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In pochi giorni due scandali sanitari: finirà mai il mercimonio dei pazienti?
Ci risiamo. In due giorni due scandali enormi nella sanità a distanza di 600 chilometri. Un comune denominatore: la mancanza di controlli adeguati sulle prestazioni sanitarie, pubbliche e private. Un sistema senza fine in cui il paziente non è l’unico beffato, per l’assistenza medica confusa con il guadagno, ma anche il Sistema Sanitario Nazionale viene utilizzato per “deviare” verso il privato ed il cittadino, se paziente, ci casca due volte nella stessa falla. Partiamo da Milano e dal fiore all’occhiello del gruppo San Donato, il privato accreditato più grande ed influente d’Italia con capitali anche arabi. Al San Raffaele è stata usata una cooperativa di infermieri al terzo piano nella zona della medicina di cure intensive senza esperienza clinica con conseguenti elevati rischi per il paziente. La scelta è stata del nuovo, ma già allontanato, amministratore delegato posto solo a maggio ai vertici della struttura. Come si può far scegliere professioni mediche ad una persona che conosce, forse, solo ruoli amministrativi e di guadagno per l’azienda? Ora parliamo di Roma e di un caso forse ancora peggiore. Un primario di un ospedale pubblico è stato arrestato in flagranza di reato mentre riceve da un imprenditore 3.000 euro in contanti ma gliene vengono contestati 700.000 fra soldi, auto di lusso, affitti, vacanze da sogno e contratti di lavoro per la sua compagna, medico specializzanda. In questo caso venivano “sfruttati” pazienti nefropatici convogliati, dopo il ricovero ospedaliero, verso dialisi in strutture private con cui – secondo le accuse – il primario aveva instaurato un vero e proprio do ut des, ben sapendo che le nuove linee guida consigliano per il paziente di organizzare a domicilio questo importante tempo da dedicare alla pulizia del sangue fonte di vita. In Europa circa il 35% dei dializzati esegue la dialisi a domicilio confronto a circa il 9% italiano con evidente risparmio del Sistema Sanitario nazionale e degli infermieri che possono essere destinati ad altro. Ma finché medici che si devono vergognare di esserlo continueranno a rimanere impuniti, fra lunghezze burocratiche della magistratura e deficienze degli ordini dei medici, non abbiamo possibilità. Passerà del tempo, si dimenticherà, nessuna punizione adeguata verrà inflitta per il mercimonio dei pazienti che diventono oggetti, non soggetti, tutto fino alla prossima volta. Senza fine. L'articolo In pochi giorni due scandali sanitari: finirà mai il mercimonio dei pazienti? proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Arrestato in flagranza primario del Sant’Eugenio di Roma: “Ha intascato tangente da un imprenditore”
Li hanno beccati proprio mentre si scambiavano il denaro, una mazzetta da 3mila euro. Per questo la polizia ha arrestato in flagranza il primario di Nefrologia dell’ospedale Sant’Eugenio, Roberto Palumbo, e l’imprenditore Maurizio Terra, amministratore unico della Dialeur, azienda che fornisce strumentazione per la dialisi. Entrambi sono accusati corruzione. L’operazione risale a giovedì – secondo quanto anticipato dal Corriere della Sera – ma la notizia è trapelata solo nella giornata di sabato e il giudice per le indagini preliminari non ha ancora convalidato la misura richiesta dalla Procura di Roma con l’aggiunto Giuseppe De Falco. L’inchiesta che ha portato all’arresto di Palumbo, che da anni collabora con la Regione Lazio per affrontare le problematiche nefrologiche regionali ed è stato nella Commissione regionale di vigilanza sull’emodialisi, vede complessivamente dodici persone indagate. Il primario sarebbe stato fermato dagli agenti della Squadra Mobile proprio nel momento in cui intascava i 3mila euro dall’imprenditore: il primo è in carcere, l’altro ai domiciliari. Secondo la ricostruzione dell’inchiesta, tuttavia, l’episodio non sarebbe un caso isolato ma si inserirebbe in un giro di tangenti legato alle dimissioni di pazienti che venivano poi indirizzati, come sarebbe accaduto per quello pagato 3mila euro appunto, in strutture sanitarie private. Tra gli indagati figurerebbero proprio i responsabili delle case di cura che offrono servizi specifici per i dializzati. Stando agli accertamenti dei magistrati, i soldi per le mazzette al primario – e non si esclude anche ad altri medici – sarebbero il provento di false fatture che venivano emesse da una società creata ad hoc. L'articolo Arrestato in flagranza primario del Sant’Eugenio di Roma: “Ha intascato tangente da un imprenditore” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Caos sugli straordinari degli infermieri, trattenute anomale in busta paga. Il governo smentisce il fisco: chiesti indietro soldi senza motivo
Gli stipendi di novembre degli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale sono stati più leggeri del previsto. Alcuni lo sapevano già, altri lo hanno scoperto il 27 del mese. Rispetto al salario atteso, nella busta paga di migliaia di lavoratori manca una cifra netta compresa tra i 50 e le diverse centinaia di euro. È l’effetto di un recupero fiscale imposto dalle aziende sanitarie e avallato, erroneamente, dall’Agenzia delle Entrate. Di fatto, le Asl stanno indebitamente chiedendo indietro dei soldi agli infermieri, una delle categorie professionali più in difficoltà della nostra sanità pubblica. Tutto nasce dall’istanza di una singola azienda sanitaria locale che, appellandosi a un cavillo normativo, ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se fosse possibile smettere di applicare la flat tax del 5% – introdotta dalla legge di Bilancio 2025 – ad alcune tipologie di ore di straordinario svolte dagli infermieri. Il Fisco, mal interpretando la norma, ha risposto di sì. Da qui l’effetto domino: in diverse Regioni, molte aziende sanitarie – secondo i sindacati parliamo dell’80% – si sono attivate per recuperare un po’ di budget dalle tasche dei lavoratori, predisponendo un conguaglio nelle buste paga di novembre degli infermieri. E, se il cavillo non verrà risolto a breve, l’operazione potrebbe ripetersi anche per gli stipendi di dicembre. Il nodo è la detassazione al 5% del lavoro straordinario degli infermieri, prevista dal comma 354 della scorsa legge di Bilancio, quella per il 2025. Una norma introdotta per provare a rendere più appetibile una professione che soffre di una gravissima carenza di personale, per via di pessime condizioni di lavoro e di salario. Dall’inizio dell’anno, quindi, le aziende e gli enti del Ssn hanno iniziato ad applicare la nuova flat tax a tutte le ore di straordinario lavorate degli infermieri dipendenti. Fino ai primi di novembre, quando una Asl piemontese – secondo quanto raccolto da ilfattoquotidiano.it – ha posto un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate. L’azienda ha chiesto al Fisco se anche le ore di pronta disponibilità fossero da considerare come straordinari, e quindi da sottoporre alla flat tax. L’Agenzia ha risposto dando un’interpretazione restrittiva della norma: la detassazione al 5% si applicherebbe solo allo straordinario regolato dall’articolo 47 del contratto collettivo del comparto sanità, escludendo invece le ore di pronta disponibilità, regolate dall’articolo 44. Detto fatto: le aziende hanno colto la palla al balzo e si sono subito attivate per recuperare le somme detassate nei mesi scorsi, disponendo il recupero dell’Irpef non trattenuta fino ad oggi. Il fatto è che le ore di pronta disponibilità sono a tutti gli effetti ore di lavoro straordinario. Si tratta, infatti, di una reperibilità svolta oltre l’orario ordinario: l’infermiere deve essere pronto a rientrare in struttura rapidamente in caso di urgenza. Ad esempio per una sala operatoria da aprire la domenica o per un intervento chirurgico d’emergenza da effettuare di notte. Al di fuori, dunque, delle 36 ore settimanali previste da contratto. Nonostante questo, secondo l’Agenzia, “pur se anche retribuibili a titolo di straordinario, le ore di pronta disponibilità non possono essere assimilate alla fattispecie delle prestazioni” soggette alla flat tax, perché la Legge di Bilancio 2025 non le nomina espressamente, né fa riferimento all’articolo 44 del Ccnl. Ovvero quello che le disciplina. Un’interpretazione definita “incomprensibile sul piano giuridico e incoerente su quello economico” dal sindacato di categoria Nursind, che ha portato alla luce la vicenda attraverso la denuncia del suo segretario nazionale, Andrea Bottega. Ma la lettura dell’Agenzia delle Entrate è stata smentita anche da un documento ufficiale del governo. Il 20 novembre scorso, infatti, l’Ufficio legislativo del ministro per la Pubblica Amministrazione ha inviato un suo parere al Fisco, chiarendo che la detassazione deve applicarsi anche al lavoro straordinario derivante dalla pronta disponibilità, perché ogni ora effettivamente lavorata oltre l’orario contrattuale “è qualificata e retribuita come lavoro straordinario”, indipendentemente dalla causale. Inoltre, il documento governativo precisa che le coperture economiche per questo provvedimento, indicate nella relazione tecnica della Manovra 2025, includono anche la pronta disponibilità. Tradotto: lo Stato ha già calcolato il costo dell’intero straordinario infermieristico, senza distinzioni tra le due tipologie. Una presa di posizione netta, che smentisce chiaramente l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate: le aziende hanno chiesto soldi indietro agli infermieri senza che ci fosse alcuna base normativa a giustificarle. Ora resta da capire come faranno gli infermieri a recuperare ciò che spetta loro. “Avevamo già inviato una diffida formale a tutte le aziende sanitarie d’Italia, ai presidenti di Regione e all’Agenzia delle Entrate. Ma le Asl ci hanno risposto, in sostanza, che non gliene fregava niente e che avrebbero effettuato comunque la trattenuta nelle buste paga di novembre. Cosa che è effettivamente successa”, commenta a ilfattoquotidiano.it Andrea Bottega. “Ora ci aspettiamo che l’Agenzia delle Entrate faccia un passo indietro e comunichi che la sua interpretazione era scorretta – prosegue -. E siamo in attesa anche di un parere chiarificatore dal ministero della Salute”. La cosa che più amareggia il segretario è che, in un momento delicato come quello attuale, caratterizzato da una forte crisi della professione, le aziende si siano mosse con tale decisione per smantellare una delle poche misure che effettivamente valorizza il ruolo degli infermieri. “È ormai noto a tutti che in Italia mancano decine di migliaia di professionisti, se non di più. Tutti gli studi italiani e internazionali lo ribadiscono. Come possiamo giustificare questo accanimento su una categoria di cui il nostro Ssn avrebbe così drammaticamente bisogno?”. L'articolo Caos sugli straordinari degli infermieri, trattenute anomale in busta paga. Il governo smentisce il fisco: chiesti indietro soldi senza motivo proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Medici di famiglia dipendenti del Servizio sanitario”: Garattini mi dà ragione. Schillaci, batti un colpo!
Cosa aspetti, collega Schillaci? Aspetti che il Servizio Sanitario Nazionale imploda? Aspetti che i cittadini italiani si ammalino irreversibilmente? Favorisci, insieme ai tuoi colleghi, il continuo allontanamento dei cittadini dalla politica perché non credono più ai vostri sproloqui? Tu che fai il medico e che sicuramente dovesti avere prontezza di riflessi nel campo sanitario si sono un po’ rallentati? Oggi sono felice perché per chi mi legge, e per chi non lo ha fatto può andare a leggere i miei articoli degli ultimi anni, posso dare una notizia entusiasmante. Anche il prof Garattini ha detto in una intervista che “i medici di famiglia devono diventare dipendenti del SSN”! Sante parole sembra abbia, lui sì, letto le mie! Ma con tutto il rispetto, caro prof Garattini, per avere veramente una svolta occorrerebbero che i medici di base si allocassero in strutture ospedaliere, pubbliche o private accreditate, non nelle case di comunità, costose isole nel deserto! Ed ancora, caro prof Garattini, per allontanarci ancor più dai sindacati dei medici di base che vogliono difendere il lavoro di privati accreditati, occorre fondare una nuova facoltà di Medicina del Territorio che sforni ogni cinque anni nuovi medici che facciano solo il primo contatto in strutture ospedaliere che hanno tutto per giungere ad una diagnosi ed una terapia più utile al paziente. Lasciando finalmente liberi i Pronto Soccorso per le vere urgenze. Perché, altrimenti, le sue ultime parole saranno sicuro da prendere come un presagio non troppo lontano: “Io ho vissuto il periodo in cui il Servizio sanitario nazionale non esisteva – ha detto –. Mio padre dovette prendere un secondo lavoro per curare i familiari, perché bisognava pagare tutto. Oggi si rischia di tornare a quella situazione, e questo dobbiamo assolutamente evitarlo”. Schillaci, batti un colpo se ci sei. Partiamo da qui subito per una riforma epocale prima che il paziente, inteso come SSN, muoia. L'articolo “Medici di famiglia dipendenti del Servizio sanitario”: Garattini mi dà ragione. Schillaci, batti un colpo! proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Le Rsa venete sono piccoli ospedali a pagamento”. Dopo il taglio dei reparti ospedalieri per i ricoveri lunghi
Fare uscire gli anziani malati cronici dal Servizio sanitario nazionale? In Veneto non siamo molto lontani a sentire i dati snocciolati dalla consigliera regionale Anna Maria Bigon (Pd), che è anche vicepresidente della Commissione Sanità. Le case di riposo venete, spiega, sono ormai “dei piccoli ospedali”, solo che non sono attrezzate per esserlo e non hanno il personale adatto. E a differenza degli ospedali, le rette sono a carico delle famiglie. “I posti nelle case di riposo sono sempre più insufficienti: a fronte di una lista d’attesa di 10mila persone, ci sono 32.983 posti letto, l’84% dei quali è parzialmente coperto da un’impegnativa regionale che versa 52 euro al giorno a persona (57 per chi soffre di malattie neurodegenerative)”. Quindi più di 5mila famiglie pagano la retta intera, mentre quasi 28mila ne pagano circa la metà e altri 10.000 sono fuori dalla porta in coda. “Basterebbero 46 milioni di euro per arrivare a coprire il 90% almeno delle impegnative e circa 60-70 milioni per arrivare a totale copertura”, calcola Bigon che è in corsa per le regionali venete che sono alle porte. Ma il punto che solleva non è tanto, o soltanto, questo. Il punto è che nel 2019 il Veneto ha stabilito di chiudere i reparti ospedalieri di lungodegenza. Avrebbe dovuto rimpiazzarli con 70 ospedali di comunità, ma a oggi non ne ha realizzati più di 35. E nel frattempo i pazienti delle lungodegenze sono passati alle case di riposo, occupando quasi tutti i posti disponibili. “Adesso le schede di valutazione multidisciplinari che vengono fatte per l’accesso alle case di riposo, le svama, hanno punteggi sempre più alti… in pratica per entrare devi essere gravissimo, qualche anno fa si entrava con una valutazione più bassa. Quindi entrano quelli più gravi, ma non è che gli altri che stanno fuori hanno meno urgenza – spiega – Fino al 2019 avevamo i reparti sanitari di lungodegenza dove venivano accolte le persone con tante patologie come accade adesso nelle case di riposo”. Ovviamente essendo un ospedale, non c’era una retta da pagare. Così come non ci sarebbe stata se fosse andata a buon fine la sostituzione con gli ospedali di comunità. Anche se in questo caso c’è una questione di sostanza: le lungodegenze ospedaliere sono reparti che accolgono malati acuti, gli ospedali di comunità invece sono strutture che nascono sul territorio per i malati di media intensità, sono strutture a metà strada tra l’ospedale per acuti e la casa. E comunque non ne sono stati realizzati abbastanza. “Così le famiglie non hanno più avuto pari servizio e si sono rivolte alle case riposo”, sintetizza Bigon. Possiamo dire che la sanità veneta ha risparmiato sulla spesa per gli anziani malati cronici, spostandoli di fatto e al di là delle intenzioni, dai reparti sanitari di lungodegenza alle case di riposo che invece sono strutture socioassistenziali? “Sì, in buona parte sì. Non sono tutti anziani, parliamo di non autosufficienza, ma la maggior parte è anziana. Non necessariamente perché lo voglio, ma è il provvedimento stesso che di fatto rende necessario l’inserimento del malato in casa di riposo nel momento in cui chiudo i reparti di lungodegenza, che sono un costo completamente a carico del fondo sanitario”. I reparti ospedalieri di lungodegenza sono quelli nei quali vengono ricoverati i malati che hanno bisogno di più tempo di cura, si può arrivare anche a due o tre mesi, una novantina di giorni. I pazienti più ricorrenti sono gli anziani con diverse patologie, gli stessi che nelle case di riposo del Veneto hanno una degenza media di 217 giorni. L'articolo “Le Rsa venete sono piccoli ospedali a pagamento”. Dopo il taglio dei reparti ospedalieri per i ricoveri lunghi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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