responsabilità dei colpevoli”. Ora il progetto ha prodotto una nuova ricerca con l’analisi di 2350 articoli pubblicati su 26 testate. Se si confrontano i dati del Ministero degli Interni sui crimini contro le donne e si fa una comparazione col numero degli articoli che sono stati analizzati, emerge una discrepanza: le denunce per maltrattamenti familiari rappresentano il 51,7% delle denunce eppure gli articoli che trattano di violenza domestica sono solamente il 16% degli articoli. Accade il contrario con le uccisioni delle donne che rappresentano lo 0,3% dei crimini ma che sono stati raccontati nel 33% degli articoli. C’è una maggiore narrazione sulla violenza sessuale rispetto alle denunce (18% contro il 13,7%) e minore rispetto allo stalking (34,3% degli atti persecutori commessi, contro un 7% degli articoli analizzati che ne parlano). Si scrive ancora poco e male di violenza domestica, spesso raccontata come conflitto o lite, senza che siano considerate le disparità di potere e le asimmetrie che sono alla base della violenza domestica. Anche se si scrive meno di raptus, la descrizione della violenza è ancora presente come perdita improvvisa di controllo del maltrattante (34% degli articoli analizzati) così come persiste l’himpaty, la narrazione empatica nei confronti dell’autore di violenza. I media, riporta la ricerca Step, continuano ad attenuare la responsabilità maschile attraverso strategie narrative tese ad individuare il dolore dell’uomo come possibile chiave interpretativa del femminicidio. È il trionfo dei frame che esonerano da responsabilità: “era fragile”, “era disperato”, “non dormiva”, “l’amava troppo”. E’ evidente che tale narrazione distorce i fatti ed evita di focalizzare l’attenzione sulla storia e le dinamiche che hanno portato al femminicidio, ponendo l’attenzione solo nei momenti che precedono il compimento del crimine. Il risultato è una rappresentazione che sposta lo sguardo dalla violenza alla sofferenza dell’uomo che l’ha commessa. Si tratta di una suggestione che attenua le responsabilità degli autori di violenza. La ricerca rileva anche l’alternanza di himpaty e mostrificazione dell’autore di violenza. La rappresentazione del femminicida cambia a seconda dell’età delle vittime. Nei casi che riguardano donne anziane, disabili o malate, la violenza viene presentata come conseguenza della patologia della vittima, trasformando il femminicidio in un gesto altruistico, una sorta di epilogo pietoso di una storia di sofferenza condivisa. L’uomo “non regge”, “non sopporta più”, “è stremato dalla malattia della moglie” mentre la donna viene ridotta alla sua condizione clinica e scompare come persona: non ha voce, identità e resta sullo sfondo della narrazione come problema, contesto, peso se non come origine della sofferenza del partner. Questa narrazione non è affatto oggettiva perché dà un senso al gesto dell’uomo, lo rende comprensibile e quasi inevitabile. È un dispositivo culturale che protegge il colpevole e cancella la vittima. Invece, nei casi che coinvolgono bambine e giovanissime vittime di padri o patrigni, la rappresentazione tende a essere più dura nel giudizio, più esplicita, meno ambigua. L’offender è definito come tale e la violenza è chiamata con il suo nome. Il racconto non indulge in attenuanti psicologiche ma avviene una deumanizzazione dell’autore di violenze descritto come “orco” o “mostro”. La risposta è amara ma evidente: le giovanissime non possono essere accusate di nulla. Non possono “aver fatto arrabbiare”, “essere state ambigue”, “aver rifiutato un abbraccio”, “aver voluto lasciare” il loro aggressore o essere “un peso”. Le bambine hanno il diritto di essere protette e curate, le anziane no. Un altro dato, forse il più inquietante dal punto di vista mediatico rilevato nella ricerca, è che il 76% degli articoli che danno voce all’offender riporta direttamente la sua versione dei fatti (“mi faceva dormire sul tappeto”, “mi aveva detto che si era iscritta ad un sito di appuntamenti”). La vittima è stata uccisa e ovviamente non ha più possibilità di parola ma la sua testimonianza indiretta viene riportata da terzi solo nel 58% dei casi. Questo squilibrio non è un solo dettaglio statistico: significa che l’informazione continua a costruire il racconto dal punto di vista dell’uomo che ha agito violenza, mentre la donna resta sullo sfondo, evocata, ricostruita, interpretata. Il caso Montefusco, citato nel report, è emblematico. La giustificazione del “blackout emozionale” – una categoria inesistente nei manuali di psicologia e negata dagli psichiatri – è il simbolo perfetto di un modo di raccontare e giudicare la violenza che cerca l’eccezione per non riconoscere la regola. Se ogni uomo che uccide è fragile, innamorato, disperato, affaticato, instabile, allora la responsabilità individuale svanisce. E resta un’unica conseguenza culturale possibile: la violenza diventa un fatto spiegabile, comprensibile, quasi normale. In conclusione, la situazione va in lento miglioramento ma c’è molto da fare. La scelta di dare voce all’offender, di cercare attenuanti emotive, di trasformare un femminicidio in un “dramma della disperazione” continua a resistere nella cronaca nera o giudiziaria influenzando la percezione del disvalore dei crimini contro le donne. Se da una parte il femminicidio viene raccontato come un dramma legato alla sofferenza o all’amore, e dall’altra come atto mostruoso e circoscrivibile ad eccezioni mostruose o a devianza, viene meno la lettura della violenza maschile contro le donne come fenomeno sociale e strutturale. Persiste una rimozione della violenza nelle sue molteplici manifestazioni. Finché continueremo a raccontare la violenza maschile attraverso lo sguardo di chi la esercita, non potremo mai combatterla davvero. L'articolo Femminicidi, com’è cambiata la narrazione della cronaca: articoli più aderenti, ma persistono distorsioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Morto Domenico Mugnaini, direttore di Toscana Oggi ed ex colonna dell’Ansa di Firenze. Cordoglio di giornalisti e politica
Una volta gli chiesero come sta cambiando il giornalismo. Lui, avvertendo dei rischi di andare dietro alla fretta del ritmo dei social, raccontò un aneddoto di quando era corrispondente del Popolo, il giornale della Democrazia Cristiana: “A Coltano venne Ciriaco De Mita. Uno dei colleghi delle agenzie gli chiese: che fa presidente, torna a Roma? Lui si fermò, si voltò e rispose: sì, vado a dimettermi. Successe davvero poche ore dopo. Io ero un giovane corrispondente e fui aiutato dai più esperti, ma i colleghi delle agenzie dovettero cercare un telefono a 4 km di distanza”. Domenico Mugnaini era rimasto sempre cronista: per lui comandava la notizia e infatti arrivava sempre primo, raccontano colleghi e amici. Da sei anni era direttore di Toscana Oggi, il settimanale delle Diocesi toscane. E’ morto oggi a 65 anni, da tempo era malato. Dodo, così lo chiamava chi lo conosceva meglio, lascia la moglie Barbara e i figli Andrea e Giovanni. Carattere forte, pragmatico, di rara concretezza dal punto di vista professionale, iscritto all’Ordine già dal 1987, Mugnaini aveva iniziato a muovere i primi passi nel giornalismo proprio con Toscana Oggi. Corrispondente per Il Popolo dal 1987 al 1994, collaboratore di Avvenire, aveva svolto il praticantato a La Gazzetta di Firenze tra il 1989 e il 1991. Dal 1990 aveva iniziato la collaborazione con l’agenzia Asca. Dopo una collaborazione con il Gr2 Rai, dal 1993 al 1999 è stato caporedattore per la Cecchi Gori Comunications, guidando la redazione giornalistica di Canale 10. Dal 1999 al 2002 ha lavorato all’ufficio stampa del Comune di Firenze, nel 2002 è diventato redattore dell’agenzia Asca di Firenze. Nel 2004 è entrato come redattore nella sede Ansa di Firenze, di cui nel 2018 è stato nominato caposervizio aggiunto. Durante gli anni all’Asca e poi all’Ansa si è occupato principalmente politica ed economia, oltre alle grandi inchieste di cronaca nera e giudiziaria, come il processo per il mostro di Firenze, la Strage dei Georgofili, il naufragio della Costa Concordia e soprattutto, sin dal 1990, alle vicende legate alla banca Monte dei Paschi. Ha anche curato, nel 2015, l’ufficio stampa per la visita di Papa Francesco a Firenze e dal 2017 era nel cda dell’Opera di Santa Maria del Fiore mentre tra il 2019 e il 2022 è stato consigliere della Scuola di Arte Sacra di Firenze. Era anche consigliere della Fisc, la federazione che riunisce i settimanali cattolici d’Italia. Nel 2023 aveva ricevuto il premio giornalistico Pirovano-Liverani, organizzato dal Movimento per la Vita “per il suo impegno in difesa della vita”. “Firenze perde oggi una voce autorevole del mondo dell’informazione – dichiara la sindaca di Firenze Sara Funaro – capace di raccontare la nostra città e la nostra regione con rigore, passione e senso civico. Competenze che ha sempre dimostrato in tutte le sue tappe professionali”. “Un percorso in cui si è sempre contraddistinto come profondo conoscitore delle istituzioni e interlocutore attento e preparato, offrendo sempre con il suo lavoro un contributo prezioso al dibattito pubblico e alla crescita culturale della comunità” ha concluso la sindaca, che ha espresso la vicinanza alla famiglia e ai colleghi. Cordoglio anche da parte di Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, anche lui fiorentino. “Con Domenico Mugnaini se ne va un pezzo di Firenze, un uomo che è stato punto di riferimento per generazioni di cronisti e di politici, con la sua capacità unica di interpretare il ruolo di giornalista nel rapporto con le istituzioni – dichiara Donzelli -. Dodo era una persona franca e diretta, con cui ci si poteva confrontare in modo aperto: rappresentava per tutti un’istituzione, a prescindere dal modo di vedere le cose e il mondo. La sua perdita ci provoca un gran dolore, condoglianze alla famiglia e alle tantissime persone legate a lui per essere stato un riferimento nella loro vita o professione”. “Domenico era speciale – commenta Giampaolo Marchini, presidente dell’Ordine dei giornalisti toscani – Non solo è sempre stato un giornalista attento e scrupoloso ma anche e soprattutto una persona dalla profonda umanità, un punto di riferimento per tanti. Siamo tutti un pò più soli”. I funerali saranno nella cattedrale sabato 22, alle 10. A renderlo noto l’Opera di Santa Maria del Fiore col presidente Luca Bagnoli e i componenti del Consiglio di amministrazione (di cui Mugnaini faceva parte) e tutti i dipendenti. “In questi anni – si legge in una nota – ha contribuito in maniera significativa e appassionata alla crescita e allo sviluppo dell’Opera di Santa Maria del Fiore”. “Ha rivestito un ruolo centrale e di grande rilievo per la Chiesa fiorentina – prosegue il comunicato – e per il cattolicesimo toscano attraverso il suo impegno nel giornalismo e in incarichi istituzionali. Nel 2015 ha curato l’ufficio stampa per la visita di Papa Francesco a Firenze, collaborando per l’organizzazione di un evento che ha segnato la vita fiorentina e la vita della Chiesa italiana”. L'articolo Morto Domenico Mugnaini, direttore di Toscana Oggi ed ex colonna dell’Ansa di Firenze. Cordoglio di giornalisti e politica proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il Brand Journalism Festival 2025 riaccende il dialogo tra informazione e impresa
Una rottura necessaria, un imperativo categorico. La seconda edizione del Brand Journalism Festival, promosso da Social Reporters, ha imposto un dibattito radicale sul panorama mediatico e imprenditoriale, evidenziando l’urgenza ineludibile di un nuovo patto tra informazione e impresa. L’evento, intitolato “Oltre la polarizzazione: un nuovo patto tra informazione e impresa”, si è configurato come un momento di profonda analisi, chiamando a ridefinire il ruolo del racconto aziendale. L’obiettivo non è più solo comunicare, ma costruire un dialogo basato su autenticità, competenza e senso di verità, superando la logica del “giornalismo contro” e del mero “comunicato patinato“. Il Festival ha evidenziato ancora una volta che il dialogo tra chi produce contenuti e chi produce valore non è una scelta, ma una necessità culturale e professionale per la tenuta del tessuto sociale. La seconda edizione ha registrato oltre 200 presenze e più di 500 adesioni complessive, a conferma dell’interesse crescente verso un approccio autentico e responsabile alla comunicazione. In un contesto di overload digitale, dove sono soprattutto i giovani a cercare significato – come evidenziato anche dai risultati dell’Osservatorio GenerationShip 2025 di Unipol – il Brand Journalism si afferma come un atto culturale di responsabilità, indispensabile per restituire verità al racconto e consapevolezza al pubblico. Nel corso della giornata è stata presentata anche la ricerca di Ipsos “Politica e comunicazione al tempo del Fact-Checking” – realizzata proprio in collaborazione con il Brand Journalism Festival – che ha fornito un quadro limpido delle sfide attuali. L’indagine ha messo in luce una fiducia nell’informazione fragile e frammentata: il 64% degli italiani ha dichiarato una diminuzione della propria fiducia nelle fonti negli ultimi cinque anni. Il dato più critico è la percezione di manipolazione: il 54% degli intervistati ritiene che le notizie veicolate dai media siano spesso intenzionalmente distorte per sviare il pubblico. Questo clima di sospetto è acuito dalla tendenza a chiudersi in “eco-chambers” politiche, con il 55% degli italiani che parla principalmente con persone dalle opinioni politiche affini. Di conseguenza, gli orientamenti politici sono vissuti innanzitutto come elemento identitario, di natura “clanica”, con il voto basato sulla generica vicinanza o sulla logica oppositiva, piuttosto che su valutazioni razionali. In questo scenario un ruolo cruciale lo gioca il Brand Journalism: su ambiti tematici come innovazione tecnologica o campagne di sensibilizzazione su temi sociali e ambientali, le aziende iniziano ad essere percepite come fonti potenzialmente affidabili. “Il Brand Journalism, quando è autentico, non è marketing mascherato, ma un atto culturale di responsabilità”, ha dichiarato Ilario Vallifuoco, curatore e fondatore del Festival. “Significa che un’impresa sceglie di interpretare il proprio tempo, di raccontare non solo se stessa ma il contesto in cui opera, con linguaggi e strumenti giornalistici. In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale produce contenuti e le piattaforme amplificano tutto, il valore sta nel senso, non nella quantità”. Con lo sguardo già proiettato al futuro, il Brand Journalism Festival svela le prime anticipazioni sull’edizione 2026: un laboratorio permanente in cui il racconto d’impresa si trasformerà in autentica sperimentazione culturale. Il dialogo dunque si trasforma in strumenti di lavoro concreti per generare fiducia, senso e impatto in ogni storia raccontata. L’appuntamento è già segnato: un anno per prepararsi a scrivere, insieme, le nuove frontiere del giornalismo d’impresa. L'articolo Il Brand Journalism Festival 2025 riaccende il dialogo tra informazione e impresa proviene da Il Fatto Quotidiano.
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E’ morta a 56 anni la giornalista Rachel Cooke: “Un cancro diagnosticato a inizio anno se l’è portata via, trattava qualsiasi argomento con rigore assoluto e infinita curiosità”
Rachel Cooke è morta. La celebre giornalista tuttologa, con la passione per i temi culinari, del The Observer, aveva soltanto 56 anni. Se l’è portata via un cancro diagnosticatole soltanto ad inizio 2025. Il mondo del giornalismo britannico è in lutto e sta pagando un sincero tributo nelle ultime ore che sta traboccando anche sui social. “Qualsiasi argomento affrontasse, dal più leggero al più impegnativo, Rachel lo trattava con rigore assoluto e infinita curiosità. Sia che le chiedessi qualcosa di frivolo – una volta la mandai a provare il botox – sia che dovesse intervistare una figura potentissima, trovava sempre la storia”, ha ricordato ad esempio l’ex direttrice del Times, Nicola Jeal. Cooke si era innamorata del giornalismo fin da bambina. La sua fonte ispiratrice fu Katharine Whitehorn, pioniera di un femminismo brillante e impertinente, tanto che nel 2013 uscì il suo primo libro dedicato all’universo femminile: “Her brilliant career” con sottotitolo “Dieci donne straordinarie degli anni cinquanta”. Tra queste Cooke aveva raccontato la storia della regista Muriel Box, dell’esperta di piante Margery Fish, della scrittrice culinaria Patience Gray e della pilota di rally Sheila van Damm. Figlia di un biologo, aveva passato l’infanzia in Israele, dove frequentò una scuola della Chiesa di Scozia a Jaffa, dove arabi ed ebrei studiavano insieme. Celebre uno dei suoi reportage amarcord dove descriveva i momenti in cui da bambina scambiava i KitKat con il pane caldo con za’atar dei compagni locali. “Il cibo come ponte tra persone, come forma di comunità: un’idea che non l’ha mai lasciata”, ricordano i colleghi. “Aveva cultura, autorevolezza, mordente, humour, e un’energia inesauribile di idee. Nonostante scrivesse più di centomila parole all’anno, trovava comunque il tempo di leggere e vedere tutto. Era una fuoriclasse”, ha ricordato Jane Ferguson sua collega al New Review. Rachel non solo sapeva fare tutto come giornalista (tra gli ultimi pezzi quello sull’incoronazione di Carlo), ma lo faceva meglio e più velocemente di chiunque altro”. > View this post on Instagram > > > > > A post shared by The Observer (@theobserveruk) L'articolo E’ morta a 56 anni la giornalista Rachel Cooke: “Un cancro diagnosticato a inizio anno se l’è portata via, trattava qualsiasi argomento con rigore assoluto e infinita curiosità” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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