Voleva fare uno scherzo divertente al suo collega e compagno di stanza, con cui
“erano soliti canzonarsi a vicenda“. Così, mentre fuori dalla Cassazione un
gruppo di anarchici manifestava in favore di Alfredo Cospito, il sostituto
procuratore generale della Suprema Corte Luca Tampieri ha avuto una brillante
idea: infilare in un fascicolo del vicino di scrivania – in quel momento
impegnato in udienza – un “pizzino” anonimo con gli slogan gridati dai
manifestanti. “Fuori Alfredo dal 41-bis! Il 41-bis è tortura, lo Stato stragista
non ci fa paura. Galere e tribunali non ne vogliamo più, colpo su colpo li
tireremo giù“, le frasi stampate sul foglio. Peccato che la vittima della
bravata, il sostituto pg Ettore Pedicini, si fosse occupato poche settimane
prima proprio dell’anarchico al carcere duro, depositando tre requisitorie sul
suo caso. Scoprendo il messaggio il giorno successivo, quindi, Pedicini ha preso
sul serio la finta minaccia: temendo che un malintenzionato si sia introdotto
nel suo ufficio, allerta subito i vertici del Palazzaccio, mentre un’altra
collega presente, spaventata, chiama direttamente il capo della Digos di Roma, i
cui funzionari si precipitano sul posto e iniziano a svolgere accertamenti prima
di scoprire la burla. La surreale vicenda, datata ottobre 2023, è costata a
Tampieri l’apertura di un procedimento disciplinare da parte del suo diretto
superiore, il procuratore generale della Suprema Corte: il Consiglio superiore
della magistratura ha però archiviato l’accusa con un’ordinanza depositata di
recente, parlando di “una scorrettezza dovuta a un gesto goliardico, che andava
sì evitata”, ma “si è risolta in un comportamento privo del carattere di
gravità“. Una decisione che fa infuriare il deputato di Forza Italia Enrico
Costa, fustigatore del presunto lassismo della Sezione disciplinare del Csm: “Se
non fosse tutto nero su bianco non ci si potrebbe credere”, scrive su X.
Nella sua memoria difensiva, incolpato si è scusato e ha ammesso di aver agito
“scriteriatamente“, sottolineando però di non essere stato a conoscenza del
fatto che il collega si fosse occupato del caso Cospito. Ad alimentare
l’equivoco i messaggi scambiati sulla chat dell’ufficio subito dopo la scoperta
del messaggio: in un primo momento, infatti, Tampieri è convinto che gli altri
magistrati abbiano capito la sua gag, e quindi reagisce in modo ironico alle
loro (comprensibili) preoccupazioni. “Ho chiuso la stanza”, scrive Pedicini.
Tampieri lo sfotte: “Fai indagini?“. L’altro insiste: “Sta arrivando la Digos
nella nostra stanza. Forse prelevano il mio computer“. Ma il collega continua a
ironizzare: “Spero non il mio portatile nuovo“. Solo un’ora dopo il pm burlone
viene contattato dalla vice segretaria generale della Cassazione, che gli chiede
se anche lui sia a conoscenza della vicenda. E a quel punto capisce di averla
combinata grossa: “Ragazzi scusate era uno scherzo! Era quello che martellavano
gli anarchici ieri mattina durante la manifestazione, non pensavo che si potesse
prendere sul serio“, scrive in chat. Per la Sezione disciplinare del Csm, però,
il suo comportamento non è punibile “per l’occasionalità dell’atto, l’esiguità
temporale della vicenda” e “l’esistenza di spiacevoli e obiettive coincidenze”.
“Digos, timore di minacce, ufficio in allarme, vertici allertati: tutto risolto,
procedimento disciplinare dissolto nel nulla“, accusa Costa. “Chissà se questo
provvedimento fa parte di quelli conteggiati nelle percentuali di
condanne/assoluzioni sbandierate dall’Anm o se, come immagino, ne sta fuori”,
scrive.
L'articolo Il surreale scherzo del pm di Cassazione: lascia al collega un
“pizzino” con finte minacce anarchiche. E arriva la Digos proviene da Il Fatto
Quotidiano.
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Un sistema instabile e ancora in gran parte inaffidabile che tra meno di un mese
dovrebbe gestire le attività più delicate delle indagini: le intercettazioni e
le misure cautelari. Per il terzo anno di fila, all’avvicinarsi del 1° gennaio,
tra i magistrati cresce il panico per la programmata estensione dell’obbligo di
usare App, l’ormai famigerato software per il processo penale telematico
sviluppato dal ministero della Giustizia, oggetto di continui crash e
malfunzionamenti che paralizzano le attività di tribunali e procure. Già dal 1°
aprile, almeno in teoria, App è diventato obbligatorio (dopo una disastrosa
falsa partenza a gennaio) per depositare tutti gli atti dei processi di primo
grado e per l’iscrizione delle notizie di reato, anche se in moltissimi uffici,
viste le difficoltà pratiche, si è scelto di prorogare il “doppio binario”
cartaceo-digitale. Con l’anno nuovo, però, il cronoprogramma prevederebbe
l’estensione più temuta dalle toghe: il software dovrebbe essere usato anche per
gli atti delle indagini preliminari, comprese le richieste di intercettazioni o
di arresti avanzate dai pm e i relativi provvedimenti di autorizzazione del gip.
Una prospettiva talmente rischiosa che lo stesso ministero guidato da Carlo
Nordio ha già deciso di rinviare in parte la scadenza: una bozza di decreto
inviato al Consiglio superiore della magistratura prevede il prolungamento fino
al 30 giugno del “doppio binario” per le intercettazioni, mentre per le misure
cautelari (custodia in carcere o ai domiciliari, sequestri e così via) la
proroga è fissata al 31 marzo, ma riguarda solo le impugnazioni delle misure di
fronte al Tribunale del Riesame, e non il procedimento “base” tra pm e gip.
Una toppa del tutto insufficiente secondo il Csm, che nel parere obbligatorio
approvato nella seduta di mercoledì – relatori i consiglieri togati Roberto
Fontana e Marco Bisogni – chiede al governo “un differimento temporale maggiore
e, comunque, complessivo“: i termini proposti da Nordio, infatti, garantiscono
un margine “troppo ristretto in considerazione dello stato assolutamente
embrionale delle funzionalità di App finora sviluppate per gli slot delle
intercettazioni e delle impugnazioni di competenza del Tribunale del Riesame. Va
ricordato”, sottolineano i consiglieri, “che si tratta di attività processuali
sottoposte a termini perentori, rispetto alle quali un men che perfetto
funzionamento dell’applicativo, allo stato tutt’altro che da escludere,
comporterebbe la perdita irrimediabile di elementi di prova (nel caso delle
intercettazioni) o la decadenza da facoltà delle parti (nel caso delle
impugnazioni)”. Per scendere nel concreto: se un pm trasmette un decreto urgente
di intercettazione al gip e quello “scompare” dal sistema (come successo di
recente in tutta Italia), il giudice non lo potrà convalidare in tempo e le
prove raccolte saranno inutilizzabili. Un’ipotesi per niente astratta: il
parere, pur riconoscendo i miglioramenti degli ultimi mesi, sottolinea che App
presenta ancora “diverse criticità”, in particolare “la frequente instabilità
del sistema, che talvolta “rallenta” sensibilmente il suo funzionamento
comunicando all’utente improvvisi messaggi di errore”. Inoltre, spesso “gli atti
e i documenti trasmessi da un utente abilitato interno all’altro non risultano
visibili al destinatario e sono necessari interventi tecnici ad hoc per
rimediare ai “bug” dell’applicativo”.
La “gestione mista” delle misure cautelari, con la prima fase digitalizzata e le
impugnazioni ancora consentite in cartaceo, secondo i consiglieri è invece una
scelta “poco razionale sia da un punto di vista pratico sia da un punto di vista
sistematico”, che rischia di avere effetti negativi “sugli uffici del gip e del
pubblico ministero, con l’impossibilità di gestione unitaria del fascicolo
digitale degli atti della misura cautelare e con conseguenti problematiche anche
per la gestione tempestiva e la verifica delle scadenze“. Per questo si chiede a
Nordio di “disporre un differimento complessivo” dell’obbligo di usare App per
le misure cautelari: in questo modo, viene aggiunto, si potrebbe “effettuare una
preliminare e progressiva sperimentazione del flusso”, limitata alle misure
cautelari reali, cioè ai sequestri, “in modo da non incidere sulla libertà
personale in caso di iniziali prevedibili malfunzionamenti del sistema”. Il
parere critico è stato approvato con l’astensione dei “laici” di centrodestra, i
membri eletti dal Parlamento su indicazione dei partiti di governo: in
particolare, la consigliera in quota Lega Claudia Eccher (ex avvocata di Matteo
Salvini) ha detto di non voler assecondare “atteggiamenti di resistenza” alla
novità da parte delle toghe (un’argomentazione usata in passato anche da
Nordio). Opposto il punto di vista dei consiglieri togati, cioè magistrati:
persino il procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta (membro di diritto
dell’organo) è intervenuto per sottolineare come, a suo modo di vedere, il Csm
avrebbe dovuto essere ancora più netto nel segnalare l’inadeguatezza di App per
gestire procedimenti così delicati.
L'articolo Processo telematico, a breve la “App” di Nordio sarà obbligatoria per
intercettare. Il Csm: “Rinviare o spariranno le prove” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Il caso Bertolini dimostra con chiarezza perché al referendum sulla legge
Nordio bisogna votare No“. Enrico Grosso, presidente onorario del Comitato per
il No alla separazione delle carriere fondato dall’Associazione nazionale
magistrati, commenta così la notizia del Fatto sulla partecipazione della
consigliera del Csm al vertice sulla campagna referendaria nella sede di
Fratelli d’Italia, insieme ad Arianna Meloni e ai responsabili giustizia dei
partiti di maggioranza. Per Grosso, professore di Diritto costituzionale
all’Università di Torino, “che una componente del Consiglio superiore della
magistratura partecipi a un incontro di un partito di maggioranza è un fatto
oggettivamente inopportuno. Ma oggi, grazie alla Costituzione, questo non altera
l’equilibrio tra i poteri dello Stato perché i membri togati del Csm sono eletti
dai magistrati e rappresentano un contrappeso autorevole e forte al potere
politico”, sottolinea. Con la riforma, invece, “succederebbe l’esatto
contrario”: “I laici scelti dalla maggioranza parlamentare diventerebbero ancora
più influenti, mentre i magistrati, scelti per sorteggio, sarebbero più deboli e
privi di una legittimazione interna. Il risultato sarebbe un Csm inevitabilmente
più esposto alla maggioranza di governo. Il caso Bertolini è un campanello
d’allarme: ciò che oggi è solo una sgrammaticatura istituzionale e una caduta di
stile diventerebbe la normalità. L’indipendenza della magistratura è un valore e
un presidio essenziale dello Stato costituzionale. Per questo è necessario
votare No”, conclude.
Sulla stessa linea il giudice della Corte d’Appello di Roma Giovanni Zaccaro,
segretario della corrente progressista di Area. “Ho letto stamane che una
componente del Csm, la laica Isabella Bertolini, ha participato ad una riunione
in una sede di partito. Forse pensa che la riforma Nordio sia già in vigore e
che la politica debba entrare direttamente nel Csm, mi pare un’altra buona
ragione per votare No al referendum”, ironizza. Mentre il Movimento 5 stelle si
esprime con una nota dei suoi eletti nelle Commissioni Giustizia di Camera e
Senato: “Questo episodio è l’antipasto di quello che attende l’Italia se passa
la riforma, è l’ennesima dimostrazione di quale sia l’intento del governo
Meloni: aumentare in modo esponenziale l’influenza ed il controllo della
politica sulla magistratura e in particolare all’interno dei suoi organi di
autogoverno. Se vincesse il Sì al referendum verrebbe costituzionalizzato il
controllo dei partiti politici sul potere giudiziario, carriere e provvedimenti
disciplinari dei magistrati verranno decisi nelle sedi dei partiti di
maggioranza. L’episodio denunciato oggi non ha bisogno di ulteriori commenti,
con il governo Meloni stanno crollando tutti i capisaldi della separazione dei
poteri, della correttezza istituzionale e anche del bon ton che si richiede a
chiunque ricopra cariche pubbliche”, accusano Stefania Ascari, Anna Bilotti,
Federico Cafiero De Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e
Roberto Scarpinato.
Dal mondo della politica interviene il leader di Europa Verde Angelo Bonelli,
deputato di Alleanza Verdi e Sinistra: “Fratelli d’Italia utilizza gli organismi
indipendenti e di garanzia dello Stato per i suoi fini politici. Dopo l’Autorità
per la privacy oggi è il turno del Csm”, afferma in riferimento al caso di
Agostino Ghiglia, membro del Garante per la protezione dei dati personali in
quota FdI, presente in via della Scrofa subito prima di votare per la maxi-multa
a Report. “Se Csm e Autorità di garanzia mostrano prossimità politica con chi
governa, la loro funzione di equilibrio viene meno. La democrazia italiana si
fonda sull’autonomia dei poteri e sul rispetto rigoroso dei ruoli istituzionali.
Il vicepresidente del Csm dovrebbe richiamare la consigliera Bertolini e questa
vicenda ci fa capire come la riforma della separazione delle carriere sia uno
strumento per la destra per mettere sotto controllo politico la magistratura”.
Per Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera, la presenza di Bertolini alla
riunione della sede di FdI “è uno scandalo“: “Il Csm è un delicatissimo organo
di autogoverno della magistratura, non una emanazione del partito pigliatutto
della destra”. Anche per il presidente del gruppo Misto del Senato, Peppe De
Cristofaro, la vicenda raccontata dal Fatto è “gravissima”: “Quella era una
riunione politica, non istituzionale o un convegno. Se sei componente
dell’organo che dovrebbe tutelare l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura non puoi partecipare a una riunione politica sulle strategie per il
prossimo referendum sulla giustizia. Ma per i rappresentanti della destra non è
così, loro svolgono un ruolo politico alla faccia dell’autonomia e
dell’indipendenza. Una sottomissione politica inaccettabile. Questa destra è
senza ritegno“.
L'articolo Bertolini (Csm) al vertice FdI, condanna di toghe e opposizioni:
“Separazione dei poteri a rischio, ecco perché votare No” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
L’ennesima richiesta di pratica a tutela dei magistrati attaccati dalla
politica. Questa volta al Consiglio superiore della magistratura arriva il caso
dei giudici del Tribunale dei minorenni dell’Aquila, bersagliati dalla destra
per la loro decisione di trasferire in comunità i cosiddetti “bambini nel
bosco“, tre minori che vivevano insieme ai genitori in un rudere senza luce,
acqua e gas in Abruzzo: con un atto depositato lunedì mattina al Comitato di
presidenza, 19 membri togati del Csm (tutti tranne uno) chiedono all’organo di
assumere una posizione ufficiale a difesa dei colleghi. Nella richiesta si
citano le dichiarazioni del vicepremier Matteo Salvini, che ha parlato di “un
sequestro” e ha detto di voler parlare personalmente con i giudici, e quelle del
ministro della Giustizia Carlo Nordio che ha annunciato “accertamenti profondi”
(cioè ispezioni) sul caso. “Tali affermazioni, provenienti da rappresentanti di
pubbliche istituzioni, trascendono la legittima critica a un atto giudiziario e
finiscono per colpire direttamente l’operato dei magistrati del Tribunale per i
minorenni, esponendoli a una indebita pressione anche mediatica“, si legge. A
firmare l’atto anche i membri laici Ernesto Carbone (in quota Italia viva),
Michele Papa (M5s) e Roberto Romboli (Pd), per un totale di 22 consiglieri.
Questa delegittimazione, si sottolinea, si riflette in “gravi e scomposti
attacchi attraverso i social, circostanza ormai quasi ricorrente”: a farne le
spese stavolta è stata la presidente del collegio che ha disposto
l’allontanamento, Cecilia Angrisano, bersaglio di pesanti minacce e della
diffusione del suoi indirizzo e dei suoi contatti. I consiglieri condannano
anche il collegamento fatto dai politici tra la vicenda e la riforma
costituzionale sulla separazione delle carriere, “che nulla ha a che fare con il
caso in esame”: “Dovrebbe essere interesse di tutti – istituzioni politiche e
istituzioni di garanzia – che il confronto sui referendum si sviluppi sul
terreno delle opzioni normative e delle ragioni di merito, senza piegare a fini
di propaganda casi concreti che riguardano minori e che sono ancora oggetto di
valutazione giudiziaria”, affermano.
La decisione di sospendere la potestà genitoriale, ricordano i consiglieri, è
arrivata “nell’ambito di un procedimento nato su impulso della Procura minorile,
dopo il ricovero dei minori, e all’esito di un’istruttoria durata 13 mesi
fondata su relazioni dei servizi sociali e delle forze dell’ordine, su
accertamenti tecnici relativi alle condizioni abitative, sulle informazioni
sanitarie e sulle complessive condizioni di vita e di relazione dei minori
interessati e solo dopo aver reiteratamente cercato di istaurare con i genitori
un percorso di socializzazione e sanitario”. Il provvedimento “rientra, dunque,
nell’esercizio delle funzioni attribuite dalla legge alla giustizia minorile
tipiche attribuzioni dell’autorità giudiziaria minorile e persegue
esclusivamente finalità di protezione dei bambini coinvolti”, si sottolinea.
In alcune dichiarazioni dei politici, accusano i membri del Csm, appare invece
“del tutto ignorata la natura delle decisioni di protezione dei minori, che
spesso incidono in modo doloroso sulla vita delle famiglie e sono gravose anche
per i magistrati chiamati ad assumerle. La giurisdizione, soprattutto in ambito
minorile, opera in un quadro di legge complesso, sulla base di atti e di
elementi tecnici, componendo interessi tutti meritevoli di rispetto: la libertà
delle scelte educative dei genitori, il diritto dei bambini alla sicurezza, alla
salute, alla socialità e alla riservatezza”, spiegano. Pertanto, “la
semplificazione di tale complessità in formule polemiche, che presentano
l’intervento giudiziario come un sequestro o una violenza di Stato, finisce per
minare la fiducia nella magistratura ed esonda in un’inaccettabile
delegittimazione personale dei giudici titolari del procedimento”.
L'articolo “Bambini nel bosco”, chiesta al Csm una pratica a tutela dei giudici:
“La politica fa propaganda sul caso per il referendum” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Un mercato delle vacche“, “un verminaio“, “una macchia nerissima nella storia
della magistratura”. Più si avvicina il referendum, più Carlo Nordio cerca
definizioni apocalittiche per il sistema Palamara, il suq delle nomine
giudiziarie venuto a galla nell’ormai lontano 2019. Il ministro della Giustizia
usa il nome dell’ex pm radiato come spauracchio per sponsorizzare il sorteggio
del Consiglio superiore della magistratura, uno dei pilastri della sua riforma
costituzionale. E accusa l’attuale Csm – composto per due terzi da membri eletti
dalle toghe – di aver “insabbiato lo scandalo del secolo“, nascondendo “la
polvere sotto il tappeto”. “Noi possiamo anche credere all’asinello che vola, ma
non possiamo credere che lo scandalo Palamara si sia limitato a quei quattro
poveretti che si sono dimessi”, ha detto, riferendosi agli ex consiglieri
beccati a concordare coi politici il nome del futuro procuratore di Roma in una
saletta del famigerato hotel Champagne. Nel merito, Nordio ha sicuramente
ragione: quasi tutti i sodali di Palamara, che si rivolgevano a lui per ottenere
poltrone per sé e gli amici, non hanno avuto conseguenze sulla carriera, e molti
sono stati addirittura promossi. C’è solo un dettaglio: in questa consiliatura,
i voti decisivi per salvarli sono arrivati sempre dai “laici” di centrodestra,
cioè i consiglieri eletti dal Parlamento su input dei partiti della maggioranza.
L’ennesimo colpo di spugna risale a mercoledì, quando a palazzo Bachelet si è
discusso il caso di Roberto Ceroni, pm a Bologna e già referente per
l’Emilia-Romagna della corrente UniCost, a lungo dominata da Palamara (ora in
fase di profondo rinnovamento dopo lo scandalo). Tra il 2017 e il 2018 Ceroni
scriveva insistentemente su WhatsApp al collega, allora membro del Csm,
chiedendogli di spendersi perché i posti ai vertici di Tribunali e Procure
nell’Emilia e nelle Marche andassero a esponenti di UniCost: “Luca, mi
raccomando. Area (la corrente progressista, ndr) sta facendo man bassa nel
distretto a nostro discapito. Di tutto quello che è stato bandito negli ultimi
mesi abbiamo chiesto solo mirati posti e sinora solo uno ne abbiamo ottenuto.
Non possiamo perdere, il gruppo ne pagherebbe le conseguenze”, è uno dei tanti
messaggi sequestrati sul telefono di Palamara. Per queste chat il pm bolognese
ha subito un procedimento disciplinare da cui è uscito assolto per “scarsa
rilevanza del fatto“; tre giorni fa il Consiglio doveva decidere se concedergli
la valutazione positiva di professionalità, lo scatto di carriera previsto ogni
quattro anni. È finita con dieci voti favorevoli e otto contrari: ago della
bilancia i nove astenuti, tra cui cinque laici scelti dai partiti di governo
(Felice Giuffré, Daniela Bianchini e Isabella Bertolini in quota Fratelli
d’Italia, Claudia Eccher per la Lega ed Enrico Aimi per Forza Italia).
Ma i “chattisti” perdonati dalla destra sono molti di più. Una Nordio se l’è
persino portata al ministero: Rosa Sinisi, ex presidente della Corte d’Appello
di Potenza, nominata vice capo del Dipartimento organizzazione giudiziaria dopo
aver raccomandato per anni a Palamara candidati “amici” per i posti di tutta la
Puglia. Il Csm avrebbe potuto bloccare l’incarico per ragioni di opportunità, ma
il via libera è arrivato grazie ai 14 voti favorevoli dei laici di destra e dei
togati conservatori di Magistratura indipendente, nonostante i nove contrari e
le sette astensioni. Eclatante il caso della giudice Marilena Rizzo, una delle
toghe più sfacciate nel segnalare nomi in chat (indicandoli come “i nostri”),
anche lei graziata in sede disciplinare per “scarsa rilevanza”: prima è stata
confermata come presidente del Tribunale di Firenze, poi, pochi mesi fa,
promossa alla guida della Corte d’Appello di Bologna, in entrambi i casi –
neanche a dirlo – con i voti del centrodestra.
Tra gli interlocutori di Palamara “amnistiati” grazie alla maggioranza anche
Antonello Racanelli, confermato procuratore aggiunto a Roma e poi promosso capo
dei pm di Padova; Vittorio Masia, confermato presidente del Tribunale di
Brescia; Massimo Forciniti, ex presidente di sezione del Tribunale di Crotone,
che ha scampato il trasferimento d’ufficio per incompatibilità e poi ha ottenuto
regolarmente il suo scatto di carriera quadriennale. Fino a Cosimo Ferri,
l’altro grande tessitore dell’hotel Champagne: l’ex sottosegretario renziano
alla Giustizia rischiava la radiazione dalla magistratura come Palamara, ma è
uscito indenne dal procedimento disciplinare grazie allo scudo della Camera, che
ha negato l’uso delle intercettazioni nei suoi confronti. E chi ha votato per
negarlo? Ovviamente i deputati di centrodestra, insieme a quelli di Italia viva
e Azione. Così ora, dopo un periodo “in esilio” al ministero della Giustizia,
Ferri potrà tornare a fare il magistrato, grazie a una sentenza del Consiglio di
Stato che ha disapplicato nei suoi confronti la legge sulle porte girevoli. A
proposito di scandali “insabbiati”.
L'articolo “Il Csm ha insabbiato il caso Palamara”: Nordio rivanga lo scandalo
per spingere la riforma. Ma a salvare le toghe coinvolte è stata la destra: ecco
i casi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Domenico Airoma sarà il nuovo procuratore di Napoli Nord, mentre Raffaele
Cantone andrà a Salerno. Si sblocca dopo mesi di stallo il derby per le procure
vacanti in Campania, che vedeva opposti due pesi massimi: Cantone, ex presidente
dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e attuale procuratore di Perugia,
e Airoma, capo dei pm di Avellino, vicino al sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio Alfredo Mantovano. Entrambi volevano trasferirsi ad Aversa (Caserta)
per guidare l’ufficio inquirente di Napoli Nord, il più giovane d’Italia,
istituito nel 2013 come presidio antimafia in un territorio ad alta densità
camorristica. Alla vigilia del primo voto al Consiglio superiore della
magistratura, però, Cantone ha ritirato la domanda: ufficialmente per non
lasciare sguarnito l’ufficio di Perugia, di fatto perché era ormai chiaro il
vantaggio di Airoma, che in Quinta Commissione – quella competente sulle nomine
– avrebbe potuto contare su cinque voti su sei. Questo giovedì, quindi, la
Commissione proporrà all’unanimità al plenum (l’organo al completo) il
procuratore di Avellino per il posto a Napoli Nord, facendo decadere la sua
candidatura parallela per l’ufficio inquirente di Salerno, che nei prossimi mesi
sarà a questo punto assegnato matematicamente a Cantone, rimasto senza sfidanti
in grado di impensierirlo.
L’ex numero uno dell’Anac così lascerà Perugia in largo anticipo rispetto alla
scadenza del mandato, prevista nel 2028. Sulla carta guiderà una Procura più
importante rispetto a quella di Napoli Nord (Salerno è capoluogo di Corte
d’Appello e quindi ha maggiori competenze) ma ha dovuto rinunciare al desiderio
di tornare “a casa”: cresciuto a Giugliano, nel cuore della cintura nord
partenopea, Cantone ha iniziato la carriera alla Direzione distrettuale
antimafia di Napoli, ottenendo la condanna all’ergastolo dei più importanti boss
del clan dei Casalesi, tra cui Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti. “Se
il Consiglio superiore riterrà che ho i titoli per venire a Napoli Nord sarei
felice, perché si tratta della mia città, del mio territorio”, aveva detto a
gennaio, annunciando la sua candidatura.
A capo della Procura di Aversa invece andrà Airoma, pm assai stimato, dal
curriculum solido e dai rapporti importanti: è legatissimo ad Alfredo Mantovano,
magistrato e potente sottosegretario a palazzo Chigi con delega ai servizi,
nonché riconosciuto braccio destro della premier Giorgia Meloni. Insieme,
Mantovano e Airoma hanno fondato e diretto il Centro studi Rosario Livatino,
influente think tank di giuristi cattolici di cui il procuratore avellinese è
tuttora vicepresidente. Sono anche coautori di due libri: “(Ir)rispettabili. Il
consenso sociale alle mafie”, del 2013, e “Un giudice come Dio comanda. Rosario
Livatino, la toga e il martirio”, del 2021, sulla storia del “giudice ragazzino”
assassinato dalla mafia.
L'articolo Cantone verso la Procura di Salerno: l’ex capo dell’Anac rinuncia
alla corsa per Napoli Nord. Al suo posto andrà Airoma proviene da Il Fatto
Quotidiano.