Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha lanciato un duro monito
alla comunità internazionale sulla guerra civile che sconvolge lo Yemen da oltre
dieci anni. Milioni di cittadini della nazione mediorientale, ha ricordato
l’ICRC, hanno perso la casa e continuano ad essere sottoposti a violenze e
privazioni economiche mentre l’attenzione della comunità internazionale si
concentra su altre aree del mondo. Oltre 19 milioni di yemeniti hanno bisogno di
assistenza umanitaria, l’83 per cento della popolazione del Paese vive in
condizioni di povertà ed i servizi pubblici sono al collasso. La grave crisi
dello Yemen non riceve, però, l’attenzione che meriterebbe da parte della
comunità internazionale e le grandi potenze hanno mostrato disinteresse oppure
sono intervenute nel conflitto trasformandolo in una guerra per procura contro i
rivali regionali.
Le origini della guerra civile sono legate alla Primavera Araba ed alle
dimostrazioni popolari che nel 2011 costrinsero alle dimissioni l’allora
presidente Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1978 ed a capo di un regime
autoritario. Saleh era riuscito, nel corso dei decenni, a forgiare alleanze con
Arabia Saudita, Iran e Stati Uniti, a tenere a bada gli islamisti radicali e ad
evitare che un Paese diviso da appartenenze tribali si disgregasse. Il suo
regime non aveva, però, migliorato le condizioni di vita degli yemeniti, i più
poveri del Medio Oriente. Il malcontento popolare aveva spinto milioni di
persone a chiedere le dimissioni di Saleh, ottenute al prezzo di un grande
spargimento di sangue. A succedergli era stato il vice-presidente Abd Rabbu
Mansour Hadi, che non era riuscito a frenare un ulteriore peggioramento
dell’economia.
Nel 2014 gli Houthi, un movimento sciita yemenita legato all’Iran e ostile nei
confronti del governo sunnita, avevano conquistato la capitale Sana’a e le
regioni nord-occidentali costringendo Hadi alla fuga. Nel 2015 l’Arabia Saudita
era intervenuta contro gli Houthi con bombardamenti aerei ed un blocco navale
dando al conflitto un respinto internazionale. Riyadh e gli altri Stati sunniti
del Golfo si sono schierati con il governo, riconosciuto a livello
internazionale, di Hadi e basato nell’Est dello Yemen, l’Iran ha appoggiato gli
Houthi nel tentativo di espandere la propria influenza nella regione. Il
collasso del governo ha consentito ai terroristi legati ad Al-Quaeda di
allargare il controllo su diverse aree del Paese. Washington, preoccupata da
questo sviluppo, ha condotto una campagna anti-terrorismo pluriennale contro
Al-Qaeda fatta di bombardamenti aerei e limitate operazioni di terra con
l’esercito yemenita. Queste operazioni hanno indebolito i terroristi ma non li
hanno sradicati. Le operazioni americane hanno avuto una mera funzione di difesa
degli interessi di sicurezza nazionale ma non di risoluzione del conflitto. A
complicare il ginepraio yemenita c’è stata anche la nascita del Consiglio di
Transizione Meridionale (STC), una formazione separatista appoggiata dagli
Emirati Arabi Uniti che controlla il Sud e punta all’indipendenza della regione
pur avendo un rapporto ambivalente con le forze di Hadi.
La guerra civile, dopo una prima fase più dinamica, si è arenata trasformandosi
in un conflitto senza via d’uscita. Nessuna fazione ha la forza necessaria per
sconfiggere militarmente gli avversari e le potenze regionali non hanno
interesse a porre fine ad uno scontro che drena energie e finanziamenti ai
rivali. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Iran muovono come pedine le
fazioni alleate sperando di indebolire gli avversari regionali mentre le
iniziative di pace sono osteggiate dalle divisioni tribali, religiose e
politiche tra gli attori in campo. Il resto del mondo, invece, si accorge
dell’esistenza dello Yemen solamente quando emergono minacce per la sicurezza
nazionale, come ricordano i recenti bombardamenti israeliani contro gli Houthi
oppure per l’economia globale. La nazione mediorientale, infatti, è affacciata
sul Mar Rosso e riveste un ruolo chiave per la sicurezza del transito di navi
mercantili dirette o provenienti dal Canale di Suez.
La situazione di stallo della guerra civile ha accentuato il dramma umanitario
vissuto dai civili. Le campagne di bombardamenti aerei condotte dall’Arabia
Saudita hanno ucciso oltre 24mila yemeniti. Tutte le fazioni in campo hanno
commesso gravi abusi dei diritti umani, ricorrendo alla fame come strumento di
pressione mentre centinaia di migliaia di persone, le Nazioni Unite le avevano
stimate a 400mila nel 2020, hanno perso a causa del conflitto. Scuole ed
ospedali operano in condizioni di estrema precarietà e senza l’assistenza di un
governo funzionante. La diffusione di malattie infettive come il colera ed il
drammatico dato sulla salute dei bambini, con poco meno della metà di chi ha
meno di 5 anni afflitto da rachitismo o malnutrizione acuta, completa il quadro
di una delle più gravi crisi umanitarie al mondo, probabilmente destinata a
proseguire tra l’indifferenza internazionale.
L'articolo Yemen, il dramma dimenticato: la Croce Rossa richiama l’attenzione
sulle conseguenze di 10 anni di guerra civile proviene da Il Fatto Quotidiano.
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I jet da combattimento F-35 venduti ai sauditi. Ma non subito. L’annuncio fatto
dal presidente Trump in occasione della visita del principe ereditario bin
Salman avrà i suoi effetti commerciali; ma dal punto di vista tecnico e
militare, ci vorranno le modifiche necessarie ai caccia prima di consegnarli a
Ryad.
In altre parole, l’Arabia Saudita rispetto al potenziale della macchina da
guerra dovrebbe rimanere inferiore agli Stati Uniti e, soprattutto a Israele
secondo quello che si chiama “vantaggio militare qualitativo”. La precisazione è
arrivata dai funzionari americani in base ai timori dello Stato ebraico; Tel
Aviv vuole sì normalizzare i rapporti con i vicini arabi attraverso gli accordi
di Abramo, ma non vuole ritrovarsi in inferiorità tecnologica e militare, visto
che quella numerica apparirebbe scontata dinanzi a una coalizione ostile.
Dal punto di vista legale, una legge assicura agli Stati Uniti di mantenere i
jet più sofisticati rispetto a quelli venduti ai vari acquirenti, ma Israele ha
permessi speciali per aggiornare gli armamenti e i radar dei caccia, senza dover
chiedere permesso a Washington. Nonostante ciò, quando il presidente Trump ha
annunciato la vendita degli F-35 a Ryad, da Israele si sono levati mugugni
legati al timore di perdere la superiorità aerea nella regione. Ma gli americani
hanno dato rassicurazioni: come riporta Reuters, Douglas Birkey, direttore
esecutivo del Mitchell Institute for Aerospace Studies ha escluso che gli aerei
in vendita ai sauditi potranno avere il missile tattico Aim-60 JATM, arma
aria-aria dedicata ai jet di quinta generazione con una gittata di 190
chilometri.
Ci sono poi i sistemi-radar, per cui gli F-35 dedicati a Ryad monterebbero dei
software meno aggiornati. Infine, c’è lo scoglio del Congresso, che deve
approvare questa transazione con il Paese arabo. Appare improbabile che le due
Camere possano raggiungere una maggioranza di due terzi per superare il decreto
presidenziale, ma tutto può accadere. Dunque, Ryad avrà i suoi F-35, ma ci vorrà
tempo: al principe bin Salman sono stati promessi due squadroni – dai 12 ai 24
jet – ma Israele ne ha già due operativi ed è pronta ad ottenerne un terzo.
Inoltre, l’aviazione israeliana utilizza gli F-35 da otto anni, ed ha un
vantaggio in termine di esperienza.
Tuttavia, Tel Aviv è preoccupata e non lo nasconde. La portavoce del governo
israeliano, Shosh Bedrosian ha ribadito: “Stati Uniti ed Israele hanno un’intesa
di lunga data, secondo cui Israele mantiene il vantaggio qualitativo in termini
di difesa”. C’è poi un altro aspetto da non trascurare, ed è l’ombra della Cina.
Durante il primo mandato, Trump aveva intenzione di vendere gli F-35 agli
Emirati, e quest’ultimi divennero il primo Stato arabo a normalizzare in 26 anni
i rapporti con Israele. Ma la vendita con il presidente Joe Biden si arenò a
causa dei rapporti sempre più stretti dal punto di vista militare tra Emirati e
Cina, perchè Washington temeva che i segreti del suo caccia potessero essere
esplorati dal Dragone. Dal canto suo, Abu Dhabi rifiutò le restrizioni operative
che voleva imporre la Casa Bianca. Anni dopo, Trump ci riprova, stavolta con
l’Arabia Saudita: gli affari sono affari. A Gerusalemme, non sono pochi i
malumori verso il premier Netanyahu. La Cnn ha citato l’ex generale Gadi
Eisenkot, molto stimato nel suo Paese sia dal punto di vista politico – ha fatto
parte dell’opposizione al governo di King Bibi – che sul piano militare.
Eisenkot ha criticato l’accordo prendendosela con il primo ministro: “Netanyahu
ha perso la capacità di difendere gli interessi nazionali di Israele”.
L'articolo Il senso di Trump per gli affari con gli F-35: vendere i caccia
all’Arabia saudita ma non scontentare Israele proviene da Il Fatto Quotidiano.
Anche Cristiano Ronaldo era presente alla cena esclusiva alla Casa Bianca, che
ha riunito alcuni dei nomi più influenti a livello mondiale in diversi campi,
dallo sport alla tecnologia. Una cena organizzata da Donald Trump per accogliere
il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, tornato negli Stati Uniti
per la prima volta dall’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal
Khashoggi, per il quale era stato accusato proprio Bin Salman.
Un evento esclusivo, a cui appunto era presente anche Cristiano Ronaldo, seduto
non distante dal punto in cui Donald Trump ha tenuto il suo discorso in cui ha
ringraziato anche il campione portoghese e si è detto “onorato” per la sua
presenza: “Mio figlio Baron è un tuo grande fan. Credo che ora rispetterà un po’
di più suo padre, solo per il fatto che gliel’ho presentato”, ha scherzato Trump
rivolgendosi al calciatore dell’Al Nassr.
La presenza di Cristiano Ronaldo non era infatti casuale. Il portoghese – da
quando nel 2022 si è trasferito a giocare in Arabia Saudita – è ambasciatore
della Saudi Pro League all’estero e si è trasformato nel simbolo della spinta
alla modernizzazione del paese. In più, nel 2026 il Mondiale si svolgerà proprio
tra Stati Uniti, Canada e Messico e sarà l’ultima volta di Cristiano Ronaldo
nella massima competizione per nazionali a livello internazionale. Ecco perché
CR7 ha partecipato alla cena esclusiva e faceva parte – insieme alla compagna
Georgina Rodriguez – dei cento invitati presenti all’evento organizzato da
Donald Trump.
Tra gli altri erano presenti anche Elon Musk, David Ellison (nuovo presidente
della Paramount), Gianni Infantino (presidente della Fifa) e Tim Cook,
amministratore delegato di Apple. L’incontro ha creato grande attenzione
internazionale grazie alla presenza simultanea di leader del settore
tecnologico, dello sport e dell’intrattenimento.
Dal canto suo, è ormai noto l’utilizzo dello sport e del calcio nello specifico
da parte di Donald Trump per i suoi scopi politici. La sua amicizia con il
presidente Gianni Infantino è cosa nota e negli scorsi mesi i due non hanno
fatto nulla per non finire insieme sotto i riflettori: dall’incontro con la Juve
durante il Mondiale per Club fino alla cerimonia di premiazione del Chelsea dopo
la vittoria della competizione, passando per la presenza di Infantino a Sharm
el-Sheikh durante l’incontro tra i più importanti leader mondiali per suggellare
l’accordo di tregua a Gaza e il premio per la pace della Fifa che sembra fatto
su misura per il tycoon.
Infantino ha infatti un ruolo sempre più influente nell’asse che lega Trump e i
Paesi arabi del Golfo. Un legame quasi smaccato, se si pensa che Infantino ha
fatto traslocare il quartier generale della Fifa dalla Svizzera alla Trump
Tower. Senza dimenticare appunto il primo Mondiale per Club giocato quest’estate
proprio negli Usa – con tanto di trofeo originale regalato a Trump ed esposto
alla Casa Bianca – e il Mondiale 2026 che si terrà come detto sempre negli Stati
Uniti, oltre a Canada e Messico.
L'articolo Cristiano Ronaldo a cena con Musk, Infantino e Bin Salman alla Casa
Bianca. Trump lo ringrazia: “Ora mio figlio mi rispetterà un po’ di più”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
“A molte persone non piaceva quel signore di cui stai parlando, che ti piaccia o
no, sono cose che succedono”. Quel signore, come lo chiama il presidente degli
Stati Uniti Donald Trump, era Jamal Khashoggi, giornalista dissidente rispetto
alla casa reale saudita, che attaccava il governo anche dalle pagine del
Washington Post. Il 2 ottobre 2018, Khashoggi fu attirato all’interno del
consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia. Ad attenderlo c’erano
uomini dei servizi di sicurezza di Ryad. Il giornalista sparì nel nulla,
probabilmente fatto a pezzi. La Cia, dopo una sua inchiesta, giunse alla
conclusione che Mohamed bin Salman era stato il mandante di quel delitto.
Ma nello Studio Ovale della Casa Bianca, questa storia viene riletta. Trump
afferma sicuro che l’amico bin Salman “ha fatto un lavoro incredibile in materia
di diritti umani” e redarguisce una giornalista della Abc che pone domande, a
parere del presidente, imbarazzanti per l’ospite. Poi, riferendosi a Khashoggi:
“Era estremamente controverso. Molti non lo amavano; che ti piacesse o meno,
succedono delle cose. Ma Mbs non ne sapeva nulla e possiamo chiuderla qui. Non
devi mettere in imbarazzo il nostro ospite”. A sua volta, il principe ereditario
afferma che il suo Paese “ha compiuto tutti i passi giusti” per indagare
sull’uccisione del giornalista e che quel delitto è stato “un grosso errore”. Di
chi, bin Salman però non lo sottolinea, tornando a battere su una ricostruzione
già proposta. Quella che portò alla morte del giornalista fu una “operazione non
autorizzata”.
Durante l’incontro, bin Salman ha toccato altri temi: ha assicurato a Donald
Trump che aumenterà gli investimenti negli Stati Uniti a 1.000 miliardi di
dollari e per quel che riguarda la crisi in Medio Oriente, il principe
ereditario dice così: “Crediamo che avere buone relazioni tra i Paesi del Medio
Oriente sia positivo. Vogliamo essere parte degli Accordi di Abramo. Ma vogliamo
anche essere sicuri che ci sia un percorso chiaro verso una soluzione a due
Stati”, riferendosi a un possibile Stato Palestinese. Trump gongola: “Non voglio
dire di aver incassato un impegno, ma abbiamo avuto una buona discussione, a
breve ne parleremo ancora. Ma penso che Mbs abbia sensazioni positive verso gli
Accordi di Abramo”. Infine, ancora un battibecco con la Abc; il presidente
americano nega che ci sia un conflitto di interessi riguardante gli investimenti
della Trump Organization in Arabia Saudita: “Io non ho nulla a che vedere con le
mie aziende, basta fake news”.
L'articolo Trump “scagiona” bin Salman dall’omicidio del giornalista Khashoggi:
“Non ne sa nulla. A molte persone quel signore non piaceva” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Sono lontani i tempi in cui, dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista
saudita dissidente attirato in una trappola il 2 ottobre 2018 nella sede
diplomatica di Istanbul dai servizi segreti di Ryad, la comunità internazionale
puntava il dito contro il principe ereditario bin Salman. Atteso oggi (ore 17 in
Italia) a Washington dal presidente Trump, il leader saudita, ufficialmente,
discuterà con il capo della Casa Bianca una serie di “dossier strategici” nei
settori della difesa – con un patto sulla sicurezza – dell’energia,
dell’intelligenza artificiale. Nei giorni scorsi si è già saputo che gli Usa
intendono vendere i jet da combattimento F-35 a Ryad, facendo arrabbiare non
poco Israele. Se da un lato lo Stato ebraico ha puntato a normalizzare i
rapporti con l’Arabia saudita attraverso gli Accordi di Abramo, la storia
insegna a Tel Aviv che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio.
Quello che le note ufficiali non raccontano, sono gli altri “dossier”: gli
affari che riguardano la fortuna della famiglia Trump in ambito internazionale.
Un aspetto della collaborazione è costituito dal rapporto tra la Trump
Organization e Dar Global, filiale internazionale di Dar Al Arkan, azienda
saudita quotata a Londra: gli uffici di Dar Global a New York si trovano al 19°
piano della Trump Tower (725 Fifth Avenue). Secondo le dichiarazioni pubbliche
riguardanti le operazioni finanziarie, l’anno scorso Dar Global ha versato più
di 20 milioni di dollari in diritti di licenza alla Trump Organization.
Il settore immobiliare è centrale: a Jedda e Ryad ci sono già due nuove Trump
Towers. Sul sito https://trumptowerinjeddah.com/ si legge: “Dar Global presenta
un complesso residenziale di lusso sviluppato in collaborazione con la Trump
Organization, che offre viste panoramiche sul Mar Rosso e sul vivace skyline di
Jeddah”. Tutto ciò costituisce reato? Assolutamente no. Si tratta di un esempio
dei rapporti avviati tra due colossi imprenditoriali. Lo scorso dicembre,
durante l’inaugurazione, Eric Trump, terzo figlio di Donald, ha affermato che i
progetti in Arabia Saudita e nel Golfo continueranno ad attrarre la Trump
Organization grazie alla mentalità della regione. “Ti fa venire voglia di venire
qui e fare qualcosa di veramente grande, e in un certo senso ti fa venire voglia
di dire ‘no’ ad altri Paesi in cui è impossibile destreggiarsi nel sistema
politico”. In Arabia Saudita, a quanto pare, zero difficoltà burocratiche per
chi vuole investire.
Ma non ci sono solo i palazzi, anche il settore sportivo suscita interesse: il
golf in particolare. L’Arabia Saudita ha lanciato la LIV Golf, una lega per
competere con la PGA. Donald Trump ha ospitato nei suoi campi diversi tornei
della LIV ed ha partecipato qualche mese fa ad una cena organizzata dalla Lega
saudita a Miami. La Casa Bianca nega a ogni occasione che le iniziative
imprenditoriali della famiglia Trump siano in conflitto di interessi con
l’attività politica del presidente.
Nel gennaio 2024 i deputati democratici che fanno parte della Commissione di
vigilanza della Camera hanno presentato un dossier intitolato “La Casa Bianca in
vendita”. In questo rapporto si trovano documenti recuperati dall’ex studio
contabile di Trump, dai quali emerge che venti governi stranieri, tra cui Cina e
Arabia Saudita, hanno pagato almeno 7,8 milioni di dollari durante la prima
presidenza di Trump a entità commerciali legate alla sua famiglia, tra cui i
Trump International Hotels di Washington, DC e Las Vegas, e le Trump Towers di
New York. Nel dossier si metteva in risalto che l’Arabia Saudita avrebbe pagato
alle aziende di proprietà di Trump almeno 615.422 dollari durante il primo
mandato del tycoon: “Mentre il Regno effettuava questi pagamenti, il presidente
Trump ha scelto l’Arabia Saudita come destinazione del suo primo viaggio
all’estero, una scelta senza precedenti tra i presidenti degli Stati Uniti”.
Eric Trump ritiene che questa ricostruzione dei democratici sia “folle”, ed ha
ricordato che il padre ha donato centinaia di migliaia di dollari al
Dipartimento del Tesoro per compensare i guadagni della sua attività con entità
straniere. Infine, il terzogenito di casa Trump ha evidenziato che prima
dell’inizio del secondo mandato del padre alla Casa Bianca, la Trump
Organization ha assunto un consulente etico esterno per risolvere “potenziali
conflitti” d’interesse. Insomma, tutto a posto: oggi arriva bin Salman e non vi
è dubbio che i dossier internazionali di cui parlare, a iniziare dalla crisi del
Medio oriente, saranno numerosi.
L'articolo Trump accoglie il principe saudita bin Salman: l’intreccio tra i
dossier internazionali e le fortune della sua famiglia proviene da Il Fatto
Quotidiano.