“Cercansi radioline a pile portatili per far sentire meno soli i detenuti nel
giorno di Natale”. A lanciare l’appello sono i volontari della Casa
circondariale di Lodi che anche quest’anno con “Radio Popolare” hanno
organizzato – grazie alla collaborazione della direttrice Anna Laura Confuorto,
degli educatori dell’area trattamentale e degli agenti di polizia penitenziaria
– uno scambio di auguri in diretta tra i parenti, gli amici e chi si trova
dietro le sbarre.
Il 25 dicembre dalle 9 alle 10,30 su Radio Popolare (canale Fm 107.6) verranno
trasmessi i messaggi di auguri di alcune persone detenute nel carcere di Lodi,
ma anche Rebibbia e Bollate: così amici e familiari potranno fare gli auguri ai
propri cari intervenendo in diretta telefonica. Un’idea che può essere attuata
solo con il contributo di chi vorrà rendere concreto questo progetto aiutando i
volontari a trovare (entro il 22 dicembre) le radioline necessarie ai detenuti
per ascoltare le frequenze di “Radio Popolare”.
“In carcere attualmente ci sono un’ottantina di persone e una trentina di celle.
Abbiamo bisogno – spiegano i volontari – di donare loro almeno trenta radio che
devono essere senza Usb e cavo ma solo con pile. Uno di questi oggetti costa
meno di una pizza ma può rendere felice chi quel giorno non potrà stare con i
propri cari”.
Chi è di Lodi può portare i doni all’Arci Ghezzi in via Maddalena 39, 26900 Lodi
entro il 22 dicembre. E si può contribuire da qualsiasi parte d’Italia inviando
(sempre all’Arci Ghezzi) – con un clik qui o su altre piattaforme di vendita
online – il dono.
In questi giorni i volontari stanno registrando i messaggi di auguri dei
detenuti in diverse carceri italiane che verranno trasmessi proprio giovedì 25 a
“Radio Popolare” nella mattinata con l’aiuto di Claudio Agostoni: chi è a casa,
chi desidera essere vicino alle persone che si trovano in carcere potrà
intervenire in diretta chiamando allo 0233001001 oppure scrivendo una mail a
diretta@popolarenetwork.it o un sms al 331 6214013.
In questi giorni proprio a Lodi, intanto, il mondo del volontariato si è mosso
per far vivere le festività anche a chi si trova nella casa circondariale:
l’azienda “L’Erbolario” donerà ai carcerati e agli agenti di polizia
penitenziaria dei prodotti mentre dall’Auser di Pianengo (Cremona) arriveranno
oltre ottanta libri che i volontari hanno raccolto per poter fare il loro
augurio a ciascun detenuto. “A seguito di un incontro sul tema carcere – spiega
la presidente Iside Iride – il nostro centro “Al Mirabel” non è rimasto con le
mani in mano, ma ha voluto dare un segnale concreto della vicinanza della
società civile a chi si trova in carcere proprio nel rispetto dell’articolo 27
della Costituzione che mira alla rieducazione. Anche un libro può aiutare”.
L'articolo Messaggi dei parenti per far sentire meno soli i detenuti a Natale:
il carcere di Lodi raccoglie radioline a pile proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Non si può andare avanti a dare la tachipirina ha chi ha il tumore. Entro in
carcere dal 2010. Da allora sono passati governi di ogni colore politico ma non
so quanto, ci sia in Parlamento, la volontà trasversale di agire su quanto
avviene dietro le sbarre. Questa non è un’emergenza ma un problema strutturale:
le celle scoppiano, i funzionari sono oppressi dalla burocrazia, non siamo
attrezzati ad affrontare le persone detenute a causa delle dipendenze da nuove
sostanze, spesso manca un accompagnamento per il post detenzione”.
A parlare nelle ore in cui il Vaticano celebra il Giubileo dei detenuti, è don
Roberto Musa, il cappellano della casa circondariale di Cremona, finita sotto i
riflettori nelle ultime settimane per il suicidio di un educatore
giuridico-pedagogico che si è impiccato nel bagno della struttura (il quarto nel
2025 che si aggiunge ai 71 detenuti che si son tolti la vita quest’anno).
Don Roberto, parroco a San Daniele e Pieve D’olmi, insegnante di religione al
liceo “Anguissola” di Cremona, fondatore della cooperativa “Fratelli tutti” dove
operano ex detenuti e disabili, sa che il caso dell’educatore è il pretesto per
denunciare ancora una volta quanto sta avvenendo nelle galere. Ha iniziato a
frequentare quel luogo da diacono e ora da quindici anni conosce uno ad uno gli
uomini condannati ma anche chi lavora dietro le sbarre. E sa che Cremona non è
né meglio né peggio di altre strutture.
Il tema del sovraffollamento resta centrale. A Ca’ del Ferro, dove ci sarebbero
390-400 posti, si è arrivati a ospitare 600 persone che arrivano da ogni parte
della Lombardia. Nulla di nuovo – dirà qualcuno – se non fosse che don Musa lega
questa situazione al carico per il personale.
“Abbiamo solo cinque educatori, una mediatrice culturale, psicologhe e
criminologhe e una direttrice in missione da Bollate. È uno staff giovane,
impegnato, altamente professionale che affianca un personale di polizia
penitenziaria che è stato anche incrementato con due nuovi funzionari. Ma sa
qual è il limite? I detenuti sentono il bisogno di parlare con gli operatori che
sono gravati dalla burocrazia; tante ore di scrivania che limitano il colloquio
con le persone”.
Eccolo uno dei cortocircuiti del carcere. Chi lo frequenta come don Roberto sa
che il vero dramma è quello della “domandina” (richiesta per ottenere ogni
servizio) che resta inevasa; del desiderio di iniziare a lavorare all’esterno
secondo l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario ma di non poterlo fare
perché la pratica resta sulla scrivania.
Basti pensare che l’educatore che si è suicidato aveva in carico ben tre
sezioni: “Ha sempre lavorato con noi. In una realtà complessa, era riuscito a
costruire belle relazioni umane. Non riesco a dare una risposta a quanto è
accaduto e non è rispettoso darsela. Posso solo dire che per una persona che può
avere delle fragilità non è facile vivere in un contesto in cui si è sempre in
contatto con la sofferenza”. Il cappellano ha chiara la diagnosi: “Come tutte le
carceri lombarde c’è la continua preoccupazione, siamo consapevoli di non
riuscire ad assolvere a pieno alla missione ricevuta perché non ci sono le
forze”.
Don Musa che è affiancato anche da don Graziano Ghisolfi e suor Maria Grazia
della Caritas, solleva un’altra questione: “Abbiamo sempre più detenuti in
situazioni di estrema povertà e persone con problemi psichiatrici. Sono
aumentati i giovani che finiscono dietro le sbarre a causa delle nuove
dipendenze ma non siamo attrezzati per queste persone, il carcere non è il loro
posto. Hanno bisogno di percorsi di un altro tipo: è gente che è malata. A
questi vanno aggiunti coloro che arrivano da noi con la scabbia: per assurdo
hanno bisogno del carcere per superare la rigidità dell’inverno. E poi ci sono
gli stranieri non regolari sul territorio, dietro di loro non c’è nulla, le loro
famiglie sono lontane o inesistenti e non hanno nemmeno la possibilità di
accedere alle misure alternative perché non hanno domicilio”.
La fotografia del cappellano conclude prendendo in considerazione anche i sex
offender o i collaboratori di giustizia che vivono in sezioni separate: “In
questi casi dobbiamo lavorare sul dopo, sull’orizzonte post carcere”.
A Cremona come in tante altre realtà, nonostante la diminuzione dei numeri a
causa della pandemia, ci sono tanti volontari e molte progettualità legate anche
all’alfabetizzazione. Ma non basta. “Dobbiamo farci una domanda seria: crediamo
ancora nell’articolo 27 della Costituzione che indica la rieducazione come
finalità della pena? Non mi sembra che stiamo vivendo quanto dice la nostra
Carta”. Parole pronunciate qualche ore prima su “L’Avvenire” dal Vescovo di
Crema, don Daniele Gianotti, delegato della conferenza episcopale lombarda per
la pastorale carceraria: “Siamo molto lontani da ciò che prescrive la
Costituzione. La beffa è che tutte le statistiche mostrano che quanto peggiori
sono le condizioni di carcerazione, tanto più alta è la probabilità di recidiva.
Se non si cambia registro, le prigioni italiane, anziché restituire alla società
persone che hanno cambiato la vita, prepareranno nuovi delinquenti”.
L'articolo “Io cappellano del carcere dove si è suicidato un educatore dico: non
si va avanti così. Senza rieducazione, si preparano solo nuovi delinquenti”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’hanno trovata morta nella sua cella. È ancora tutta da chiarire la vicenda
dell’ennesima morte in carcere. Questa volta si tratta di una dona, detenuta
nella sezione femminile del carcere di Rebibbia. La polizia penitenziaria sta
indagando per far luce sulla vicenda, le cui circostanze sono ancora da
chiarire.
In seguito al decesso, sono stati rinviati a data da destinarsi i Giochi della
Speranza, promossi dalla Fondazione Giovanni Paolo II, dal Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria e dalla rete di magistrati ‘Sport e
Legalità‘. Al posto dell’iniziativa sportiva, si terrà un momento di
raccoglimento all’interno del penitenziario assieme ai partecipanti che erano
già stati invitati: tra questi, la deputata Michela Di Biase del Partito
democratico. I Giochi della Speranza erano giunti alla seconda edizione,
chiamati anche la “piccola olimpiade in carcere”. L’iniziativa è stata
organizzata in occasione del Giubileo dei detenuti che va dal 12 al 14 dicembre.
Due giorni fa, la sezione femminile di Rebibbia è stata visitata dal Presidente
della Repubblica Sergio Mattarella per l’inaugurazione di un’istallazione
permanente. Il capo dello Stato aveva sottolineato la “condizione totalmente
inaccettabile” in cui sono costrette a vivere le persone detenute nelle carceri.
Solo 48 ore dopo l’ennesimo caso di morte in un penitenziario italiano.
L'articolo Detenuta trovata morta nel carcere di Rebibbia: indagini in corso.
Rinviati i Giochi della Speranza proviene da Il Fatto Quotidiano.
“C’era un ragazzo, in carcere, che si masticava i fogli, perché non gli piaceva
quello che disegnava. Un giorno si è disegnato in una buca, che era come si
sentiva in quel periodo. Mi sono accorto che la forma della buca che aveva
disegnato non era chiusa e quindi gli ho detto, ‘vedi, stai esprimendo il fatto
che puoi uscirne’. Il disegno è parte di noi, e spesso rappresenta un pensiero o
una sensazione”.
Alessandro Bonaccorsi vive a Ravenna ed è un disegnatore, autore, formatore e
facilitatore grafico. È anche l’inventore del “Disegno Brutto”, un metodo
pensato per chi non sa disegnare, che libera dai condizionamenti e crea nuovi
punti di vista sulla realtà.
“Uno strumento incredibile per pensare meglio, rilassarsi, divertirsi, capire,
comunicare, con un’apparenza scherzosa che nasconde un percorso filosofico di
crescita personale”, lo definisce Alessandro. Che lo ha messo a punto dopo anni
di ricerca su di sé, passando per diversi fallimenti universitari, per un
periodo da allenatore di pallavolo semiprofessionista e di grafico-operaio in
una grande industria grafica, fino a diventare un creativo freelance vent’anni
fa. A un certo punto, arriva l’idea di un nuovo modo di disegnare, il Disegno
Brutto, appunto. Esploso sui suoi social network ben prima della pandemia (nel
2017). Da quel momento lo ha insegnato in tutta Italia, in decine di corsi, agli
infermieri come ai manager, ai docenti come agli impiegati, in associazioni,
festival, musei, aziende, persino università.
Un anno fa è stato chiamato dalla Fondazione “Terre Des Hommes” per un progetto
nel carcere Beccaria di Milano. “Cercavano delle attività per far capire ai
ragazzi che c’è un altro modo di pensare e che avessero un approccio originale”,
racconta. Il Disegno Brutto è uno dei laboratori proposti da Terre des Hommes
con il progetto Chance (avviato con il sostegno di Enel Cuore). Un progetto che
mette al centro la persona, a prescindere dal reato, o dalla divisa e che vuole
favorire il dialogo tra minorenni detenuti, agenti e operatori offrendo nuove
possibilità di espressione, crescita e comprensione reciproca. Alessandro ha
iniziato un primo laboratorio, a gennaio di quest’anno, fatto da sette incontri,
che si ripeteranno poi per altri due corsi.
“Si lavora nel refettorio della sezione, una quindicina di ragazzi ogni volta,
li chiamo dall’uscio delle celle. Mi aiuta una mediatrice culturale di lingua
araba, perché molti detenuti sono arabofoni. L’obiettivo è dare la possibilità
di creare un nuovo racconto di sé, lavorare sulla loro identità così come sulla
relazione con l’altro. Qualunque cosa disegnano va bene, lo scopo è far sì che
si lascino andare, farli entrare in comunicazione attraverso il segno, ancora
lavorare sulla memoria del luogo da cui sono venuti e sull’immaginazione di un
possibile futuro”.
Il Disegno Brutto è un metodo che favorisce questi aspetti. In particolare,
aiuta il racconto del tempo, e quindi della vita, un tema venuto fuori fin da
subito, spiega Bonaccorsi. “Fin dalla prima sessione è venuta fuori
l’insofferenza di essere chiusi lì dentro, il fatto che il tempo si ripeta
uguale. Un ragazzo ha disegnato un serpente che si mangia la coda e delle
persone chiuse dentro il serpente”.
Un altro aspetto positivo del Disegno Brutto è l’effetto calmante, “anche i
ragazzi che avevano problemi di attenzione, che normalmente non riescono a stare
fermi un attimo, sono stati seduti per un’ora a disegnare. Ho scoperto anche che
molti sono analfabeti graficamente, per dire, hanno difficoltà a fare cerchi
concentrici, e non hanno dimestichezza con la scrittura e il disegno. Hanno
abilità di disegno rimaste a quando avevano dieci anni, eppure riescono con quei
tratti e quelle figurazioni incerte o infantili a esprimere pensieri complessi”.
Durante le due ore, il “maestro” fornisce poche indicazioni essenziali, propone
piccoli esercizi, e comunque non dice mai frasi come “potevi farlo meglio”. Non
ci si giudica e non si viene giudicati. Il Disegno Brutto è un metodo attraverso
cui, anche sbagliando, nell’errare, ci si esprime, e questo crea fiducia, ma
anche “un rapporto, anche fisico, i ragazzi mi abbracciano, siamo in un habitat
di tranquillità e calma, riusciamo a creare un giardino interiore”.
Durante il percorso “emergono emozioni forti. C’è un ragazzo che dopo il secondo
incontro mi ha detto che non sarebbe più venuto, perché tutto quello che
disegnava lo riportava a un passato, un passato dove stava bene e che ora non
c’è più. Però passa sempre a salutare, anche se non si siede. Anche questo è,
comunque, un rapporto”.
L'articolo Alessandro Bonaccorsi e il “Disegno brutto” in carcere: “Lo scopo è
aiutare i ragazzi detenuti a fare pace col passato” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Per le imputazioni che vengono loro contestate, aggravanti comprese, i due
18enni in carcere per aver rapinato e tentato di uccidere uno studente di 22
anni, aggredito il 12 ottobre nella zona della movida di corso Como a Milano,
rischiano condanne a pene fino a 20 anni di reclusione. Pene che in abbreviato
potrebbero scendere fino a 14 anni o poco meno in caso di rito abbreviato.
Ai due 18enni, così come ai tre 17enni anche loro arrestati dalla magistratura
minorile, viene contestato il tentato omicidio (uno è l’accoltellatore, l’altro
come i minori risponde di concorso morale) con quattro aggravanti: il fatto
commesso in cinque persone, l’averlo compiuto per mettere in atto la rapina, il
concorso con “persone minorenni” e l’aver approfittato di “condizioni che
impedivano” la difesa allo studente, tra cui “l’orario notturno” e l’assenza in
quel luogo “di potenziali soccorritori”. E ancora la “evidente”, si legge
nell’ordinanza della gip Chiara Valori, “condizione di sopraffazione” anche dopo
i “primi colpi inferti”. I giudici parlano di “aggressione feroce”, “pestaggio
brutale” con “modalità da branco”.
Anche l’imputazione di rapina è aggravata, pure per averla commessa con un’arma.
Da qui accuse che porterebbero le pene fino a più o meno 20 anni, ma molto
probabilmente gli indagati sceglieranno l’abbreviato, con lo sconto di un terzo
sulle pene. Per i minorenni, invece, ovviamente le pene sarebbero più basse. Gli
interrogatori davanti alla gip Valori, nell’inchiesta della Polizia e del pm
Andrea Zanoncelli, sono stati fissati per la mattina del 21 novembre
L'articolo Studente brutalizzato a Milano, i due maggiorenni del branco
rischiano fino a 20 anni di carcere proviene da Il Fatto Quotidiano.
È il ministro della “Giustizia”, si vanta ininterrottamente della sua cultura e
delle sue letture in varie lingue, che sciorina tutte le volte che parla. Ma se
c’è da far politica e da raggranellare qualche voto per un candidato meloniano
il Guardasigilli Carlo Nordio non si tira indietro. Anche a costo di commettere
una davvero grave sgrammaticatura istituzionale. Come la visita di martedì 18
novembre nel carcere di Secondigliano. Dove al suo fianco figura, ampiamente
ripreso dalle tv, il candidato alle elezioni regionali campane Edmondo Cirielli,
oggi viceministro agli Affari esteri, nonché generale dei carabinieri nella
vita, deputato di Alleanza nazionale dal 2001.
In quel carcere ci sono oggi 1.500 detenuti, rispetto ai 1.100 posti
disponibili. E 1.500 voti, o almeno una buona parte di essi, non possono che far
gola a un candidato alla poltrona di presidente della Regione Campania che i
sondaggi danno indietro di almeno una dozzina di punti rispetto a Roberto Fico.
E allora perché farsi degli scrupoli istituzionali? Certo non quelli di Cirielli
che si comporta da candidato e piglia dove può pigliare.
Ma in questo caso è il ministro della Giustizia Nordio a metterci la faccia,
proprio lui che in questi ormai tre anni e un mese di governo non ha certo
brillato nella sua politica carceraria, compresa la penultima gaffe sul
sovraffollamento che evita i suicidi e sull’ultima, detta proprio a
Secondigliano a fianco di Cirielli, su Licio Gelli che “può dire anche cose
giuste”, come quella di aver sostenuto la separazione delle carriere.
Evidentemente, in vista del referendum sulla legge costituzionale contro i
giudici, gli fanno gola anche i voti dei fan nostalgici del Grande Maestro della
Loggia P2.
Altro che preoccuparsi delle carceri che scoppiano e dei detenuti che crepano,
qui è solo una questione di voti.
L'articolo Nordio in tour elettorale per Cirielli cerca voti in carcere e tra i
nostalgici P2 proviene da Il Fatto Quotidiano.