tascabile

Animali in guerra
U n rivolo di sangue sgorga dal muso di una capra. È distesa su un fianco, sul terreno umido a tratti tappezzato di muschio e ricoperto da una pioggia di frammenti di legno, metallo e vetro. Un occhio aperto, lo sguardo nel vuoto, la pelliccia sporca e la pelle squarciata. Poco più lontano è visibile un altro esemplare, perso tra i detriti, anche lui privo di vita. Intorno a loro c’è neve e distruzione: finestre rotte, tetti divelti da cui spuntano murature decorate e totem colorati. Il Feldman Ecopark, uno zoo alla periferia di Charkiv, in Ucraina, il 2 marzo 2025 è stato colpito durante l’attacco russo di droni Shahed, armi kamikaze a lungo raggio. I due ungulati uccisi, tra cui una femmina gravida, erano stati precedentemente salvati da una zona di combattimento e portati nel parco, con la speranza che potessero sopravvivere. Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro incomprensibile. I conflitti armati possono esasperare l’ambiguità che caratterizza il nostro rapporto con gli altri animali. Sono una lente impietosa sugli abissi della nostra morale. Il massacro di Londra e i gatti di Gaza Dai primi mesi del conflitto russo-ucraino, i media hanno diffuso immagini di profughi costretti ad abbandonare casa e affetti. Alcuni sono accompagnati dagli animali con cui, fino a quel momento, avevano condiviso la propria vita, allo stesso tempo simbolo e incarnazione di una dimensione familiare. Quelle mostrate nei telegiornali e sulle piattaforme social sono rappresentazioni accoglienti, che suscitano empatia e fanno quasi dimenticare il prezzo da sempre pagato dagli animali da compagnia in zone di guerra, che invece, spesso, sono considerati oggetti da sacrificare o legami da rompere per disumanizzare il nemico. > Gli animali sono spesso considerati vittime di serie B della guerra, che la > società ci insegna a far passare in secondo piano rispetto al dramma umano, > sebbene sopportino una violenza dirompente, spaventosa e per loro > incomprensibile. Era il 3 settembre 1939 quando la BBC annunciò che la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale. Alla cittadinanza venne chiesto di prepararsi ai raid aerei e una precauzione su tutte probabilmente raggelò il sangue degli inglesi: il governo li sollecitò a portare i propri animali domestici nelle campagne e, nel caso non ci fossero stati vicini disponibili a occuparsi di loro, a sopprimerli con l’aiuto di un veterinario. Senza curarsi dell’opposizione di alcuni gruppi di protezione animale, circa 400.000 tra gatti, cani, uccelli e conigli vennero eliminati, come racconta la storica Hilda Kean nel suo libro The Great Cat and Dog Massacre (2017). Ci fu chi obbedì forse con pochi scrupoli, chi soppresse i propri compagni non umani per risparmiare loro la sofferenza dei bombardamenti, chi li graziò e, in qualche modo, ne riconobbe l’individualità e una forma di agentività, condividendo con loro il cibo, gli spazi, la paura e il dolore. Quest’ultimo caso ci porta a Gaza, ai giorni nostri. Le immagini che ci sono giunte mostrano gatti feriti e traumatizzati dallo scoppio delle bombe, dalla perdita di un rifugio, dalla fame e dalla sete, ma anche salvati da medici e veterinari, aiutati e accolti dai palestinesi o, ancora, con le loro famiglie umane mentre vivono insieme piccoli momenti di spensieratezza. Neha Vora, docente di antropologia nel Dipartimento di Studi internazionali dell’American University of Sharjah negli Emirati Arabi Uniti ha commentato così queste storie: > Quello che i gatti di Gaza ci insegnano è che il trauma della Palestina è un > trauma multispecie. Non ci insegnano che anche i palestinesi sono umani, > poiché questa è un’affermazione che continua a definire l’umano contro > qualcosa che non è, qualcosa che sarà sempre escluso, abietto e quindi > eliminabile. Credo che i palestinesi e i loro gatti siano così coinvolgenti > per molti di noi perché sfidano le visioni liberali dell’umanità e le > smascherano come modi coloniali di definire il mondo, la soggettività e le > fantasie di libertà. L’“Umanità” non ci condurrà mai a una giustizia e pace > universali. Umanità. È una parola che apparentemente si collega allo stesso universo semantico della compassione e della pietà, ma che in realtà si nutre di una visione gerarchica del mondo naturale, in cui l’animale è inferiore, e animale diventa o deve diventare chiunque incarni il nemico da combattere. Una prospettiva che, in parte e non a caso, ritroviamo nella struttura e nella gestione degli zoo, in cui le sbarre o altre barriere separano gli esseri umani dalle altre specie esposte e nei quali siamo sempre noi a poter decidere delle loro esistenze secondo le nostre necessità Un’ingannevole arca di Noè Nel volume World War Zoos. Humans and Other Animals in the Deadliest Conflict of the Modern Age (2025), lo storico John M. Kinder ricostruisce la vita degli zoo dal periodo della Grande depressione alla Seconda guerra mondiale, fino ai primi anni della guerra fredda. Kinder illustra come la visione gerarchica degli esseri viventi, e in particolare la disumanizzazione di determinati gruppi, fosse un aspetto centrale dell’ideologia nazista, evidente nel modo in cui venivano trattati sia gli esseri umani sia gli animali. > Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a > giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Un esempio emblematico è quello del campo di concentramento di Buchenwald e del suo giardino zoologico. Il progetto, sostenuto sin dall’inizio da Karl-Otto Koch, a capo del campo dal 1937 al 1941, era pensato come luogo ricreativo ed edificante per le SS e le loro famiglie e come una fonte di umiliazione e tormento per i prigionieri. Lo zoo serviva, infatti, a ricordare loro la presunta inferiorità rispetto agli animali in gabbia: gli umani reclusi erano spogliati della dignità, resi sacrificabili per qualsiasi contingenza e costretti persino a finanziare la struttura con “contributi volontari”. Gli animali di Buchenwald ricevevano un’alimentazione migliore dei prigionieri, tanto che molti di loro cercavano di lavorare nello zoo per ottenere una razione extra. Kinder spiega: > Il legame retorico tra animali ed Ebrei, l’obiettivo principale della > Soluzione finale di Hitler, giocò un ruolo importante nel legittimare > l’Olocausto agli occhi dei suoi esecutori. Esisteva una lunga storia di > equiparazione degli Ebrei ad animali (maiali, cani) e a malattie, amplificata > dai propagandisti nazisti. Le metafore legate agli animali sono servite e servono ancora oggi a giustificare i delitti commessi e a comprendere e articolare azioni aberranti. Per descrivere l’uccisione da parte di privati cittadini di civili indifesi nell’assedio di Sarajevo, durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina degli anni Novanta, si usano termini come “attività venatoria”, “cacciatori”, “prede” e “safari”. Le notizie parlano di gruppi di cecchini/cacciatori che spendevano cifre nell’ordine di grandezza di decine di migliaia di euro per sparare a persone indifese, trasformate in target classificati in base a un tariffario, esattamente come accade nei safari di caccia in Africa. Se nel vecchio continente gli obiettivi più costosi sono specie iconiche e minacciate dall’estinzione, come leoni, elefanti e rinoceronti, nei Balcani sembra che bambine e bambini fossero in cima al listino. Non più vite, solo trofei da collezionare. Allo stesso modo, come evidenziato da Kinder nel suo libro, durante il secondo conflitto mondiale e anche in seguito, gli zoo offrirono alle persone metafore per aiutarle a comprendere le esperienze di prigionia, impotenza e degradazione. In quegli anni le gabbie divennero teatro di orrore, dolore e ideologia. I destini di gran parte degli esemplari rinchiusi negli zoo furono impietosi. Alcuni riuscirono a esser trasferiti in luoghi più protetti, mentre molte delle specie più pericolose, quelle carnivore o velenose, furono uccise per evitare che costituissero un’ulteriore minaccia in caso di fuga dopo un bombardamento. La stessa sorte toccò agli animali più costosi da mantenere, tra cui quelli marini. Molti altri rimasero intrappolati, senza la possibilità di mettersi in salvo: morirono di fame e di sete tra atroci sofferenze, subirono le esplosioni riportando ferite, orribili mutilazioni e danni psicologici irreparabili o divennero oggetto di saccheggio e di improvvisate battute di caccia. Accadde proprio questo nel 1939, durante l’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista. Il direttore dello zoo di Berlino, Lutz Heck, dopo aver messo da parte gli esemplari più pregiati dello zoo di Varsavia, permise ad alcune SS di usare gli animali ancora in gabbia come bersagli per la notte di Capodanno. > Un tempo i giardini zoologici erano perlopiù luoghi di intrattenimento, e una > dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni > esemplari provenivano. Oggi gli obiettivi dichiarati sono l’educazione, la > ricerca e la conservazione. Ancora oggi gli animali degli zoo sono costretti a spostarsi sotto i bombardamenti, le loro vite vengono distrutte dalle esplosioni, dalla fame e dalla sete, o diventano cibo per soldati. Nella prima parte del Ventesimo secolo, i giardini zoologici erano per lo più luoghi di intrattenimento e una dimostrazione del potere degli Stati sulle proprie colonie, da cui alcuni esemplari provenivano. Attualmente i tre principali obiettivi di queste istituzioni sono l’educazione, la ricerca e la conservazione. Quest’ultimo scopo prevede la tutela di specie a rischio di estinzione attraverso progetti in situ, in cui gli esemplari sono protetti nei loro habitat, e attività ex situ, che prevedono la detenzione di individui in cattività per il mantenimento di popolazioni di animali che potrebbero scomparire in natura. Gli zoo sono, quindi, una sorta di arca di Noè la cui efficacia, secondo Kinder, è dubbia, soprattutto in tempi di guerra: > Se gli zoo vogliono sopravvivere ai conflitti di questo secolo, devono > abbandonare la metafora dell’arca. Di fronte alla minaccia di catastrofiche > perturbazioni climatiche, il mondo non ha bisogno di una flotta di scialuppe > di salvataggio progettate per aiutare specie selezionate ad attraversare > quaranta giorni e quaranta notti metaforiche di tumulto. Piuttosto, abbiamo > bisogno di una strategia per sopravvivere a un clima alterato a tempo > indefinito. Come minimo, dobbiamo porci domande difficili sul fatto che i > vantaggi degli zoo superino i loro evidenti svantaggi, incluso il disagio > fisico e mentale sopportato dalle specie in cattività. La promessa di salvezza degli zoo sembra ancora più debole nelle zone di conflitto, dove ai danni apportati a queste strutture e ai loro occupanti si sommano ingenti disastri ambientali. I pericoli per la fauna selvatica e il reato di ecocidio Le lotte armate hanno spesso luogo in ecosistemi fragili e hotspot di biodiversità, producendo conseguenze devastanti su molte specie di animali selvatici. Nella Repubblica Democratica del Congo, anni di guerra hanno ridotto significativamente la popolazione di ippopotami: dai circa 30.000 esemplari, presenti nel 1974, si è passati a meno di 1000 verso la fine della guerra civile congolese, nel 2005. Gli esemplari sono poi aumentati fino a 2500 nel 2018, per poi essere nuovamente minacciati dai gruppi di ribelli, che hanno iniziato a cacciarli di frodo per venderne la carne e finanziare le loro attività. A oggi la popolazione di questi mammiferi si attesta intorno ai 1200 esemplari, sui quali incombono nuovi pericoli, come l’avvelenamento da antrace. In Mozambico la guerra civile, combattuta tra il 1977 e il 1992, ha portato all’uccisione di circa il 90% degli elefanti, le cui zanne in avorio erano vendute per sovvenzionare i combattenti. La caccia intensa avrebbe addirittura favorito la mutazione genetica associata alla mancata formazione delle zanne nelle femmine. In Iraq, nel 2016, l’ISIL (Islamic State in Iraq and the Levant) ha attaccato una raffineria di petrolio. Poco meno di venti pozzi esplosi hanno causato l’innalzamento di una nube tossica e una massiccia fuoriuscita di petrolio. Il risultato è stato la contaminazione di suolo e acque, un ostacolo concreto alla sopravvivenza della vicina cittadina di Qayarrah e un gravissimo danno per la fauna della regione. Le invasioni militari possono persino portare all’introduzione volontaria o accidentale di specie aliene, in grado di esercitare impatti negativi sugli ecosistemi delle aree conquistate e sui loro abitanti. Oggi sappiamo bene quanto queste azioni possano produrre danni irreparabili all’ambiente, con un effetto domino che potrebbe estendersi globalmente, eppure non abbiamo a disposizione strumenti abbastanza efficaci per arginarli. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, nell’articolo 8 (2)(b)(iv) sui crimini di guerra, prevede che sia considerato reato lanciare attacchi deliberati nella consapevolezza di produrre “danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti”. Una norma eccessivamente generica, una lacuna giuridica che si sta cercando di colmare da decenni spingendo per il riconoscimento del reato di ecocidio. > Oggi sappiamo quanto le guerre possano produrre danni irreparabili > all’ambiente, con effetti di portata globale, eppure non abbiamo a > disposizione strumenti efficaci per arginarli. Il riconoscimento del reato di > ecocidio è un passo importante in questa direzione. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal biologo Arthur Galston, negli anni Settanta, per descrivere la deforestazione su larga scala causata dall’uso dell’Agent Orange da parte degli Stati Uniti d’America durante la guerra del Vietnam. Negli anni Duemila il concetto è stato riproposto dall’avvocata Polly Higgins e infine, nel 2021, è stata presentata una definizione legale alla Corte penale internazionale, per cui “‘ecocidio’ significa atti illegali o arbitrari commessi nella consapevolezza di una sostanziale probabilità di causare un danno grave e diffuso o duraturo all’ambiente con tali atti”. Sono crimini non riconosciuti che continuano a essere perpetrati senza la certezza di un processo e di un’eventuale condanna dei colpevoli: alcuni esempi recenti sono la distruzione della copertura arborea e dei terreni agricoli di Gaza, con fattorie e uliveti abbattuti, suolo, falde acquifere, mare e aria inquinati, e l’impatto sugli ecosistemi e la biodiversità del conflitto in Ucraina. Gli animali non umani sembrano quasi invisibili in questi scenari, sebbene la loro esistenza presente e futura venga cancellata attraverso le uccisioni e la distruzione degli habitat in cui prosperano. Violenze necessarie: al punto di dissoluzione del Diritto internazionale umanitario Non sono solo gli animali da compagnia, quelli degli zoo e la fauna selvatica a subire gli effetti degli scontri. Gli animali allevati vengono macellati, rubati, bombardati o lasciati morire di fame. Esistono specie utilizzate direttamente nei conflitti come mezzi di trasporto, tra i quali ci sono i cavalli, gli asini, i muli, gli elefanti e i cammelli, mammiferi addestrati a rilevare esplosivi, quali elefanti, cani e ratti, oppure cetacei preparati per cercare sottomarini e lasciati esplodere per distruggerli, tra cui i delfini. Come illustra l’articolo “Animals in War: At the Vanishing Point of International Humanitarian Law”, pubblicato nel 2022 nell’International Review of the Red Cross, malgrado la loro vulnerabilità nelle situazioni appena descritte, gli animali sono ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che rimane prevalentemente antropocentrico. Essi non godono di uno status legale esplicito, non ne viene riconosciuta la senzienza, né sono concessi loro diritti, nonostante ci siano alcuni Paesi i cui ordinamenti giuridici hanno cominciato a considerare la soggettività e la capacità di provare dolore di questi esseri viventi. Anne Peters e Jérôme de Hemptinne, autori della pubblicazione, suggeriscono due strategie principali per affrontare la mancanza di una specifica protezione nel diritto internazionale umanitario. La prima consisterebbe nell’applicare in modo più efficace le norme già esistenti, ampliandone l’interpretazione per includere gli animali nelle categorie protette previste: potrebbero essere assimilati a combattenti o prigionieri di guerra, a civili, oppure a oggetti. Tale approccio prevederebbe la rilettura delle disposizioni relative alla difesa dell’ambiente, del patrimonio culturale e delle aree protette, riconoscendo che gli animali sono esseri viventi capaci di provare sofferenza e grave disagio (distress). La seconda strategia contempla l’adozione di un nuovo strumento internazionale volto a riconoscere specifici diritti agli animali, in particolare il divieto di utilizzarli come armi. Si tratta di una prospettiva di lungo periodo, ancora lontana, poiché richiederebbe a molti Stati di superare profonde barriere concettuali riguardanti la personalità giuridica degli animali non umani e di accettare eventuali limitazioni nella conduzione dei conflitti armati per proteggerli. Il tutto in un contesto in cui i precedenti tentativi di varare una convenzione internazionale sul benessere animale non hanno finora riscontrato grande successo. > Malgrado la loro estrema vulnerabilità nei teatri di guerra, gli animali sono > ancora ampiamente ignorati dal Diritto internazionale umanitario (DIU), che > rimane prevalentemente antropocentrico. Però, come il giurista inglese Hersch Lauterpacht ha scritto in passato, il DIU è “al punto di dissoluzione del diritto internazionale” e gli autori del paper sostengono che in questo sia simile al diritto animale, con i debiti cambiamenti, e che la loro intersezione, seppure foriera di estreme difficoltà, non dovrebbe fermarci dal voler perseguire un’“utopia realistica” per gli animali a livello mondiale. È possibile partire dall’attuale situazione internazionale per poi cercare di ampliare quelli che sono considerati i limiti della praticabilità politica. Il DIU e il diritto legato al benessere animale sono entrambi corpi normativi che non vietano la violenza, ma concedono lo spazio a una violenza ritenuta “necessaria”, di fatto legittimandola. Sebbene, come sottolinea l’articolo, questa somiglianza dovrebbe facilitare l’estensione del campo di applicazione del DIU agli animali non umani, certamente fa emergere quella ambiguità che, anche in condizioni di pace, esiste nei trattamenti che riserviamo loro. La percepiamo quando accettiamo le condizioni in cui versano negli allevamenti intensivi oppure  la cattività e la scelta di sopprimere alcuni esemplari negli zoo per calcolo economico, perché spazio e risorse delle strutture sono limitate, o per esigenze di conservazione, al fine di mantenere l’equilibrio tra maschi e femmine di una specie o prevenire il rischio di consanguineità. O ancora, quando acconsentiamo alla sperimentazione animale. > I conflitti armati rendono ancora più tangibile l’ambiguità che caratterizza > il nostro rapporto con gli altri animali, anche e soprattutto in tempo di > pace. Il confine tra amore, rispetto per la vita degli animali non umani, violenza e sopravvivenza può farsi eccezionalmente labile. Lo spiega Kinder, sempre attingendo dall’esperienza del campo di concentramento di Buchenwald, quando parla del poema satirico Eine Bären-Jagd im KZ Buchenwald (in italiano Una caccia all’orso nel campo di concentramento di Buchenwald), scritto e illustrato dal sopravvissuto al campo Kurt Dittmar nel 1946. L’opera ripercorre la breve vita di Betti, un’orsa allevata nello zoo del campo, dall’arrivo come cucciolo alla morte per mano di un comandante. L’orsa è inizialmente servita e riverita dai detenuti per ordine delle SS, si nutre di buon cibo, gode di spazio all’interno della sua gabbia ed è per questo oggetto di invidia da parte dei prigionieri. Con il trascorrere del tempo la milizia nazista aggiunge alla collezione dello zoo altri animali e Betti, stanca della nuova compagnia, abbatte il recinto elettrico e fugge nella foresta. I detenuti tentano invano di catturarla, finché il vicecomandante non la uccide e ne riporta indietro il corpo come un trofeo. L’illustrazione di Dittmar raffigura alcuni prigionieri sconvolti davanti alla carcassa dell’orsa, consapevoli di condividere il suo destino di preda braccata. Costretti ad arrostirne le carni per la festa delle guardie, non ne assaggiano neanche un boccone, ma continuano a sognare: la libertà, il cibo e la giustizia contro i loro aguzzini. Nonostante sia ispirato a eventi reali, il poema non è un resoconto storico, ma conserva in sé una realtà difficile da accettare. Scrive l’autore di World War Zoos: > Ciò che otteniamo invece è qualcosa di più interessante: una riflessione sul > potere e sui limiti dell’empatia. Nel racconto di Dittmar, i prigionieri umani > di Buchenwald riconoscono che la vita di Betti è sempre appesa a un filo, che > lei è preziosa fino al momento in cui le SS decidono diversamente. Pure lei è > una prigioniera, anche se ha pasti migliori e una gabbia più bella. Ma questo > non significa che non proveranno a rubarle il cibo o a rosicchiare le sue ossa > spolpate. Nella Buchenwald di Dittmar, i prigionieri possono sia piangere per > l’uccisione di Betti sia sbavare affamati sul suo cadavere sfrigolante. L'articolo Animali in guerra proviene da Il Tascabile.
Scienze
animali
guerra
ecocidio
I convitati di pietra di Michele Mari
A trocemente comico e felicemente tragico: sembra muoversi all’interno di questi confini l’ultimo romanzo di Michele Mari, I convitati di pietra (2025). Il racconto di un patto e di un gruppo di compagni di liceo. Un accordo feroce che gioca sul futuro e sulla morte di ognuno di loro, una vittoria destinata solo agli ultimi che resteranno in vita, dei sopravvissuti. Sotto la tessitura di una scrittura a tratti volutamente piana e potentemente perfida, Michele Mari offre ai suoi lettori una densissima stratificazione di elementi che in questo breve romanzo vanno anche oltre l’ambito del letterario offrendo un disegno e un’idea del mondo per come è, e per come sarà, tanto efficace quanto inquietante. I convitati di pietra sembra dialogare direttamente con quello che è l’esordio di Mari nel 1989, Di bestia in bestia, ma in una forma ancora (se possibile) più estrema e formalmente rarefatta. Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela pienamente la propria forza mefistofelica. Il gioco infatti contiene sempre un inganno, una perforazione tragica che da banale dubbio/prurito si trasforma in un dolore assurdo e innominabile. Quello che nasce come un accordo fra vecchi compagni di classe, un gioco di società, ecco che assume i toni e forse la volontà inconscia di divenire un’indagine su sé stessi, ma anche sulla presenza del male nella vita di ognuno. Un male che si palesa nelle più indistinte forme, dal sacrificio alla truffa, dall’azzardo alla violenza fisica, e sempre apparentemente in forme prive di ogni ragione o motivazione: > nulla legava le loro vite al di là del fatto casuale e ormai superatissimo di > aver fatto parte della stessa classe per un pugno di anni scolastici: certo, > c’era la riffa della morte, che però, una volta impostata, poteva prescindere > dallo stanco rituale dei simposi, anzi lo doveva, se non altro per una > questione di eleganza. Già perché la tragedia non può avere spazio e sbocco se non è preceduta e sostenuta da un rito sociale fortemente costituito, in questo caso dichiaratamente borghese, che ne certifichi l’eccezionalità e al tempo stesso sollevi il consesso e i suoi astanti da ogni insinuazione di difformità sociale. L’ambito scolastico non è altro che la culla di quella classe dirigente mostruosa e sterminatrice, e al tempo stesso discreta, che Luis Buñuel ha così ben definito e a cui in parte Michele Mari sembra ispirarsi, portando però nei nomi (e soprattutto nei cognomi) dei suoi protagonisti una traccia padana la cui origine è giocosamente letteraria, e restituendo ai lettori una presenza intestinale da tinello gaddiano così come da sofà arbasiniano: “in un salone tappezzato di arazzi e di specchi oltre che di quadri, Rivadeneyra era seduto su un divano rivestito di raso giallo brodé; su due grandi poltrone di forno e alti sedevano la Bathory e Semprini”. > Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno > scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela > pienamente la propria forza mefistofelica. Se ne intravedono le grandi stanze degli appartamenti in centro, ma anche le finestre piccole dei palazzi d’inizio Novecento, le tradizioni cattoliche e i rimpianti fascisti, la vacuità da rivoluzionari distratti e la polvere di velluti consunti e di stoffe fuori moda. Dunque un po’ Il fascino discreto della borghesia e un po’ Venga a prendere il caffè… da noi: “Questo, in ordine alfabetico, il quadro risultante: Bathory: mastectomia. Brancigalievore: diabete; prostatite. Brodo: Parkinson. Coppo: epilessia. De Cruce: artrite reumatoide; isterectomia. Gaudillo: disfunzione epatica; flebite; safenectomia. Mascolo: gastrointerite cronica; asportazione di un linfonodo. Mercandalli: due stent coronarici e un by-pass. Migliavacca: ovaio politeistico; acufene…”. Michele Mari immerge i suoi personaggi ultracontemporanei eppure già millenari, in una vicenda che li vede protagonisti fino al 2050. Classe dirigente in disarmo, ma soprattutto classe sopravvissuta a un tempo mai compreso per davvero, così come lo stesso gioco, una tragica riffa che sembra avvilupparsi anno dopo anno come un fenomeno autonomo dentro cui è impossibile cogliere una singola ‒ così come una collettiva ‒ responsabilità. Tutto si muove all’interno di un andazzo casuale, con i protagonisti che si vivono sempre colti di sorpresa, sempre in ritardo, sempre stupiti. Un precipitare indefesso degli eventi che sembra in qualche modo giustificare lo scomposto atteggiamento di questa classe di sconvolti perenni sempre ostinatamente avulsi dal proprio tempo. E proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di loro. I convitati di pietra assume il tono così anche di una critica esatta e puntuale a una società che nemmeno più sembra in grado di mettere in scena uno spettacolo, un circo Barnum fatto di fenomeni da baraccone in strenuo tentativo di mascheramento. Ognuno ricerca una dignità e insegue un’identità che possano essere riconosciute e validate, accettate e ritenute autorevoli e distinte. Mascheramenti ancor più alienanti della stessa “mostrizzazione” in atto. Un vezzo e un trucco finale che apre inevitabilmente la porta all’orrore e a una violenza che, anche quando non appare conclamata, attraversa le persone, le loro coscienze e i loro corpi, fino a far tremare il sangue nelle vene. Un’estesa provincia urbana priva di discontinuità dentro alla quale ogni relazione sottende una violenza più o meno apparente, un gioco tragico la cui uscita vede solo la possibilità della morte. > Proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una > dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo > ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di > loro. Il mondo non si distingue da una scuola, con le sue regole e le sue campanelle a conclusione di ogni ora, così come i suoi giovani studenti non sembrano esaurire la loro carica di ambizione e presunzione, ma solo adagiarsi in corpi sempre più invecchiati, flosci e indeboliti. Il microcosmo, la quotidianità, il minimo esistere è ormai totalmente aderente al cosmo intero, alla mondanità e all’eccezionalità. Tutto appare naturale, ma in realtà quel tutto nasconde e ottunde ‒ non riuscendo più a opporsi ‒ proprio quell’essere naturale che diviene nella sua ferocia sempre più estraneo a una vitalità di maniera e a una posa e a un’ipocrisia ritenuta quale l’ultima spiaggia di una civiltà più che possibile, quanto meno accettabile. La tragedia, in I convitati di pietra, non ha bisogno infatti di compiersi o di palesarsi nel divenire della trama romanzesca, ma si mostra da subito icasticamente, pur restando discosta oltre i tendaggi sfarzosi e boriosi di un gioco da privilegiati: “salutato inizialmente come una trovata tanto geniale quanto divertente (oltre che, andava da sé, come prova di un’intelligenza superiore), era destinato, anno dopo anno, a rivelare la propria disumana spietatezza”. La condanna appare così subito nella prima pagina, quello che viene dopo riguarda un gusto obbligato per l’orrore che diviene necessità. L’ultimo strumento pienamente umano è infatti l’orrore stesso, utile a restituire una sostanza fisica a un’esistenza immaginaria dentro alla quale si è creduti intelligenti e furbi, colti e atletici e in cui ci si ritrova sempre e solo in stato di abbandono. Si resta attoniti e senza fiato nell’attraversamento di queste centosessanta pagine dentro cui la vita è perenne gioco, ovvero perenne stato d’angoscia. L'articolo I convitati di pietra di Michele Mari proviene da Il Tascabile.
Recensioni
narrativa italiana
Shifty. Cos’è andato storto?
L’ intero universo e tutti i suoi fenomeni fisici possono essere ricondotti a un unico modello matematico? C’è stato un tempo in cui ci si illuse che fosse possibile, quando a Stephen Hawking veniva assegnata la cattedra, che in epoca moderna era stata di Isaac Newton, all’Università di Cambridge. Nel 1979, insieme al suo gruppo di ricerca, Hawking lavorava alla teoria del tutto, chiamata anche TOE (Theory Of Everything). Quello stesso anno, si scatenò una tempesta improvvisa, che nessuna stazione meteorologica era stata in grado di prevedere. Nonostante l’attivazione di imponenti operazioni di soccorso, lo scrittore irlandese James Gordon Farrell perse la vita nella Baia di Bantry. Era l’autore della cosiddetta Trilogia dell’Impero (1970-1978), una serie di romanzi sulle conseguenze del colonialismo britannico nel mondo. Qualche mese prima, Margaret Thatcher vinceva le elezioni e diventava primo ministro del Regno Unito, incarico che ricoprì per undici anni consecutivi. Come Hawking, anche Thatcher aveva una sua teoria totalizzante e un metodo per dimostrarla, ma anche uno scopo ben preciso da raggiungere. La teoria implica che il capitalismo sia l’unico sistema economico praticabile, al quale non è possibile contrapporre un’alternativa, ed è sintetizzata nello slogan “There is no alternative”, contratto in TINA. Il metodo prevede l’attuazione di misure come le privatizzazioni e il monetarismo, e l’obiettivo era quello di cambiare la psicologia dei suoi conterranei per portarli a rivivere i grandi fasti del passato, quando il Regno Unito era la più grande potenza al mondo. Thatcher intendeva condurre il suo Paese verso il futuro, tornando al passato, e rafforzare l’orgoglio identitario nazionale attraverso la promozione di una società atomizzata e individualista. Secondo la sua prospettiva, i cittadini britannici avrebbero dovuto emanciparsi dall’assistenzialismo statale a partire dalla questione abitativa: ognuno avrebbe dovuto possedere una casa di proprietà e questo sarebbe stato possibile attraverso l’erogazione di mutui a tasso variabile. Nella sua visione, il mondo intero si riconduceva a un unico modello economico, sociale e politico, secondo i precetti del conservatorismo. Prometteva di cambiare tutto senza cambiare niente, glorificando le tradizioni e feticizzando ciò che la storia avrebbe lasciato in eredità al suo popolo. > Nell’ultima docuserie realizzata per la BBC, Shifty, Curtis mixa filmati > d’archivio come tracce di un set di musica elettronica, caotico e stordente, > ripercorrendo gli ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo > millennio. Per il giornalista e regista inglese Adam Curtis, Hawking e Thatcher sono due delle personalità principali connesse dal filo conduttore che percorre gli ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo millennio. Nell’ultima docuserie realizzata per la BBC, Curtis mixa filmati d’archivio come tracce di un set di musica elettronica, caotico e stordente, adottando il tipo di montaggio caratteristico dei suoi ultimi lavori prodotti per la medesima emittente. Si intitola Shifty (2025) e condensa in cinque episodi da circa un’ora molti dei temi cari all’autore, approfonditi in altre produzioni come HyperNormalisation (2016), il documentario nel quale sostiene che, dagli anni Settanta in poi, governi, finanzieri e imprenditori dell’industria hi-tech abbiano progressivamente rinunciato ad affrontare le complessità del reale, scegliendo di fabbricare un mondo artificiale, più semplice da gestire e rassicurante da abitare. L’idea di fondo è che la reiterazione di questa finzione collettiva finisca per trasformarsi in una nuova normalità: un universo al quale tutti si adeguano, pur di evitare il confronto con il disordine del presente. Il concetto di reiterazione (inteso come prassi per rafforzare l’immaginario egemonico della società dei consumi) è stato indagato anche da Lauren Berlant nel saggio Cruel Optimism (2011). L’autrice interpreta il presente storico come un tempo sospeso in cui il desiderio di una “vita buona”, una vita normale, è paradossalmente condizionato dalla sua impossibilità strutturale di essere esaudito. L’ottimismo crudele, cifra della condizione neoliberale, nasce proprio da questo cortocircuito: l’adesione alla normatività e la fede nelle sue promesse, mantengono i soggetti ancorati a un presente logorante, fatto di rituali ripetitivi e di speranze differite, come traguardi irraggiungibili e lontani. In questo senso, sotto la lente di Berlant si teorizza la tenuta del modello economico capitalistico e la sua forza conservatrice, capace di perpetuarsi attraverso la produzione di affetti e aspettative. Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro, mostrato in Shifty da Curtis. Quando si producono orizzonti immaginifici, si manipola anche la realtà, nella sua accezione, più prettamente umana di Storia. Non a caso, il primo episodio della docuserie è intitolato The land of make believe, il mondo delle favole, e mette al centro l’illusione politica con la quale ha incantato i suoi elettori per un decennio. L’episodio si apre con una breve sequenza, estrapolata dal vastissimo archivio della BBC, che mostra la Thatcher sull’uscio di una sala da pranzo mentre incoraggia un gruppo di bambini a entrare nella stanza, assieme a una celebrity discutibile: Jimmy Savile. > Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un > immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la > leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro. Si trattava di un personaggio vicino alla leader dei conservatori, il quale aveva percorso una parabola che dalle miniere di carbone lo aveva portato a diventare DJ, conduttore radiofonico e televisivo molto famoso nel Regno Unito. Solo dopo la sua morte, emersero delle accuse di stupro che intaccarono la sua memoria. Per molti aspetti, Jimmy Savile incarnava la storia del suo Paese: le miniere di carbone vennero dismesse a partire dagli anni Ottanta, così come le fabbriche e le industrie, per essere sostituite da un altro modello economico, regolato dai mercati finanziari, basato sulla vendita di servizi e sulla speculazione immobiliare. Era lo stadio germinale del sistema tardocapitalista nel quale oggi sprofonda l’Occidente, trascinando con sé il resto del mondo. Curtis mostra agli spettatori il veloce declino politico della storia recente del suo Paese, ma a differenza dei progetti precedenti, il commento del regista alle riprese d’archivio non è in voice over, bensì sotto forma di didascalie narrative. La tesi di fondo del regista è suggerita e mai davvero del tutto approfondita: sfugge e si dissolve, esattamente come il sistema sociale che racconta. Ne risulta un vortice caleidoscopico e stordente, accentuato da un accompagnamento sonoro che va dai Joy Division a Gigi D’Agostino, passando dalla guerra delle Falkland agli scontri con l’IRA e alla censura della BBC di Relax (1984) dei Frankie Goes to Hollywood. I cinque episodi di Shifty tengono insieme house party e storia economica, cultura pop e guerre imperialiste; accennano a cospirazioni e segreti, massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false promesse, come quelle di Thatcher ai suoi elettori, ma anche di Tony Blair e Gordon Brown. Si allude anche alla “Stalker Inquiry”, la commissione parlamentare istituita per indagare sugli abusi delle forze di polizia britanniche in Irlanda del Nord, immediatamente archiviata. Dalla visione dell’intera serie, si potrebbe dedurre che Curtis volesse trasferire al suo pubblico il comune sentire di quelle due decadi di fine Novecento, sospese verso un futuro inconsistente, vuoto come le ragioni che spinsero all’edificazione del Millennium Dome, l’arena polifunzionale che fu costruita a Londra per ospitare una grande esposizione celebrativa del terzo millennio. > I cinque episodi di Shifty tengono insieme house party e storia economica, > cultura pop e guerre imperialiste; accennano a cospirazioni e segreti, > massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false promesse. La docuserie è costellata di personalità ambigue, oggetto di scandali, come Geoffrey Prime, un’ex spia britannica, condannato per abusi sessuali su minori e per aver rivelato informazioni riservate all’Unione Sovietica. Curtis si sofferma anche su Cecil Parkinson, segretario di Stato sotto il primo governo Thatcher, costretto a dimettersi dall’incarico quando la sua relazione extraconiugale venne a galla. Poi, la corruzione di alcuni esponenti dei Tory, uno fra tutti Ian Greer, coinvolto in prima persona nel “cash-for-questions affair” insieme all’imprenditore egiziano Mohamed Al-Fayed, che aveva rilevato il famoso centro commerciale di lusso Harrods. Curtis si sofferma su Al-Fayed in diversi episodi di Shifty e nell’ultimo monta un estratto di un’intervista durante la quale l’imprenditore afferma, senza alcun rimpianto, di aver fatto affari con Greer semplicemente perché voleva fare soldi. Infine, si autoassolve e dichiara, con parecchio sdegno, che un grande paese come il Regno Unito si era ridotto a essere amministrato da un gruppo di delinquenti senza morale né etica. Oltre agli scandali, le clip selezionate da Curtis raccontano anche i grandi eventi cardine del suo Paese alla fine del Novecento, come il Big Bang: il boom dei consumi fondato sul debito e destinato a provocare molto presto l’ennesima crisi delle borse britanniche. Un’altra tempesta violenta e improvvisa si scatena sui cieli del Regno Unito, proprio quando la bolla esplode e arriva al culmine con il Black Monday, uno dei crash finanziari più drammatici del ventesimo secolo. La transizione verso i nuovi assetti economici e produttivi non comporta una rivoluzione reale nelle configurazioni del potere, che resta nelle mani di quelli che lo hanno sempre detenuto. Eppure, rispetto ai rapporti di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è la cultura ad allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte dell’industria del tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. L’arte diventa merce e le fabbriche sono trasformate in loft dagli imprenditori del mercato immobiliare. Si gentrifica il sapere così come i quartieri, demolendo ricordi personali e memoria collettiva per fare spazio alle catene della grande distribuzione organizzata, come Netto e Tesco. > Rispetto ai rapporti di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è > la cultura ad allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte > dell’industria del tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. Si > gentrifica il sapere così come i quartieri. Rispetto al ruolo dell’arte e della cultura, sia indipendente sia mainstream, Curtis aveva esplorato tematiche affini nella docuserie Can’t Get You Out Of My Head (2021), in cui l’attenzione si spostava sull’individuo occidentale odierno, immerso in un mondo privo di grandi narrazioni collettive. L’emancipazione dai miti, che in passato orientavano il senso di appartenenza al sistema sociale egemonico, istiga i singoli individui a generare autonarrazioni proprie per interpretare e condizionare la realtà. Tuttavia, queste storie personali non sono mai totalmente originali; al contrario, restano intrecciate alle strutture di potere e ai modelli del passato, mostrando come il soggetto atomizzato continui a operare entro i limiti dei sistemi che lo trascendono. Anche in questa docuserie, l’analisi di Curtis si muove a partire da una visione materialista della storia: le trasformazioni dei rapporti di produzione e delle dinamiche di potere globali costituiscono lo sfondo su cui si regge l’intero racconto, articolato in otto ore di filmati d’archivio. Allo stesso tempo, il regista non riduce la complessità degli ultimi decenni a un’etichetta unica come “neoliberalismo”, preferendo argomentare come l’intera classe politica abbia delegato progressivamente all’apparato finanziario il governo della società, trasformando il denaro nell’unica misura possibile della realtà, anche in campo artistico e culturale. In questo scenario, gli individui, pur credendo di essere liberi, sono intrappolati in una gabbia entro la quale tutto è quantificato e strumentalizzato secondo criteri economici e di utilità. Dalla fine del Novecento a oggi, molte cose sono cambiate e la gabbia ha cominciato a farsi sempre più stretta, inadatta a contenere la complessità della realtà odierna, ossia quella di un mondo globalizzato e iperconnesso. La frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata nel quarto episodio di Shifty anche attraverso la messa in discussione della Teoria del tutto elaborata da Hawking, superata da quella del multiverso. Secondo Curtis si può evidenziare una corrispondenza dinamica fra le scoperte scientifiche e i sistemi sociali che le generano: associa la rivoluzione scientifica a quella industriale, la Theory of everything all’individualismo estremo della massificazione dei costumi di fine Novecento, mentre la teoria del multiverso riflette la complessità e la frammentazione del mondo contemporaneo segnato dall’avvento di Internet. > La frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata anche attraverso > la messa in discussione della Teoria del tutto elaborata da Hawking, superata > da quella del multiverso, in una corrispondenza dinamica fra scoperte > scientifiche e sistemi sociali. L’ultimo episodio della serie termina con un estratto di un’intervista a David Bowie, il quale sosteneva come almeno fino alla metà degli anni Settanta, la percezione comune fosse quella di essere sotto l’egida di una società modellata da una cultura di massa, monolitica e univoca. Verso gli anni Novanta, il paradigma dominante iniziò a sgretolarsi in molteplici narrazioni. Rispetto a Internet e alla sua diffusione, Bowie lo definì come una “forma di vita aliena” dal potenziale “inimmaginabile, esaltante e terrificante” allo stesso tempo. Le parole del Duca bianco si perdono nelle note di Absolute Beginners. La docuserie termina con una successione di commenti scritti, nella forma di intertitoli, con i quali il regista si domanda se l’individualismo nel quale la società occidentale è stata catapultata sarà mai rovesciato dalle persone che scopriranno un nuovo senso di unità; oppure se aspirare alla rivoluzione possa essere solamente un retaggio nostalgico, innescato dal loop storico nel quale oggi si trova l’umanità. Nonostante l’ampia risonanza ottenuta, una parte della critica britannica ha espresso giudizi più cauti su Shifty, ritenendola meno originale rispetto ai lavori precedenti di Curtis. Alcuni hanno osservato che la docuserie non apporta nuove prospettive, limitandosi a reiterare temi già esplorati. In alcuni passaggi, la narrazione è risultata persino ingenua, specialmente quando il regista si lascia andare ad affermazioni improbabili, come quando sentenzia che le privatizzazioni sono state inventate dai nazisti. Altri interventi critici più equilibrati hanno riconosciuto il valore estetico e simbolico della serie, sottolineando la sua capacità di costruire suggestioni visive e sonore, ma ne hanno comunque evidenziato la difficoltà nel produrre un discorso inedito rispetto al corpus complessivo delle produzioni precedenti. L’impressione generale è che Shifty riproponga un universo concettuale già noto agli spettatori più avvezzi alle sue opere, senza offrire una vera e propria evoluzione concettuale o teorica. Se non altro, l’ultima docuserie di Curtis ha il merito di accendere l’attenzione su un tema: il capitalismo non è affatto il sistema migliore possibile, da auspicare quasi come se fosse una conseguenza necessaria nella progressione dei fatti storici. Credere che sia il modello più efficace è semplicemente una credenza, un mito. Per certi aspetti, è esattamente ciò che sosteneva Mark Fisher quando definiva il capitalismo come una forma di dominio ideologico, capace di colonizzare ogni aspetto della vita. > La docuserie di Curtis ha il merito di accendere l’attenzione su un tema: il > capitalismo non è affatto il sistema migliore possibile, da auspicare quasi > come se fosse una conseguenza necessaria nella progressione dei fatti storici. E se persino la storiografia e l’analisi dei fatti storici fosse stata colonizzata dal pensiero egemonico capitalista? L’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengrow, autori di L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (2021), riprendono la tesi dello storico delle religioni Mircea Eliade secondo la quale la concezione lineare del tempo è un’invenzione relativamente recente, che può essere ricondotta principalmente a due fattori interconnessi: il pensiero escatologico delle religioni abramitiche residuale nella concezione evoluzionistica della storia umana di derivazione positivista. Parafrasando Eliade, Graeber e Wengrow sostengono che la prospettiva temporale progressiva ha spodestato quella ciclica della filosofia greca antica e delle “società tradizionali”, con “catastrofiche conseguenze sociali e psicologiche”. Nella concezione lineare del tempo i fatti storici accadono come rivoluzioni che irrompono e cambiano il corso degli eventi, come in un dipanarsi di “sequenze cumulative” necessarie all’evoluzione della civiltà umana: si pensi alla rivoluzione agricola del Neolitico, a quella scientifica in epoca illuminista o a quella industriale di fine Ottocento. Descrivere la storia come un susseguirsi di accadimenti radicali improvvisi ha delle conseguenze. La tesi di Graeber e Wengrow è che questo tipo di approccio storiografico sia ideologico, per non dire mitologico, e che abbia delle implicazioni politiche, rendendo l’umanità meno capace di “affrontare le traversie della guerra, dell’ingiustizia e della sfortuna, gettandoci invece in un’età di ansia senza precedenti e, a lungo andare, di nichilismo”. Accettare la logica del dominio e considerare inevitabile che la civiltà umana tenda verso l’accumulo di ricchezze significa raccontare la specie umana come “molto meno premurosa, creativa e libera” di quanto non lo sia. L’ultimo capitolo del saggio L’alba di tutto si conclude con una serie di considerazioni a proposito del nichilismo insito nella concezione lineare del tempo, teso verso un progresso inesauribile. Una tale concezione inibisce la possibilità di considerare la storia come l’insieme di scelte collettive, lente e stratificate, attraverso le quali le comunità hanno deciso quali pratiche adottare nella vita quotidiana e quali confinare alla sperimentazione o al rito. Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora più per la creatività sociale. Il dominio dell’uomo sulla natura, le società gerarchiche e l’accumulo di ricchezze o la logica del profitto non erano inevitabili. Non è affatto corretto sostenere che non esista un’alternativa; semmai, per dirla con Graeber e Wengrow: “Se qualcosa è andato storto nella storia dell’umanità […] forse prese a farlo proprio quando gli uomini persero la libertà di immaginare e di attuare altre forme di esistenza sociale […] al punto che ora alcuni ritengono che questo particolare tipo di libertà non ci sia mai stato, o non sia mai stato esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità.” > Descrivere la storia come un susseguirsi di accadimenti radicali improvvisi ha > delle conseguenze. La tesi di Graeber e Wengrow è che questo tipo di approccio > storiografico sia ideologico, per non dire mitologico, e che abbia delle > implicazioni politiche. Lo stesso sistema neoliberista che incita al pensiero “out of the box”, che invita a essere non convenzionali (“Stay hungry, stay foolish”), paradossalmente impone una reductio ad unum, all’omologazione: “siate diversi tutti allo stesso modo” è il vero slogan di questi tempi. Ancora, si tratta dello stesso sistema che continua a ignorare proposte realmente alternative a quelle della narrazione dominante, come il pensiero tentacolare, lo Chthulucene di Donna Haraway, e che torna indietro invocando valori reazionari e antiscientifici. Per uscire dal loop è necessario esercitare la libertà, a partire dall’immaginazione. La vera domanda è se l’umanità possiede ancora le capacità per farlo. L'articolo Shifty. Cos’è andato storto? proviene da Il Tascabile.
Linguaggi
regno unito
società
storia contemporanea
documentario
Indagine sul dolore
“L a mia lingua era sbagliata”, scrive Maggie Nelson in Pathemata. O, la storia della mia bocca (2025), edito da Nottetempo e tradotto da Alessandra Castellazzi, un libro in cui l’autrice californiana racconta un decennio di dolore alla mascella. La lingua ‒ come organo ‒ sbagliata attiva una riflessione sull’inadeguatezza dell’altra lingua, quella letteraria, nel raccontare il dolore fisico. Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. “I miei denti continuano a spostarsi”, scrive Nelson, e così avviene con il dolore che in Pathemata vive lo smottamento del lutto per la morte dell’amica C, il travaglio del parto, la gestione solitaria della malattia imposta dalla pandemia. Più che spostarsi nel corpo, il dolore sposta il corpo, lo muove da dentro, lo fa esistere. E fa esistere l’opera di Nelson, la fonda, la genera. L’autrice fa sua la visione del filosofo Byung-Chul Han secondo cui “Il dolore regge l’esistenza umana. È un organo percettivo che oggi abbiamo smarrito”. I sintomi della lingua “fatta di sangue” interrogano la lingua con cui Nelson scrive. Il libro diventa così un’anatomia del linguaggio che non ha un intento terapeutico della scrittura come cura, ma al contrario proietta l’io narrante verso fuori per far sentire al lettore l’esperienza del dolore. La malattia di Nelson non ha diagnosi. La cronicità allora diventa ossessione che viene tradotta in una forma letteraria. È stato più volte detto che è la frammentazione a caratterizzare la forma di Pathemata. Ma più che pezzi e schegge di un racconto, la scrittura di Nelson produce cerchi d’acqua: il dolore fisico è un sasso appuntito gettato in uno stagno; il cerchio prodotto da questo sasso si allarga sulla superficie intersecandosi con i cerchi degli altri sintomi. La superficie del testo è cosparsa di passaggi letterari ‒ più che di paragrafi ‒ collegati tra loro da una ricerca di senso e dalla produzione di immagini: come cerchi d’acqua, si intersecano e si dilatano nella mente del lettore. La profondità della riflessione letteraria di Nelson viene trovata nei sassi precipitati sul fondo che, durante la caduta verso la zona non controllata dalla mente, da dolori fisici diventano esistenziali. Come scrive Chul Han, il dolore è “la forza di gravità dell’esistenza” e dell’opera di Nelson. > Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione > con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e > sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. Superficie e profondità rimandano a sogno e realtà tra cui si compie la tensione comunicativa dell’autrice: “Proprio come nella storia dei sogni di Freud ‒ non è il sogno che conta, ma il racconto del sogno ‒ le parole che scegli, i rischi che corri nell’esternare la tua mente”, scrive Nelson. “Questa è la ‘cura della parola’ di Freud ‒ Freud, che morì di cancro alla mandibola, per cui si sottopose a più di trenta interventi chirurgici orali debilitanti e sfiguranti”. La dimensione onirica, però, non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è l’aspetto più terrificante del dolore: “L’unica cosa che mi spaventa più del dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi”. “Al mattino è come se la mia bocca fosse sopravvissuta a una guerra”, scrive nell’incipit. Un cerchio d’acqua si allarga: il rapporto tra dolore e metafora su cui Susan Sontag in Malattia come metafora (1978) si è espressa nei termini di liberare il racconto della malattia dai pensieri metaforici. Sul terreno delle immagini si addentra invece Virginia Woolf che nel 1926 pubblica il saggio Sulla malattia. Per Woolf la malattia mette in crisi il linguaggio: “Basta che il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché il linguaggio si prosciughi di colpo”. Esiste una lingua letteraria del dolore diversa dal linguaggio scientifico della malattia? Secondo Woolf, abbiamo bisogno di “una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena”. In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale. L’uso dei trattini riproduce il movimento di un dolore cronico che non si spezza, non frammenta, ma ritorna: c’è sempre anche quando non si sente. Il sintomo in Nelson è l’intenzione letteraria, l’istinto a narrare. La circolarità della costruzione narrativa ‒ i passaggi che costruiscono il flusso della storia ‒ parte da dentro. Il dolore anche quando è silente si sta raccontando. Negli intervalli tra un sintomo e l’altro il dolore continua a esserci. Diventa verticale, profondo, abissale. Questo movimento di caduta circolare in cui il dolore ritorna e si avvita su sé stesso si compie anche nell’estetica scelta dall’autrice: “Dico che C mi ha stretto la mano, ma in realtà l’incidente le ha tolto la presa delle dita; perciò, è più come se formasse una culla in cui la mia mano può riposare ‒ una Pietà in miniatura ‒ evocando il suo apprendistato giovanile nella lavanda dei piedi”. > La dimensione onirica non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in > cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è > l’aspetto più terrificante del dolore. Il linguaggio metaforico riproduce anche un suono grazie all’attento lavoro di traduzione di Alessandra Castellazzi che già in Bluets (2023), il precedente libro di Nelson, si era posta la questione di restituire al lettore l’esperienza musicale della lingua della scrittrice di San Francisco. A questo proposito Woolf scrive: “Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale, comprendiamo istintivamente questo, quello e quell’altro ‒ un suono, un colore, qua un accento, là una pausa”. Per Woolf la poesia esprime meglio della prosa l’urgenza comunicativa della malattia. In questo senso i passaggi letterari di Pathemata risuonano come versi di una lunga poesia, un cerchio d’acqua vibrante, sensuale, enigmatico, carico di attrazione verso l’esperienza del dolore: “Rinunciare all’enigma del dolore non è facile”, scrive Nelson. Secondo il filosofo Hans Georg Gadamer, la salute è silenziosa, è la malattia a determinarla “come ciò che si oggettiva da sé e che ‘ci viene incontro’, in breve ‘ciò che ci invade’”. La scrittura di Nelson come il dolore ci viene incontro, ci invade, avvolge, disturba: “dieci anni fa un’equipe medica rimuoveva una ciste del mio ovaio sinistro, contenente ‒ come speravamo ‒ soltanto capelli, denti e globuli di grasso, la creazione aggrovigliata di un figlio delle fate. È più difficile operare sulla parte del corpo responsabile della masticazione e della produzione del linguaggio. Specialmente se nessun esame ha rivelato una putrefazione”. > In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua > letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del > corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale. L’anamnesi della doppia lingua tracciata da Nelson si fa idioma corporeo confondendo il genere del testo, che non può definirsi un diario, né un saggio, né un memoriale. Nelson restituisce il “corpo come memoriale”, concetto elaborato dall’antropologa Mariella Pandolfi: “Nel corpo un reticolo di tracce inscrivono una sorta di memoriale che sembra rispondere ad altre logiche simboliche”, scrive la studiosa, “un corpo che diventa ‘memoriale’ e in cui la storia esterna e il vissuto interno di essa si iscrivono”. Qui sta la sperimentazione della scrittrice californiana: non scrivere un memoriale ma scrivere con il corpo come memoriale: > consento all’arazzo di allargarsi, intrecciandovi i miei primissimi trascorsi > con la logopedia, i miei eterni problemi di tonsillite, le mie avventure > adolescenziali con l’ortodonzia, le precedenti radiografie all’apparato > digerente superiore e le infiammazioni all’articolazione temporomandibolare, > lo svezzamento di mio figlio, la perimenopausa, i fattori di stress domestici, > il ruolo letterario e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice. Secondo Chul Han, nella nostra epoca caratterizzata da “una algofobia, una paura generalizzata del dolore, […] un’anestesia permanente, nulla deve più far male”. Anche nell’arte. “I prodotti culturali”, scrive il filosofo, “devono assumere una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti”. Accade anche in letteratura, ma Pathemata va in altra direzione: è un libro che fa male perché non offre alcun rimedio al dolore. Il dolore cronico non insegna nulla. Nelson ha agito nella scrittura quanto diceva Adorno: far diventare eloquente il dolore come condizione di verità. Il dolore di Nelson è il modo di stare al mondo di questa scrittrice, di indagare significati che sarebbero stati inaccessibili se non avesse fatto esperienza della malattia. La verità letteraria toccata da Nelson è forse questa: il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto malato estraneo a sé stesso (“una situazione fisica straniante”, scrive Nelson), a chi non ha smarrito la propria capacità di agire perché infermo, a chi non esperisce quella rottura drammatica dei sensi e delle percezioni da cui parte la narrazione. “È il dolore a mettere in moto il racconto”, secondo Chul Han. E nel caso di Pathemata a farsi “fantasia estetica”. Scrive Nelson: “Tra me e me penso: Non mi sento mai bene, non sto mai bene. C’è qualcosa di sistemicamente sbagliato in me, forse sono sistemicamente malata”. E qui l’autrice trasforma l’io narrante in personaggio letterario iscrivendosi nella tradizione del rapporto tra letteratura e malattia, da Dostoevskij che inizia Memorie del sottosuolo con: “Sono un uomo malato” a Kafka che nei suoi diari scrive: “Io volevo rimanere indipendente, non distratto dalla gioia di vivere che può trovare un uomo utile e sano”. Per Nelson come per questi scrittori forse la malattia attraverso la creazione di un linguaggio non convenzionale diventa un modo di vivere fuori dalle regole. > Il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi > non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della > presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto > malato estraneo a sé stesso. “C’è una foresta vergine in ognuno. […] Qui procediamo da soli, e ci piace di più così. […] nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo rinnovato ‒ per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messa in scena si interrompe. […] Non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori”, scrive, a proposito dell’antagonismo del dolore, Virginia Woolf che si riempì le tasche di sassi per lasciarsi andare a fondo in un unico grande cerchio d’acqua, tracciando il destino simbolico delle scrittrici che ieri e oggi fondano nell’indagine letteraria sul dolore e sulla malattia, la loro ribellione. L'articolo Indagine sul dolore proviene da Il Tascabile.
Letterature
letteratura americana
narrativa
corpo
dolore
Lo sfruttamento antropico dell’Amazzonia
L e foto di questi luoghi mi affascinano da sempre. Ricordo la prima volta che vidi quella diapositiva proveniente dalla macchinetta analogica di mio padre, che ora è la mia. La foto ritraeva i miei genitori davanti a una palafitta altissima e immersa nella foresta. Quella foresta è la foresta amazzonica peruviana e quella foto risale al loro viaggio di nozze nell’ormai lontano 1989. Proprio quest’anno a Palazzo delle Esposizioni a Roma ho visitato la mostra del World Press Photo e, tra le tante foto strazianti ma necessarie che erano appese alle pareti bianche, ho trovato anche l’Amazzonia, questa volta stravolta dalla crisi climatica. Un giovane che per portare il cibo a sua madre in un villaggio un tempo raggiungibile in barca, ora si trova costretto a percorrere a piedi il letto di un fiume in secca. Una donna vive con il suo compagno e la loro figlia di due anni in una “casa galleggiante” che, sempre a causa della siccità, sembra galleggiare sul deserto più che sul fiume.  Sono foto che mostrano gli effetti del cambiamento climatico come una realtà concreta capace di plasmare il futuro di comunità vulnerabili strettamente connesse con il mondo naturale. Con il nome Amazzonia si intende un bioma, ovvero un insieme di ecosistemi, che si trova nel nord dell’America latina e ne occupa il 40%. È una delle regioni più estese del pianeta che con i suoi 7,8 milioni di chilometri quadrati risulta grande due terzi dell’intera Europa. A occhi inesperti, l’Amazzonia potrebbe sembrare un ambiente umido stabile. In realtà, è caratterizzata da due stagioni distinte: la stagione delle piogge e la stagione secca. I livelli naturali di inondazioni e siccità però stanno venendo potenzialmente alterati dal cambiamento climatico con conseguenze che vanno ben oltre l’equilibrio dell’ecosistema amazzonico stesso. Il bacino amazzonico ospita la vasta e diversificata foresta pluviale amazzonica e il fiume più lungo al mondo, contribuendo così a diversi servizi ecosistemici. Da un lato, è il polmone verde che immagazzina l’anidride carbonica nella biomassa vegetale e nel suolo e produce circa il 20% dell’ossigeno mondiale contribuendo alla regolazione del clima locale e globale. Dall’altro, il Rio delle Amazzoni è il fiume che trasporta più acqua al mondo. Scorre dalle Ande all’Atlantico dove riversa ogni giorno circa 17 miliardi di tonnellate di acqua dolce, un quinto dello scarico mondiale, mantenendo i cicli dell’acqua attraverso il sistema delle correnti che distribuiscono calore sul pianeta. Il maestoso fiume sta però affrontando livelli record di acque basse a causa della grave siccità. > L’Amazzonia è il polmone verde che produce circa il 20% dell’ossigeno mondiale > contribuendo alla regolazione del clima locale e globale, mentre il Rio delle > Amazzoni è il fiume che trasporta più acqua al mondo. La crisi climatica qua si mostra come una vera e propria crisi ecologica che minaccia la biodiversità, sconvolge gli ecosistemi e colpisce le comunità locali che dipendono dai fiumi per la sopravvivenza.  La maggior parte della foresta, quasi i due terzi, è all’interno dei confini brasiliani. Altri Paesi dove si estende la foresta includono Perù (circa 13%), Colombia (10%) e altri in misura minore come Bolivia ed Ecuador. Al confine tra Perù, Brasile e Bolivia vive la più alta concentrazione di tribù isolate al mondo. I confini dei territori che abitano, la cosiddetta Frontiera incontattata, devono essere sorvegliati per impedire incursioni di persone non autorizzate. La loro casa, quindi, risulta in pericolo: la deforestazione, l’inquinamento e le altre pressioni antropiche del mondo globalizzato sono gravi minacce per la loro sopravvivenza. Nel 2024 il Brasile ha perso 2,8 milioni di ettari di foresta, due terzi dei quali a causa degli incendi, spesso appiccati per fare posto alle coltivazioni di soia o agli allevamenti di bestiame. Nel complesso si sta comunque parlando di un anno in cui lo Stato brasiliano ha registrato una riduzione della deforestazione del 32,4% rispetto al 2023 (377.708 ettari). Il calo è attribuibile alle politiche di controllo dell’attuale governo, ma è ancora lontano il raggiungimento dell’obiettivo di zero deforestazione entro il 2030, annunciato dal presidente Lula all’inizio del suo mandato. Il dato riportato, anche se inferiore all’anno precedente, è comunque allarmante: in media, sono stati rasi al suolo 1.035 ettari di foresta al giorno, sette alberi ogni secondo. A oggi, la deforestazione cumulativa per l’intero bioma amazzonico è stimata in circa il 18% della sua estensione dal 1987. Questo dato è in costante aumento e già equivale alla somma delle superfici di Francia, Italia e Portogallo. Numerosi modelli predittivi indicano il 20% di deforestazione cumulativa come un punto critico, un vero e proprio punto di non ritorno (o  tipping point), la soglia oltre la quale la foresta si trasformerà in modo irreversibile innescando cambiamenti che possono autoalimentarsi e avere effetti a cascata su altri sistemi. La deforestazione incide direttamente sull’ecosistema, creando aree più asciutte e suscettibili agli incendi. Allo stesso tempo, il cambiamento climatico rende la foresta intrinsecamente più vulnerabile alla siccità. Quando queste due forze si combinano, il rischio aumenta esponenzialmente: una foresta già indebolita dalla deforestazione ha meno capacità di resistere a una siccità estrema indotta dal clima. Dati satellitari e modelli ecologici hanno dimostrato che la resilienza della foresta ai disturbi è in diminuzione dai primi anni 2000 e gli ultimi due anni hanno registrato una delle peggiori siccità della storia. Tra aprile e giugno 2024, ci sono state precipitazioni da record nello stato di Rio Grande do Sul, in Brasile. Queste hanno causato la peggiore inondazione nella storia della regione. Più di mezzo milione di persone sono state sfollate e più di 183 sono morte nelle inondazioni. Lo scorso 21 maggio il senato brasiliano ha approvato un disegno di legge che allenta le norme sulle licenze ambientali cancellando ogni regolamentazione per vari progetti, dalla produzione di carne alla deforestazione. Il disegno di legge viene chiamato in gergo anche “‘progetto di legge della devastazione’ e non è un buon segnale ma è solo una conseguenza della situazione politica che abbiamo in Brasile”. Queste le parole di Emanuela Evangelista, biologa specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, membro dell’Unione internazionale per la conservazione della natura, presidente di Amazônia ETS e trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti. > La deforestazione, l’inquinamento e le altre pressioni antropiche del mondo > globalizzato sono gravi minacce per la sopravvivenza della cosiddetta > Frontiera incontattata. L’instabilità politica di cui parla è data da una semplice questione numerica. Il presidente in carica, Luiz Inácio Lula da Silva, è stato eletto a gennaio 2023, ottenendo solo il 50,89% dei voti contro il 49,11% di Bolsonaro, trovandosi quindi a rappresentare un Paese profondamente spaccato in due. “C’è quindi una questione aperta sullo sviluppo della regione amazzonica. Una delle regioni più povere di tutto il Brasile, con circa il 50% degli abitanti che sta sotto la soglia della povertà”, continua Evangelista. Il presidente si trova a governare in un clima politico estremamente teso e polarizzato dove la sua visione non trova sempre la maggioranza, cedendo così al modello proposto dall’opposizione. Un modello che da europei conosciamo molto bene, basato sul raggiungimento di uno sviluppo economico ottenibile con l’aumento di agricoltura, pascolo, estrazione mineraria e costruzione di infrastrutture. “L’Amazzonia è destinata al collasso che si può evitare solamente in due modi: proteggendo le foreste che sono rimaste ancora intatte, come questa in cui vivo, e riforestando dove la foresta è già stata tolta”. Evangelista ha scelto infatti di vivere da 25 anni proprio in quello che lei definisce “il cuore della foresta”. Un cuore che sta iniziando a soffrire in maniera pesante il cambiamento climatico. Proprio da là ha fondato l’organizzazione no profit Amazônia ETS per una “visione globale di pianeta perché, quando hai a che fare con le sfide ambientali, i confini non esistono”. Tra i tantissimi progetti di sensibilizzazione, conservazione e sviluppo sostenibile che l’organizzazione propone ce n’è uno, in collaborazione con l’Istituto brasiliano per lo sviluppo e la sostenibilità (IABS), dal nome Insieme piantiamo il futuro. Si parla dell’attuazione di un vero e proprio corridoio ecologico di biodiversità tra gli Stati brasiliani di Maranhão e Pará, la cui capitale, Belém, ha ospitato la 30ª Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP30) dal 10 al 21 novembre 2025. “I corridoi ecologici di biodiversità servono a collegare frammenti di foresta che, a causa della deforestazione, sono rimasti isolati per farli diventare di nuovo ambienti possibili per la vita”. Spostandoci invece nella parte più occidentale dell’area amazzonica raggiungiamo il Parco nazionale del Yasuní, localizzato nell’Amazzonia ecuadoriana e designato come patrimonio UNESCO nel 1989. In Ecuador, la foresta amazzonica copre circa la metà del territorio nazionale, sebbene rappresenti solo il 2% del bioma amazzonico totale. È una delle aree più ricche di biodiversità al mondo, nonché la casa di diversi gruppi di popolazioni indigene, tra le quali le Tagaeri e Taromenane che vivono in isolamento volontario. Un luogo incontaminato in cui però, da più di mezzo secolo, le aziende petrolifere bruciano il gas naturale prodotto dall’attività estrattiva emettendo sostanze altamente tossiche e dannose per l’ambiente e per la salute. Rappresentando la maggior parte del bilancio generale dello Stato, la questione petrolifera in Ecuador è stata e continua tutt’ora a essere irrisolta. Per anni l’azienda Chevron-Texaco ha violato le norme ambientali riversando nei fiumi 16 miliardi di tonnellate di acque reflue: per questo nel 2011 è stata condannata a pagare all’Ecuador 9,5 miliardi di dollari per il danno ambientale causato. La compagnia ha poi lasciato il Paese, ma 14 anni dopo il risarcimento non è stato ancora versato. Ancora oggi, l’Unione delle persone colpite dalla Chevron Texaco (UDAPT), un’organizzazione che unisce almeno 80 comunità residenti nelle aree contaminate, ha mappato quasi 500 torri di combustione attive nell’Amazzonia ecuadoriana, testimoniando e denunciando gli sversamenti che quotidianamente colpiscono l’area. All’interno del Parco nazionale del Yasuní ci sono sette blocchi petroliferi, tra cui il blocco 43, rimasto intatto almeno fino al 2013. Questo, noto anche come ITT, comprende i giacimenti di Ishpingo, Tambococha e Tiputini ed era stato oggetto dell’iniziativa Yasuní ITT: una proposta lanciata nel 2007 dal governo di Rafael Correa che mirava a evitare lo sfruttamento petrolifero nella zona più remota e meglio conservata del Parco nazionale in cambio di 3,6 miliardi di dollari di risarcimento da parte della comunità internazionale. Nel 2013, quando era stato raccolto nemmeno lo 0,5% di quanto previsto, l’iniziativa fallì e nella zona iniziò l’estrazione. Molti gruppi di giovani attivisti si unirono per difendere le riserve di petrolio dell’ITT, dando vita al collettivo YASunidos. Il gruppo si attivò per raccogliere firme e promuovere una consultazione popolare, ma le diffamazioni subite permisero di indire un referendum abrogativo solo dieci anni dopo. Così nell’agosto 2023, il 60% degli ecuadoriani ha votato a favore del mantenimento a tempo indeterminato delle riserve petrolifere nel sottosuolo e dunque del blocco delle attività estrattive, in un referendum che è passato alla storia. > Il presidente Lula si trova a governare in un clima politico estremamente teso > e polarizzato dove la sua visione non trova sempre la maggioranza, cedendo > così al modello proposto dall’opposizione. Oggi, a due anni di distanza, l’Ecuador si trova in una situazione precaria sotto molti aspetti. A inizio 2024 il governo di Daniel Noboa aveva annunciato la necessità di mettere in atto misure che consentissero al governo di riprendere il controllo del Paese. Queste misure includono la promozione dell’estrazione mineraria su larga scala, che interessa 20 delle 24 regioni dell’Ecuador, e la moratoria sul risultato del referendum per almeno un altro anno. Le recenti violenze e i disordini interni hanno fornito al presidente Noboa, nuovamente rieletto ad aprile di quest’anno, una scusa per continuare le trivellazioni nei principali giacimenti petroliferi all’interno del Parco nazionale Yasuní. “Il governo continua con lo sfruttamento illegale del giacimento petrolifero. In questo momento stanno estraendo circa 40.000 barili di petrolio da questo blocco in cui ci sono anche più di 30 fuoriuscite di petrolio”, ci spiega Pedro Bermeo Guarderas, coordinatore legale e portavoce del collettivo YASunidos, nonché uno tra i promotori ufficiali del referendum del 2023. “Questo è totalmente illegale. Persino lo scorso marzo la Corte interamericana dei diritti umani (la CIDH), che è la corte più alta della regione, ha emesso una sentenza che obbliga il governo a rispettare il referendum” continua Bermeo. Va inoltre sottolineato che per la costituzione dell’Ecuador l’adempimento dei referendum è obbligatorio, “Non è qualcosa che il governo può decidere o meno”, ricorda l’attivista. La Costituzione andina si distingue anche per essere la prima al mondo a riconoscere la natura come soggetto di diritto. “La stessa natura che stanno privatizzando e trasformando in un prodotto”, sottolinea Bermeo, facendo riferimento alla legge organica sul recupero delle aree protette e la promozione dello sviluppo locale, che è stata pubblicata il 14 luglio nel registro ufficiale della Repubblica dell’Ecuador. Una legge approvata in tutta fretta come una questione di urgenza in materia economica e che mette a rischio la conservazione dell’ambiente, la gestione pubblica dei territori protetti e i diritti collettivi. “Stanno violando ancora una volta i diritti. Quindi ci sono due problemi, uno relativo alla natura e l’altro alle comunità indigene, violando il diritto alla consultazione preventiva”, denuncia Bermeo. L’attivista fa riferimento a un altro diritto presente nella Costituzione, che garantisce ai popoli indigeni la consultazione preventiva sui piani di sfruttamento dei loro territori. E considerando che “nelle comunità indigene più di 2.000 milioni di ettari di aree protette si intersecano con i loro territori ancestrali, questa legge è anche contro di loro”. Una legge contro più di 750.000 indigeni appartenenti a più di 12 gruppi etnici differenti. Oltre le comunità che scelgono di vivere senza contatti con la società esterna, anche gli altri hanno una forte connessione culturale e spirituale con la natura e la terra, che considerano fonte di vita e sostentamento. Concludo le chiamate con Evangelista e Bermeo con la voglia di viaggiare e raggiungere queste mete, purtroppo divenute popolari soprattutto nel last chance tourism, quel turismo che mira unicamente a godersi il privilegio di poter sfruttare e fotografare le meraviglie della natura prima che scompaiano. Da un lato vorrei liberarmi da questo peccato originale che è l’occhio coloniale che ci marchia e mi chiedo se sia veramente possibile parlare di ecoturismo in queste aree. L’audio della chiamata non era ancora spento e Bermeo mi risponde prontamente portandomi l’esperienza di una forma di turismo possibile. Mi parla del turismo comunitario, un turismo ecologico, che rispetta la comunità ed è gestito dalla comunità stessa. Una ragione anche “per fornire un’alternativa alle comunità che sono totalmente abbandonate dal governo e che si trovano a dover collaborare con attività estrattive o minerarie”. L'articolo Lo sfruttamento antropico dell’Amazzonia proviene da Il Tascabile.
politica
Società
ambiente
Amazzonia
sud america
Ricordare per procura
N el suo dialogo intitolato Fedro, attraverso il mito di Theuth e la figura di Socrate, Platone esprime la sua celebre critica della scrittura. Per il filosofo greco, la scrittura è un pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso. La scrittura appare immobile, incapace di adattarsi all’interlocutore come invece fa il dialogo vivo; priva di autonomia, perché non sa difendere da sé le proprie tesi; inadeguata ad accrescere la sapienza, poiché offre informazioni senza generare la memoria e la saggezza che nascono dall’interazione dialettica. È, infine, un “gioco bellissimo” ma assai distante dalla serietà del processo dialettico orale che conduce alla conoscenza. Ciononostante, pur non essendo “vera” filosofia, per Platone la scrittura è uno strumento a essa necessario, così com’è necessaria per la cosiddetta hypomnesis, ovvero la capacità richiamare alla mente un’informazione. Se per il filosofo greco la scrittura rappresentava un ausilio esterno alla memoria, oggi la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno ampliato quella intuizione con il concetto di cognitive offloading. Con questa espressione si indicano tutte le pratiche attraverso cui gli individui delegano a un supporto esterno parte dei propri processi cognitivi, come ad esempio la funzione di ricordare informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie capacità mnemoniche. Tra queste si annoverano gesti quotidiani come segnare una lista della spesa, annotare un compleanno su un calendario o ricorrere al proverbiale nodo al fazzoletto. > Per Platone la scrittura è pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso: pur > non essendo “vera” filosofia è uno strumento che le è necessario, così com’è > necessaria per la capacità di richiamare alla mente un’informazione. Negli ultimi dieci anni, allo studio dello “scarico” cognitivo hanno dato un forte impulso la comparsa e la diffusione della rete, e delle tecnologie digitali. I dispositivi connessi, infatti, moltiplicano all’infinito le possibilità di delega della funzione cognitiva del ricordo, ma le loro pervasività e facilità di utilizzo rischiano di sbilanciare l’equilibrio di benefici e costi di queste pratiche a favore dei secondi. I dispositivi connessi ‒ se ne erano già accorti i fondatori del cyberpunk, il cui lavoro è stato fondamentale per cristallizzare nella nostra cultura l’immaginario del digitale ‒ funzionano come una vera e propria protesi della nostra mente, che ne esternalizza una o più funzioni cognitive, tra cui, appunto, la memoria. In un paper intitolato The benefits and potential costs of cognitive offloading for retrospective information, Lauren L. Richmond e Ryan G. Taylor si dedicano a ricostruire una panoramica di alcuni degli studi e degli esperimenti più significativi nell’ambito del cognitive offloading. Alla base di questo corpus teorico e sperimentale c’è il fatto che, per compiere un ampio numero di azioni quotidiane, le persone si affidano a due tipi di memoria: quella retrospettiva, ovvero la capacità di ricordare informazioni dal passato, e quella propositiva, ossia la capacità di ricordare azioni da compiere nel futuro. Per portare a termine compiti che comportano l’uso di tutti e due i tipi di memoria, possiamo contare sulla nostra capacità di ricordare o delegare questa funzione a un supporto esterno. Questo spiega il motivo per cui la maggior parte delle persone intervistate nei contesti di ricerca esaminati da Richmond e Taylor dichiara di usare tecniche di cognitive offloading per compensare peggioramenti nelle proprie performance mnemotecniche. Io stesso, che mi sono vantato a lungo di avere una memoria di ferro, sono stato costretto, passati i quaranta e diventato genitore per due volte, a dover ricorrere a promemoria, note e appunti per riuscire a ricordare impegni e scadenze. > Con l’espressione cognitive offloading si indicano le pratiche attraverso cui > gli individui delegano a un supporto esterno la funzione di ricordare > informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie > capacità mnemoniche. Età e capacità mnemoniche sono infatti due fattori collegati alla necessità di eseguire azioni di scarico cognitivo. Superata l’adolescenza, a mano a mano che ci si inoltra nella vita adulta si è costretti a ricordare un numero di cose più elevato, compito per cui il cognitive offloading offre indubbi benefici. Uno dei più evidenti risiede nel fatto che, a differenza di altre mnemotecniche più specifiche, non ha bisogno di una formazione mirata. Per un adulto con una percezione del tempo funzionale, usare un’agenda fisica o virtuale è un gesto intuitivo e immediato, che non richiede ulteriore carico cognitivo. La facilità d’uso non è l’unico vantaggio. Alcuni degli studi passati in rassegna nello studio mostrano come l’offloading cognitivo generi benefici per entrambi i tipi di memoria. Ad esempio, esso permette non soltanto di ricordare informazioni archiviate in precedenza, ma riesce anche ad attivare il ricordo di informazioni non archiviate tramite meccanismi di associazione mentale: una persona che ha segnato sulla propria lista della spesa di acquistare un barattolo di alici ha più probabilità di ricordarsi di acquistare il burro rispetto a una persona che non lo ha fatto, anche se il burro non è presente nella lista. Per quanto banali, questi esempi mostrano quanto le pratiche di offloading cognitivo siano d’ausilio alla memoria. Tali benefici, tuttavia, non sono gratuiti ma comportano una serie di costi.  Alcuni studi hanno evidenziato più difficoltà a ricordare le informazioni “scaricate” quando, in modo improvviso e inaspettato, viene negato loro accesso alle informazioni archiviate. Se invece il soggetto è consapevole del fatto che l’accesso può esser negato, le performance mnemoniche si dimostrano più efficaci. Un altro costo è la possibilità di favorire la formazione di falsi ricordi. Altri test condotti in laboratorio mostrano come quando le persone sono forzate a pratiche di scarico cognitivo, risultano meno capaci di individuare elementi estranei, aggiunti all’archivio delle informazioni a loro insaputa. > Le pratiche di offloading cognitivo possono essere d’ausilio alla memoria. > Tali benefici, tuttavia, comportano una serie di costi, ad esempio una maggior > difficoltà a reperire informazioni quando viene improvvisamente a mancare > l’accesso all’archivio esterno. Perciò, così come la scrittura per Platone aveva natura “farmacologica”, e offriva al tempo stesso rimedio e veleno per la memoria, anche le pratiche di cognitive offloading comportano costi e benefici. Da questa prospettiva, la diffusione dell’intelligenza artificiale (IA) sta mettendo in luce come questo strumento, ubiquo e facilmente accessibile, stia favorendo nuove forme di scarico cognitivo, e incidendo sul modo in cui le persone si rapportano alle informazioni, nonché sullo sviluppo del loro pensiero critico. Disponibili ormai ovunque, alla stregua di un motore di ricerca, le IA aggiungono all’esperienza utente la capacità di processare e presentare le informazioni, senza doversi confrontare direttamente con le relative fonti. Quale impatto esercita questa dinamica sulla capacità di pensiero critico? È la domanda al centro di uno studio condotto dal ricercatore Michael Gerlich su 666 partecipanti di età e percorsi formativi differenti. Questo studio analizza la relazione tra uso di strumenti di intelligenza artificiale e capacità di pensiero critico, mettendo in luce il ruolo mediatore delle pratiche di offloading cognitivo. Per pensiero critico si intende la capacità di analizzare, valutare e sintetizzare le informazioni al fine di prendere decisioni ragionate, incluse le abilità di problem solving e di valutazione critica delle situazioni. Secondo Gerlich, le caratteristiche delle interfacce basate su IA ‒ dalla velocità di accesso ai dati alla presentazione semplificata delle risposte ‒ scoraggiano l’impegno nei processi cognitivi più complessi. > La diffusione dell’intelligenza artificiale sta mettendo in luce come questo > strumento stia favorendo nuove forme di “scarico” cognitivo, incidendo sul > modo in cui le persone si rapportano alle informazioni e sviluppano pensiero > critico. Studi condotti in ambiti come sanità e finanza mostrano infatti che se da un lato il supporto automatizzato migliora l’efficienza, dall’altro riduce la necessità, per questi professionisti, di esercitare analisi critica. Una dinamica analoga si osserva nella cosiddetta “memoria transattiva”, ossia la tendenza a ricordare il luogo in cui un’informazione è archiviata o il suo contenuto, fenomeno già noto come “effetto Google”. Le IA accentuano questo processo, sollevando ulteriori interrogativi sul possibile declino delle capacità di ritenzione perché, anche in questo caso, la loro capacità di sintetizzare le informazioni fa sì che l’utente non debba più impegnarsi in un confronto con le fonti, ma sviluppa invece la consapevolezza che potrà farle affiorare in qualsiasi momento, rivolgendole a un’interfaccia che mima una conversazione umana Effetti simili riguardano attenzione e concentrazione: da un lato gli strumenti digitali aiutano a filtrare il rumore informativo, dall’altro favoriscono la frammentazione e il calo della concentrazione. Emergono inoltre ambivalenze anche nel problem solving: l’IA può ampliare le possibilità di soluzione ma rischia di ridurre l’indipendenza cognitiva, amplificare bias nei dataset o opacizzare i processi decisionali, rendendoli difficilmente interpretabili dagli utenti. Una condizione, quest’ultima, oggetto di un ampio dibattito anche in ambito militare, dove lo sviluppo di sistemi automatizzati di comando e controllo pone dubbi di natura etica, politica e psicologica. I test effettuati confermano che l’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo e liberando risorse mentali, si associano a un declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più giovani. Questo declino viene misurato attraverso la metodologia HCTA (Halpern Critical Thinking Assessment), un test psicometrico che prende il nome dalla psicologa cognitiva Diane F. Halpert e misura le abilità di pensiero critico (come  valutazione della probabilità e dell’incertezza,  problem solving decisionale,  capacità di trarre conclusioni basate su prove), grazie a un set di domande aperte e a risposta multipla applicate a uno scenario di vita quotidiana. > L’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive > offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo, si associano a un > declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più > giovani. Anche in questo caso, è piuttosto chiaro come l’applicazione della tecnologia ai processi cognitivi possa risultare deleteria, inducendo una sorta di pigrizia difficile da controbilanciare. Le pratiche di scarico cognitivo, infatti, producono i loro benefici quando attivano la mente delle persone che le utilizzano. È quello che succede, per esempio, nel metodo Zettelkasten, una delle tecniche di gestione della conoscenza più conosciute. Creato dal sociologo tedesco Niklas Luhmann negli anni Cinaquanta del Novecento, lo Zettelkasten è un metodo di annotazione pensato per facilitare la scrittura di testi non fiction e rafforzare la memoria delle proprie letture, che prevede di ridurre il tempo che passa tra la lettura di un testo e la sua elaborazione scritta, prendendo appunti e note durante la lettura dello stesso. Come spiega Sonke Ahrens in How to take smart notes, uno dei principali testi di divulgazione sul metodo Zettelkasten, la scrittura non è un gesto passivo. Eseguirlo attiva aree del nostro cervello che sono direttamente collegate al ricordo e alla memoria. Lo scarico cognitivo alla base del suo funzionamento produce perciò un beneficio proprio perché impegna chi lo esegue sia a confrontarsi direttamente con il testo che sta leggendo, sia a scrivere durante l’atto stesso della lettura. Adottare il metodo Zettelkasten significa perciò introdurre in quest’ultima attività una componente di frizione e di impegno, che sono la base della sua efficacia. > Automatizzando le pratiche di offloading cognitivo rischiamo di privarci del > tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria > fino a diventare un pensiero originale. A differenza della maggior parte delle interfacce attraverso cui interagiamo con le tecnologie, in particolare con quelle digitali e di intelligenza artificiale, il metodo Zettelkasten è fatto per produrre attrito. È proprio tale attrito che stimola la nostra mente, la attiva e produce benefici sulle nostre capacità cognitive. Lo Zettelkasten è progettato per far pensare le persone e non il contrario, come recita il titolo di uno dei testi più famosi sull’usabilità web e l’interazione uomo-computer. Perché se ogni processo diventa liscio, privo di frizione, e la tecnologia che lo rende possibile si fa impalpabile fino a scomparire, quello che corriamo è proprio il rischio di non dover pensare. Quando chiediamo a un’intelligenza artificiale di sintetizzare un libro, invece di leggerlo e riassumerlo noi stessi, quello che stiamo facendo è schivare il corpo a corpo con il testo e la scrittura che un metodo come lo Zettelkasten prescrive come base per la sua efficacia. Automatizzare le pratiche di scarico cognitivo significa trasformare in costi i benefici che esse possono apportare alla nostra capacità di ricordare e pensare, proprio perché ad andare perduta è la durata, ovvero il tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria fino a diventare un pensiero originale. Prendere atto di questa contraddizione significa spostare l’attenzione dalla dimensione neurologica a quella culturale e sociale. Perché è vero che invocare interfacce più “visibili” e capaci di generare attrito nell’esperienza utente, o elaborare strategie educative mirate, come suggerisce l’autore, sono atti utili e necessari a riconoscere e gestire l’impatto delle IA sulle nostre menti, ma senza porsi il problema dell’accesso al capitale culturale necessario per un uso consapevole e critico delle tecnologie, tali soluzioni rischiano di restare lettera morta. O, peggio, rischiano di acuire le differenze tra chi ha il capitale culturale ed economico per permettersi di limitare il proprio l’accesso alla tecnologia e chi, al contrario, finisce per subire in modo passivo le scelte delle grandi aziende tecnologiche, che proprio sulla pigrizia sembrano star costruendo l’immaginario dei loro strumenti di intelligenza artificiale. > Nel marketing di alcune aziende gli strumenti di IA non sembrano tanto protesi > capaci di potenziare creatività e pensiero critico, quanto scorciatoie per > aggirare i compiti più noiosi o ripetitivi che la vita professionale comporta. Per come vengono presentati nella comunicazione corporate, gli strumenti di intelligenza artificiale assomigliano meno a delle protesi capaci di potenziare la creatività o il pensiero critico e più a scorciatoie per aggirare i compiti più noiosi, ripetitivi o insulsi che la vita professionale comporta. Il video di presentazione degli strumenti di scrittura “smart” della sedicesima iterazione dell’iPhone è emblematico del tenore di questo discorso. Warren, l’impiegato protagonista dello spot, li usa proprio per dare un tono professionale al testo dell’email con cui scarica sul suo superiore un compito che dovrebbe eseguire lui. Quella che, all’apparenza, potrebbe sembrare una celebrazione dell’astuzia working class è in realtà una visione in cui l’automazione non ha liberato l’uomo dalle catene del lavoro, ma gli ha solo fornito degli strumenti per non essere costretto a pensare prima di agire. Ancora una volta, l’uso delle tecnologie si rivela non soltanto una questione politica, ma anche ‒ e soprattutto ‒ una questione sociale e di classe. Una questione che andrebbe rimessa al centro del dibattito sull’intelligenza artificiale, superando la dicotomia, tutto sommato sterile, tra apocalittici e integrati che ancora sembra dominarlo. L'articolo Ricordare per procura proviene da Il Tascabile.
Scienze
scrittura
neuroscienze
Intelligenza Artificiale
cognitive offloading
La rivoluzione? Non c’è mai stata di Catherine Malabou
N el 1840 Pierre-Joseph Proudhon, studente di poverissime origini e perlopiù autodidatta, che può frequentare l’Accademia di Besançon solo grazie a una borsa di studio per giovani meritevoli, pubblica una risposta al quesito annuale posto dalla sua università, ovvero quali siano “le conseguenze economiche e morali che ha prodotto in Francia, e che sembra destinata a produrre in futuro, la legge sulla equa divisione dei beni tra i figli”. Il suo testo Che cos’è la proprietà, un classico del pensiero anarchico, si apre con la negazione perentoria della legittimità della proprietà. La proprietà, anzi, è furto, esattamente come la schiavitù è assassinio. L’equivalenza delle due affermazioni stabilisce subito il legame per lui essenziale tra possedere e asservire. Questa relazione è di immediata comprensione se calata nel contesto storico feudale, in cui il dominio economico coincide con quello politico, ma diventa più oscura e meno leggibile con la formulazione della proprietà privata come la conosciamo oggi: ben separata dal potere pubblico. Una simile demarcazione, che si cristallizza in Francia grazie alla Rivoluzione del 1789, porta con sé una promessa emancipatoria: l’uguaglianza tra i cittadini si ottiene attraverso il diritto universale alla proprietà. In questo passaggio Proudhon scorge però non la scomparsa bensì la metamorfosi del dominio, di cui la proprietà è l’estensione economica. > Partendo da due critiche alla proprietà privata (teoria dei beni comuni e > decoloniale), Malabou analizza il carattere “performativo” della proprietà, > per poi delineare una breve storia di furto, eredità e asservimento. Nel recente La rivoluzione? Non c’è mai stata (2025), la filosofa francese Catherine Malabou propone una critica alla proprietà, al dominio e alla servitù radicata in quella proudhoniana, con la duplice ambizione di espanderla alle forme contemporanee di asservimento e di metterla al riparo dalla vis polemica di uno dei primi ammiratori ma anche, in seguito, uno dei più feroci commentatori di Proudhon: il contemporaneo Karl Marx. Il volume si impegna quindi per prima cosa nell’analisi di due importanti critiche contemporanee alla proprietà privata, la teoria dei beni comuni e la teoria decoloniale, per poi entrare nel vivo della diatriba tra Marx e Proudhon, e infine stendere una breve storia del furto, del concetto di eredità e dell’asservimento dal feudalismo prerivoluzionario al neofeudalelismo odierno. Lo scopo: > interrogare gradualmente ‒ con Proudhon e oltre Proudhon ‒ l’amnesia generale > che colpisce l’origine della condizione servile, il modo in cui il discorso > repubblicano continua a occultare la memoria delle diverse tradizioni di > asservimento da cui il popolo proviene nella sua stragrande maggioranza. Le due prospettive critiche si rafforzano a vicenda. Affrontare le caustiche osservazioni di Marx permette infatti a Malabou di districare i nodi del testo di Proudhon. Al contempo, lo sviluppo delle tesi proudhoniane le consente di dimostrare come esse siano tutt’altro che generiche, né tantomeno dimentiche (se non addirittura ignare: questa l’accusa più seria mossa da Marx) delle condizioni storiche e sociali in cui il conflitto di classe si sviluppa. > Attingendo dal lavoro dello studioso Robert Nichols, Malabou evidenzia come la > colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e > distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”. L’intuizione di Proudhon è che sia il furto a precedere la proprietà, così inaugurandola, e non viceversa. Si tratta di un’affermazione contraddittoria sul piano cronologico, perché l’atto stesso del furto presuppone, o dovrebbe presupporre, che esista qualcosa da rubare: una proprietà, per l’appunto. Ma Proudhon si muove su un terreno logico e, ancora di più, ontologico e simbolico. Rovesciando il suo ragionamento si può sostenere che l’affermazione della proprietà altro non è che l’istituzionalizzazione del furto, ovvero che la proprietà si crea dichiarandola e che quindi essa non dispone che della propria autolegittimazione. Questa traiettoria è particolarmente chiara se si osservano quelle che Malabou chiama le “nuove enclosures”, come i tentativi di brevettare il genoma umano, il processo di privatizzazione dell’acqua, o la spartizione dell’Internet libera fra i giganti del tech. Lo stesso vale per lo spossessamento coloniale, un’appropriazione forzata di terre e risorse che prima dell’invasione europea non appartenevano a nessuno ed erano liberamente abitate e usate dalle popolazioni indigene. Attingendo da un importante lavoro dello studioso Robert Nichols, debitore di Proudhon già dal titolo Theft is property! (2019), Malabou evidenzia come la colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”: “La subordinazione a ‘élite imperialiste’ ha impedito loro di parlare le loro lingue, di praticare i loro culti; ha cambiato i loro nomi e li ha separati dai loro figli e da loro stessi”. Quest’ultima puntualizzazione le permette di preparare il terreno per alcuni ragionamenti successivi riguardo un aspetto fondamentale della proprietà, sia essa simbolica (identità culturale, genealogia familiare) o concreta: la capacità di riceverla e lasciarla in eredità. Malabou non tralascia qui di sottolineare la distinzione, spesso dimenticata o taciuta in malafede, tra la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo. Solo la prima è al centro delle critiche di Marx e Proudhon, in questo sostanzialmente allineati: il possesso individuale, fondato sull’uso, è del tutto legittimo e anzi minacciato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa si radica sulla spoliazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui. Il carattere performativo della proprietà, il fatto cioè che prenda forma attraverso dispositivi politici e giuridici, costituisce il punto di divergenza con il pensiero marxiano e una frattura di difficile ricomposizione fra i due campi. Per Marx la proprietà non è affatto “impossibile”, come sostiene Proudhon, ma costituisce una necessità storica perché derivante da un processo economico e materiale, quello dell’accumulazione originaria, che pone le basi per lo sviluppo del capitalismo. In questo senso la proprietà non dipende dalle forme arbitrarie del dominio politico, ma risponde piuttosto alle esigenze strutturali del capitale. Secondo i primi teorici anarchici, come lo stesso Proudhon e Kropotkin, gli strumenti della scienza economica impiegati da Marx sono invece insufficienti a spiegare le dinamiche politiche e simboliche che regolano il dominio e la proprietà. > Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono > servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in > un’operazione che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e > proprio per questo naturale. Resta quindi da chiarire la natura del furto: una sottrazione non solo materiale ma soprattutto ideologica, un “trafugamento” del ricordo del dominio nella transizione tra ancien régime e periodo postrivoluzionario. Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in un’operazione di offuscamento che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e proprio per questo naturale. Questa eliminazione della coscienza del dominio si palesa nella questione dell’eredità e del diritto di albinaggio. In epoca feudale e prerivoluzionaria il signore ereditava automaticamente i beni degli stranieri che morivano nel suo territorio. Il legame tra proprietà ed estraneità alla vita civile si concretizza in questo dispositivo giuridico, che non a caso coinvolge anche i bastardi e i servi. L’incapacità di testare ed ereditare, di partecipare cioè alla trasmissione dei beni, delinea il perimetro dell’appartenenza alla condizione libera e crea fra i membri della società una gerarchia speculare a quella che il diritto di primogenitura stabilisce tra fratelli. > Dopo la Rivoluzione il diritto di spossessare si mantiene, traslandosi nel > meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice, > negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e tutto ciò che > consente di fare profitti a spese di chi non possiede nulla. La Rivoluzione spazza via l’insieme dei diritti feudali e con essi anche il diritto di primogenitura, eppure questa trasformazione formale non si traduce nell’uguale possibilità di possedere patrimoni e, di conseguenza, disporne in eredità. Al contrario, il diritto allo spossessamento si mantiene, traslandosi nel meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice, negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e in tutto ciò che consente ai proprietari di fare profitti a spese di chi non possiede nulla. La divisione tra chi sfrutta e chi viene sfruttato muta così nella forma ma non certo nella natura, né tantomeno nei suoi effetti, che hanno a che vedere non tanto, o non solo, con la deprivazione materiale di oggetti e denaro. La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire il signore feudale, così come la simile prassi contemporanea di sequestrare i pochi possedimenti dei migranti al loro arrivo in Europa non ha alcuno scopo economico. Si tratta piuttosto, allora come oggi, di una prova muscolare dell’autorità politica, che dimostra di poter arbitrariamente scaraventare chiunque entri nel suo raggio d’azione “ai margini del sociale”. > La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire > il signore feudale, così come la prassi contemporanea di sequestrare i pochi > possedimenti dei migranti al loro arrivo non ha alcuno scopo economico. Il capitalismo sopravvive dunque non malgrado il gesto rivoluzionario che vorrebbe superarlo, ma proprio in esso. Con questa premessa, Malabou non può che essere scettica nei confronti di alcune moderne teorie secondo cui il capitalismo possa autoregolarsi se non addirittura modificarsi nei suoi caratteri essenziali. Diverse pagine sono dedicate al lavoro dell’economista Jeremy Rifkin e in particolare al suo saggio del 2000 L’era dell’accesso. Secondo Rifkin l’economia contemporanea tende a spostarsi sempre di più dal possesso all’accesso: l’esplosione di servizi a noleggio o in abbonamento, l’intero settore della cultura e del divertimento, il turismo di massa, l’industria del benessere e del fitness descrivono a suo dire un nuovo modello economico che pone maggior rilievo all’esperire rispetto al possedere, e di conseguenza all’accesso (provvisorio e di certo non trasmissibile) piuttosto che allo scambio. Di conseguenza, possedere beni materiali è sempre meno importante fintanto che la possibilità di farne comunque uso resta garantita. Eppure, riflette Malabou, la proprietà delle infrastrutture che assicurano tale esperienza non scompare, e neanche lo spossessamento. L’autrice ha ulteriormente chiarito questo punto in un’intervista concessa a Philosophie Magazine: > Quando si guarda alla storia della proprietà privata, essa non è mai stata, > per la gente comune, un fattore di emancipazione. Piuttosto è il contrario. Si > deve pur vivere da qualche parte e, per chi voglia possedere quella “qualche > parte”, l’accesso alla proprietà avviene solitamente a costo di rinunce. Al > giorno d’oggi molti giovani preferiscono affittare piuttosto che acquistare. > C’è una vera crisi del mercato immobiliare e una sensibile restrizione dei > crediti bancari. Quanto ai beni di consumo: ne possediamo senza dubbio di più, > ma quanto valgono? Per la maggior parte nulla. Quando si perdono i genitori e > si svuota la loro casa, si scopre presto che i tre quarti degli oggetti non > hanno alcun valore, e quelli che forse ne hanno sono spesso privi di ogni > legame affettivo. Si eredita pochissimo. L’apparente abbondanza di beni > nasconde la futilità, la liquidità dei beni personali. Non è che la ricchezza, > la vera ricchezza, a determinare il senso e l’effettività dell’eredità. Secondo Malabou la proprietà non va quindi regolata: deve piuttosto essere abolita non solo sul piano materiale dei beni ma anche su quello simbolico, cioè dei meccanismi che legittimano il potere. In questa prospettiva, l’autrice si interroga sul ruolo dell’anarchismo in questo processo, esaminando le proposte del movimento politico e teorico dei beni comuni sul solco delle direzioni individuate da Proudhon (riconquista della forza collettiva, mutualismo, federalismo). Ma questo movimento, come ogni altro, si coagula attorno a un’idea di futuro, all’auspicio di un miglioramento delle condizioni presenti. Tale futuro e le sue caratteristiche non possono restare indeterminati perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli. In altre parole, lo slancio verso un futuro immaginato parte da un principio (in questo caso il comune) nel suo doppio significato di “idea centrale” e “cominciamento”: tutto ciò che l’an-archè (assenza di principio) rifiuta. Il principio si trova all’inizio e nel nucleo rovente della teoria e della pratica politica: tutto dovrà seguirlo ed essere in armonia con esso, pena lo snaturamento del progetto stesso. È qui che Malabou rileva un’insidia appostata: quella della gerarchia, rigida e intollerante. > Ogni movimento si coagula attorno a un’idea di futuro e a un auspicio di un > miglioramento delle condizioni presenti che non possono restare indeterminati, > perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli. È in questo spazio di tensione tra teoria e prassi che Malabou colloca la figura dell’anarchico. Lo spazio in cui agisce l’anarchico, per tradizione estraneo e sradicato, è infatti “incerto e pericoloso”. Qualsiasi tentativo di associarlo a un ideale politico univoco e definito comporterebbe la chiusura di questo spazio. Conviene allora usare l’anarchismo come Malabou si serve delle teorie proudhoniane: non un progetto politico di carattere normativo quanto un “quadro politico interpretativo” che consenta all’anarchico di > diventare il portavoce di ubenati, servi, bastardi e operai restando uno > straniero: interrogare la memoria rubata della servitù senza creare memoria > servile né discepoli obbedienti. Restare l’altro, improprio e > “improprietario”. L'articolo La rivoluzione? Non c’è mai stata di Catherine Malabou proviene da Il Tascabile.
Recensioni
saggistica francese
capitalismo
storia contemporanea
proprietà
Che suono ha un’epoca?
S e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica musicale. Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop – è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso: “Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come il linguaggio scritto. A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca intera. Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici, sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda (2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta; Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane; Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11 settembre. PARTIAMO DA NOVANTA. VORREI METTERLO IN PROSPETTIVA CON ALTRI LIBRI CHE HAI SCRITTO IN CUI SI PARLA DI MUSICA. IN NOVANTA SI PARLA TANTO DI MUSICA, CI SONO SEI CAPITOLI SU SEDICI IN CUI È PROTAGONISTA ASSOLUTA. IL TUO PRIMO LAVORO UNITARIO DI RICERCA È STATO SUPERONDA, CHE HA UN APPROCCIO STORICO, DI STORIA DELLA CULTURA MUSICALE. POI EXMACHINA, CHE È UNA COSA MOLTO DIVERSA. LÌ IL SUONO È LO SFONDO, L’AMBIENTAZIONE A CUI GUARDARE PER CAPIRE UN PEZZO DI STORIA DELL’UMANITÀ. IN NOVANTA INVECE TORNI DI NUOVO SULL’APPROCCIO STORICO, UNA STORIA DEI MOVIMENTI E DELLE SOTTOCULTURE, IN CUI LA MUSICA È UN PERSONAGGIO – NON PIÙ L’AMBIENTAZIONE – SEPPURE MOLTO INGOMBRANTE, CHE PERÒ VIVE ANCHE DELLE RELAZIONI CON ALTRI PROTAGONISTI: LINGUAGGI, IMMAGINARI, MOVIMENTI POLITICI. SE IN EXMACHINA I SUONI RACCONTANO UN’EPOCA, IN NOVANTA INVECE I SUONI STANNO DENTRO UN’EPOCA, E INTERAGISCONO CON MOLTI ALTRI FENOMENI CULTURALI NEL CREARNE L’AFFRESCO. LA COSA CHE AVVICINA QUESTI DUE LAVORI È CHE IN ENTRAMBI I CASI LA MUSICA È UN PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO PER COMPRENDERE UNA TEMPERIE. PERCHÉ LA MUSICA E I MODI ESPRESSIVI CHE LE GIRANO INTORNO – VESTITI, ARTI VISIVE, ATTEGGIAMENTI, GESTI, IN SINTESI, LE CULTURE SONORE – SONO UN PUNTO DI VISTA COSÌ PRIVILEGIATO PER COGLIERE LO SPIRITO DEL TEMPO? La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta – un cappello in cui ci puoi mettere tanto Taylor Swift quanto, che ne so, un qualche rumorista giapponese che fa noise assassino – è un sensore. E anche un laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava Rumori, se non sbaglio… La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali, anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica. Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo. Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è, innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con, per esempio, i cambiamenti tecnologici. PERCHÉ LI USA. Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto. Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite. E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’ ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è sempre indietro… GLI ARRIVANO PER ULTIMO QUESTE TRANSIZIONI? Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso, molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire: “vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune. HAI USATO LA PAROLA SENSORE… È UNA PAROLA CHE HO LETTO IN NOVANTA: A UN CERTO PUNTO, MOLTO RAPIDAMENTE, CITI QUESTA “TEORIA DEL SENSORE STORICO” DI PRIMO MORONI, BALLERINO, STUDIOSO, SCRITTORE, LIBRAIO, AGITATORE CULTURALE, UN PERSONAGGIO CHE POI APPROFONDISCI PIÙ AVANTI. MI È SEMBRATO CHE, DOPO AVERLA MENZIONATA, ACCANTONASSI QUELLA TEORIA; INVECE LA TENEVI COME PRINCIPIO ORGANIZZATIVO DEL LIBRO. NEL BELLISSIMO PASSAGGIO IN CUI INTRODUCI MILITANT A, IL PRIMO A INCIDERE UN PEZZO RAP IN ITALIANO, SCRIVI CHE LA SUA “È LA STORIA DI UN CATALIZZATORE – INVOLONTARIO, FORTUITO, ACCIDENTALE – LE CUI GESTA RIUSCIRANNO NIENTEMENO A CAMBIARE L’INTERO CORSO DEGLI EVENTI”. POI CONTINUI: “VA BENE, VA BENE: GLI EVENTI SAREBBERO CAMBIATI ANCHE SENZA DI LUI. MA, A VOLTE, È COME SE LA STORIA AVESSE BISOGNO DI PICCOLE, SINGOLE ANTENNE CHE CON LE LORO SEMPLICI AZIONI IMPRIMONO SVOLTE DAGLI ESITI IMPREVISTI”. Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale. TIPO JON LANDAU CON “HO VISTO IL FUTURO DEL ROCK’N’ROLL E IL SUO NOME È BRUCE SPRINGSTEEN”. Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende Bob Dylan, Bruce Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth Amen negli anni Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi, se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare Batti il tuo tempo, sarebbe stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli esempi, in qualche modo, sono dei piccoli glitch. Quello che mi interessa semmai è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non ci si aspetta. IL TUO STILE DI SCRITTURA E DI PENSIERO, QUESTO MODO DI STUDIARE LE MUSICHE E LE CULTURE SONORE, GUARDANDO A COME PARLANO CON IL MONDO FONDENDO STORIA, FILOSOFIA, RIFLESSIONE PERSONALE, CON NEL TUO CASO – PENSO A EXMACHINA – ANCHE UNA COMPONENTE ROMANZESCA DI ALLUCINAZIONI IMMAGINIFICHE UN PO’ OSCURE… È UNO STILE CHE DEVE MOLTO A TUTTO UN FILONE DI GIORNALISTI-TEORICI, OVVIAMENTE REYNOLDS, MA ANCHE TUTTO IL GRUPPO CHE CON LUI HA INVASO LA RIVISTA NEW MUSICAL EXPRESS TRA FINE ANNI SETTANTA E INIZIO OTTANTA: STUBBS, PRIMA ANCORA PAUL MORLEY, IAN PENNIMAN, BARNEY HOSKYNS. QUESTI AUTORI HANNO CREATO UNA VISIONE SPECIFICA DELLA CRITICA MUSICALE, IL CUI CREDO SUONA PIÙ O MENO COME: LA CRITICA MUSICALE SCONFINA E STRABORDA PER FORZA NELL’ANALISI E NELLA CRITICA CULTURALE A TUTTO TONDO, NEL MOMENTO IN CUI SI RENDE CONTO CHE LA MUSICA POP È TALMENTE INVISCHIATA NEL RIBOLLIRE DEL MONDO CHE VA STUDIATA PER FORZA INSIEME AL MONDO. CIOÈ SE PARLI DI MUSICA, DEVI PER FORZA PARLARE DI TUTTO IL MONDO. SECONDO ME QUESTO È PROPRIO UN GENERE LETTERARIO A SÉ STANTE CHE DÀ UNA CERTA COMPRENSIONE DEL MONDO. ANCHE TU ALLA FINE PARLI DEL MONDO: IN EXMACHINA I CAPITOLI SONO DEDICATI A APHEX TWIN, AUTECHRE E BOARDS OF CANADA, MA IL TEMA VERO È LA RIVOLUZIONE INFORMATICA. PERÒ NE PARLI IN MODO DIVERSO DA QUELLO CHE FA UN LIBRO DI STORIA NORMALE. SECONDO ME, QUESTO GENERE LETTERARIO DÀ UN MODO DI COMPRENDERE LE COSE ECCEZIONALE, PERÒ MOLTO OBLIQUO, UN PO’ INIZIATICO, PERCHÉ NOI – NOI CON LA NOSTRA FORMAZIONE SCIENTIFICA – NON SIAMO ABITUATI A RAGIONARE COSÌ. SE PENSO “VOGLIO COMPRENDERE ‒ CHE NE SO ‒ LA RIVOLUZIONE INFORMATICA, DEVO STUDIARE DEI DATI, DEI FATTI FISICI ED ECONOMICI, MAGARI. CI SEMBRA STRANO DI POTERNE CARPIRE DEGLI ASPETTI IMPORTANTI A PARTIRE DALLA DESCRIZIONE DEI SUONI NEI DISCHI PUBBLICATI IN QUEL PERIODO. UNA DESCRIZIONE SPESSO FANTASIOSA E PERSONALE. PERDONAMI SE È UNO SVARIONE, MA MI FA PENSARE A QUELLO CHE DARIO FABBRI – NON SO SE SEI FAN… Per niente! BENE. MA, DICEVO, MI RICORDA QUELLO CHE LUI, NEL SUO AMBITO, DICE DI FARE CON LA “GEOPOLITICA UMANA”; LUI DICE CHE QUELLO CHE GLI INTERESSA NON È SPIEGARE GLI SCENARI INTERNAZIONALI A PARTIRE DAI RAPPORTI ECONOMICI TRA GLI STATI, GLI ARSENALI MILITARI, MA A PARTIRE DAL SENTIRE COMUNE DELLE POPOLAZIONI, DAI LORO APPETITI, LE LORO PAURE… È UNA COSA CHE A LIVELLO DI RIGORE SCIENTIFICO È MOLTO LABILE. È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in un piano deterministico, si può dire. ESATTO. PERÒ IL PARAGONE LO FACEVO PERCHÉ MI SEMBRA CHE IN QUESTA DECLINAZIONE MOLTO AMBIZIOSA DELLA CRITICA MUSICALE LA SCOMMESSA È PRENDERE PROPRIO DELLE SENSAZIONI, QUELLE LEGATE AI SUONI – CHE OVVIAMENTE NON SONO SOLO SENSAZIONI SOGGETTIVE PERCHÉ SONO INSERITE IN DEI CODICI E ANCHE IN DELLE CONDIZIONI MATERIALI – E, SÌ, OGGETTIFICARLE IN UNA CERTA MISURA. Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il precedente Remoria, per me sono due romanzi. REMORIA NON L’HO CITATO PROPRIO PERCHÉ LO CONSIDERAVO UN CASO A PARTE INFATTI, NARRATIVA PURA. Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè. Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon Valley, banalmente. SÌ, INFATTI, SI AGGANCIA ANCHE A DEI RAPPORTI ESISTITI TRA PERSONE. È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca. Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio Techgnosis di Erik Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU – Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra. Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti. Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale, quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica. Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali. Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione. PERCHÉ CI SONO LE PAROLE CHE SONO IL CONCETTO, INVECE IL SUONO È UNA COSA AMORFA. È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi. Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una quinta, definita da questo banale spostamento. COME DICEVI È IMMEDIATO, DICIAMO, NON C’È UN DISTACCO, NON C’È UN FILTRO, NON PUOI DIRE “IO SONO IO E CAPISCO QUESTA COSA CHE STA FUORI DI ME”. Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità. SULLA SOTTOVALUTAZIONE DELLA MUSICA NEGLI AMBITI CULTURALI, C’È UN LIBRO DI CUI VOI AVETE SCRITTO SU NOT, DIALECTIC OF POP DI AGNÈS GAYRAUD. LÌ LEI, CONTRO ADORNO, PROPONE UNA DIFESA DEL POP COME LINGUAGGIO ESTETICO UNIVERSALE, CAPACE DI ARTICOLARE UNA RIFLESSIONE SUL MONDO TECNOLOGICO E SULLE FORME DELLA VITA CONTEMPORANEA – NON SOLO COME PRODOTTO STANDARDIZZATO DELL’INDUSTRIA CULTURALE, MA COME LUOGO IN CUI SI MANIFESTANO UNA SERIE DI TENSIONI: TRA INDIVIDUO E COLLETTIVITÀ, TECNICA E SENSIBILITÀ, MATERIA E FORMA… PER LEI IL POP NON È L’OPPOSTO DELLA TEORIA, MA È GIÀ UNA TEORIA IN ATTO, È FILOSOFIA CHE PASSA ATTRAVERSO IL SUONO E IL CORPO. IN EXMACHINA, IN MODO SIMILE, TRATTI L’IDM (INTELLIGENT DANCE MUSIC) COME UN PENSIERO INCARNATO, UNA FILOSOFIA DELLE MACCHINE. PENSI CHE IN ITALIA ESISTA UN PREGIUDIZIO ADORNIANO CONTRO LA RILEVANZA CULTURALE E POLITICA DEL POP? HO L’IMPRESSIONE CHE ALTROVE, IN AMBITO ANGLOFONO AD ESEMPIO, I POPULAR MUSIC STUDIES ABBIANO CONQUISTATO SPAZIO E DIGNITÀ ACCADEMICA, MENTRE QUI IL POP SEMBRA RESTARE CONFINATO A UN IMMAGINARIO DI CONSUMO O DI COSTUME. È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella stessa Spagna. L’Italia è veramente… NON ERA PER FARE GLI ESTEROFILI COSÌ GRATIS EH, È UN’OSSERVAZIONE. No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza. Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con l’imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è Umberto Eco, che invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da quell’imprinting. Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente, perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola adorniana. In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai la pena prenderla troppo sul serio. CHE INTENDI PER EPIFENOMENO? Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni. Sì, l’Italia non è il caso di scuola. NEL CAPITOLO DI NOVANTA INTITOLATO UNDERGROUND, OVERGROUND, MAINSTREAM, PARLANDO DI QUELLO CHE ALL’EPOCA NEL ROCK ITALIANO SI CHIAMAVA “CROSSOVER”, CIOÈ BAND COME BLUVERTIGO E SUBSONICA, SCRIVI CHE QUEI GRUPPI SAREBBERO STATI INCONCEPIBILI SENZA IL LAVORO PREPARATORIO DEI CENTRI SOCIALI, E IL FATTO CHE SIANO ARRIVATI DA LÌ A SANREMO “MOSTRA LA FACILITÀ CON CUI IL SISTEMA SAPEVA ASSORBIRE QUALSIASI SPINTA PROPULSIVA DAL BASSO PER TRASFORMARLA IN MERA MERCE STERILIZZATA”, E CHE QUINDI “IL CROSSOVER ERA UN MODO COME UN ALTRO DA PARTE DELL’INDUSTRIA DI COPRIRE UNA FETTA NUOVA DI MERCATO VENENDO INCONTRO AI GUSTI DI UN PUBBLICO ‘MIDBROW’, TROPPO GIOVANE PER ACCONTENTARSI, MA TROPPO TIMOROSO PER SPINGERSI DOVE LA RIVOLUZIONE COLAVA DAVVERO”. ALLA LUCE DEL FATTO CHE ESISTONO QUESTI MECCANISMI TRAMITE CUI IL MERCATO VAMPIRIZZA I SUOI POTENZIALI NEMICI UNDERGROUND E LI ASSORBE, SECONDO TE È POSSIBILE UNA CONTROCULTURA OGGI? IN REALTÀ TI HO SENTITO DIRE CHE PREFERISCI USARE IL TERMINE SOTTOCULTURA, MAGARI MI SPIEGHERAI PERCHÉ. IN QUESTO CASO LA DOMANDA DIVENTA: È POSSIBILE UNA SOTTOCULTURA CON UNA CARICA ANTAGONISTICA? SECONDO ME QUELLO CHE ACCADE CON I SOCIAL MEDIA E GLI ALGORITMI È CHE LE SOTTOCULTURE CHE UN TEMPO, FINO AGLI ANNI NOVANTA, ERANO MOVIMENTI FONDATI SU DEI VALORI, INTERESSI CONDIVISI E DELLE COMUNITÀ CONCRETE, SOLIDE E CEMENTATE, INVECE ADESSO SEMBRANO INNANZITUTTO RIDOTTE AL LORO ASPETTO ESTETICO; IN PIÙ SONO DELLE ESTETICHE EFFIMERE E DECORATIVE, TANT’È CHE SPESSO VENGONO PRESE DI PESO E USATE A FINI DI MARKETING. NON È RARO VEDERE UN TIPO DI ESTETICA SOTTOCULTURALE CHE DIVENTA LA MOODBOARD DI UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA, O PROPRIO DI UN PRODOTTO. POI C’È UN ALTRO ASPETTO: UN ANTROPOLOGO CHE SI CHIAMA TED POLHEMUS SOSTIENE CHE I GIOVANI NON CREANO PIÙ SOTTOCULTURE, MA SI MUOVONO COME IN UN SUPERMERCATO, ARRAFFANDO E MESCOLANDO STILI E SIMBOLI PRESI DA SOTTOCULTURE DIVERSE, PASSATE E PRESENTI, SENZA LEGAMI, RIDUCENDO LE COMUNITÀ A UN INSIEME DI ELEMENTI VISIVI PRIVI DI IDEOLOGIA CONDIVISA. ALTRI INVECE, COME TIM STOCK, OSSERVANO LA NASCITA DI NUOVE MICROSOTTOCULTURE ONLINE, MENO LEGATE A ESTETICHE E PIÙ A DETERMINATE NARRAZIONI O OPINIONI CONDIVISE… TU COME LA PENSI? Non conosco Ted Polhemus, è importante? NON LO SO SE È IMPORTANTE, L’HO TROVATO SU INTERNET COME QUALSIASI COSA. “Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del 1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus, ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila, Otaku. Tu sai cos’è un otaku? NO, E NON CONOSCO AZUMA. Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché sembra una rock star… È LUI DA GIOVANE, FORSE? UN MEZZO HIPPIE. Sì… comunque, in Giappone gli otaku vengono descritti come giovani ragazzi, perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli otaku non fossero soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi venivano assemblati e riutilizzati dagli otaku stessi, secondo una logica che Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo senso l’elemento sottoculturale c’è, è il patchwork… ed è una pratica attiva, non la svilirei. Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale. La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però, evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci propinate voi. E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione. Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto… ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti, ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata, ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista – per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici, preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa più scivoloso e complesso. Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura, perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io, nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura. Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata… però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi. UN’ULTIMA DOMANDA, SEMPRE SULLE PROSPETTIVE FUTURE, MA IN QUESTO CASO DELLA MUSICA. IN FUTUROMANIA, SIMON REYNOLDS PERCORRE TUTTI I SUONI CHE HANNO VISTO LONTANO, LE MUSICHE DEL PASSATO E DEL PRESENTE CHE HANNO EVOCATO IL FUTURO. NELLA CONTEMPORANEITÀ, AD ESEMPIO, INDIVIDUA ALCUNI ARTISTI DELLA TRAP AMERICANA ESEMPI ANCORA FUNZIONANTI DI QUESTA SPINTA INNOVATIVA. IL LIBRO SI PONE COME CONTROCANTO A RETROMANIA, CHE INVECE MOSTRAVA LA TENDENZA DELLA MUSICA POP A GUARDARE OSSESSIVAMENTE AL SUO PASSATO – E ALLA HAUNTOLOGY DI FISCHER, CHE DESCRIVE COME CERTI GENERI MUSICALI SIANO PERSEGUITATI DA FANTASMI DEL PASSATO O DALLA NOSTALGIA PER UN FUTURO NEGATO. SECONDO TE, QUALI SONO OGGI I SUONI DEL FUTURO? LA MUSICA CONTEMPORANEA RIESCE ANCORA A PROIETTARSI IN AVANTI? Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina. L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi con la Macchina lo riflettono. PERCHÉ LA MACCHINA ASSEMBLA COSE CHE GIÀ ESISTEVANO IN PRECEDENZA? La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa? Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato; poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no alternative” non lascia spazio al nuovo… Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene meno, non è un motivo di preoccupazione. Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto immediato e non mediato di circostanze più ampie. GIÀ È IMPORTANTE LA FORMULA CHITARRA E VOCE, PER ESEMPIO NELLA LO-FI. Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo guarda più – al teppista di strada, il maranza. Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione. Comunque, la Macchina ragiona diversamente. L'articolo Che suono ha un’epoca? proviene da Il Tascabile.
Linguaggi
musica
società
pop
controculture
Ciao
T utto ciò che so dei Novanta non l’ho vissuto, mi ha impregnato come un residuo ectoplasmatico, attraverso i palinsesti televisivi e i VHS graffiati dal Telefunken di mio padre. Ciò che possiedo non è memoria, si tratta piuttosto di possessione, di un corpo estraneo che mi abita. Per questa ragione Novanta (2025) di Valerio Mattioli ha agito sul mio immaginario come un esorcismo, perché è stato capace di sottrarre quegli anni all’iconografia stantia a cui li ha relegati la retorica ufficiale. Novanta non accetta la liturgia storico-mediatica che comprime il decennio tra il 9 novembre 1989 e l’11 settembre 2001; segue infatti un’altra logica, senza filtrare gli anni Novanta italiani con i grandi eventi globali, ma con il lavoro di una generazione che ha reinventato il conflitto e ne ha spettacolarizzato la forma. Se da una parte la storia ufficiale sembrava essersi interrotta con la fine della guerra fredda, dall’altra parte, come in una dimensione parallela, riemergeva dalle nebbie del passato una controstoria che con pratiche, gesti, linguaggi, era pronta a edificare un altro mondo sulle ceneri di un’altra epoca. Quelle pratiche e quei linguaggi attraversano ancora oggi il nostro presente, continuano a pulsare, vivi, come un’eredità che reclama attenzione e riconoscimento. Il risultato del libro è un’archeologia del recente passato che rimette in moto correnti sotterranee date per disperse. > Seguendo lo sprofondamento psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i > conti con un decennio fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una > realtà brulicante di sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai > movimenti successivi. Ma il decennio dimenticato non è possibile da decifrare se non si fanno i conti con la sua preistoria, il lungo Sessantotto, il decennio bandito, i Settanta. Mattioli li descrive come la preistoria del Movimento. Il biennio 1977-78 rappresentava un nodo irrisolto della storia e della controstoria italiana. Un’epoca di gioia feroce e di rigetto dell’autoritarismo, che vide la convergenza tra studenti e operai, veniva ridotta in superficie ai toni grigi scuri di La notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Seguendo lo sprofondamento psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i conti con un decennio fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una realtà brulicante di sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai movimenti successivi. Gli anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante degli “anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo rituale” dei Novanta stessi. È nella preistoria dei Novanta che nacquero i centri sociali autogestiti (CSA) come il Leoncavallo a Milano e furono proprio i CSA, pur con le loro profonde divergenze di vedute, a tenere insieme le due età. Funzionarono come dispositivi politici e culturali, come comuni eterodosse dentro fabbriche dismesse, furono laboratori di musica e militanza, zone di sperimentazione a partire dalle quali si è tentato di assaltare il cielo della cultura mainstream. Le due anime che caratterizzano la geografia dei centri sociali furono la militanza e la controcultura, due direttrici che si sono incontrate e scontrate. La militanza di chi è cresciuto nei Novanta risaliva all’eredità dell’Autonomia del 1977: la Pantera ad esempio, il movimento studentesco che da Palermo unirà l’Italia in una intensa opposizione alla riforma Ruberti dell’università. Le università occupate faranno infiammare la ferita mai sanata del potere costituito, obbligato dal trauma a vivere quella eco come un ritorno del rimosso, con le sirene spiegate della paranoia, dell’allarme e della repressione. Ma sebbene negli anni Novanta i CSA attingessero abbondantemente al lessico e alle pratiche dell’Autonomia, da cui derivavano specificamente il rifiuto del lavoro, l’ironia, l’azione diretta e l’uso creativo dei media, anche e soprattutto attraverso la provocazione, il decennio dimenticato, ironia del destino, era “profondamente estraneo” a sentimenti quali la “nostalgia”, per cui il legame con il passato diventava più una riserva di carburante “necessaria a proiettarsi a velocità supersonica verso il futuro”. > Gli anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante > degli “anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo > rituale” dei Novanta stessi. La controcultura d’altra parte non sbucò dal nulla e risaliva anch’essa alle esperienze di estrema sperimentazione degli anni Settanta, centrali per l’intersezione tra psichedelia e rivoluzione La politica rivoluzionaria e l’underground artistico finirono per toccarsi, generando una iridescenza difficile da classificare. Riviste come Re Nudo organizzarono festival all’aperto che somigliavano a grandi comuni temporanee: “La Festa del proletariato giovanile” era un happening hippie rivestito di parole d’ordine marxiste, un luogo dove l’etica operaia si sgretolava davanti al richiamo del piacere immediato. L’idea del “tutto subito”, nel suo mix di edonismo e militanza, lasciò una scia che avrebbe continuato a brillare sotterranea per decenni. Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la repressione svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere accesa quella brace. L’anarcopunk, con spazi come il Virus di Milano, recuperò principi della controcultura hippie, dall’ecologismo al pacifismo, traducendoli però in un ethos separatista, rigido, antisistema fino al midollo. Poco dopo, il circuito post-punk e industrial legato all’Helter Skelter nel Leoncavallo avviò un’operazione quasi archeologica: riportare in vita l’eredità psichedelica degli anni Settanta e farne materia di nuove comunità, nuove estetiche, nuove liturgie del “vivere insieme”. La memoria hippie veniva riscritta attraverso suoni più cupi, macchine rumorose e visioni distopiche, ma il nucleo rimaneva quello, l’idea che un’altra forma di società fosse possibile. > Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in > particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la > repressione svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere > accesa quella brace. Questa danza tra arte e politica si slanciò nello scontro diretto contro l’ordine globale attraverso il rituale dello scontro di piazza brevettato dalle Tute bianche, emerse a metà degli anni Novanta, nella Padova di Toni Negri e del postoperaismo, che si proposero come diretti eredi della militanza. Vestiti come “fantasmi”, le Tute bianche avevano come obiettivo il superamento della dimensione intermittente dell’agire politico e affermare il principio di “conflitto e consenso”, preparando la strada per le contestazioni globali di fine decennio. Nella continua dialettica tra militanza e controculture artistiche riprese corpo il Movimento, con la sua denuncia-profezia del capitalismo della sorveglianza, le lotte per il reddito di base universale, il rifiuto del lavoro, i pericoli dell’abbraccio morale tra nuove tecnologie e ideologie ultraliberiste. La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione culturale. Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e l’Onda Rossa Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento. Militant A, una delle anime del gruppo, cercava una moralità superiore e l’euforia collettiva che aveva animato il movimento degli anni Settanta. Il libro è inevitabilmente anche una storia del panorama underground legato ai CSA e delle sue incursioni nel mondo commerciale. Dal rap in italiano al tarantamuffin, dalla techno del “suono di Roma” alla teoria della pompa suprema di Lori D., i capitoli del libro sembrano i quadri di Hieronymus Bosch, carichissimi di personaggi e situazioni, di cui rimangono impresse le pennellate con cui vengono dipinte la rabbia militante e di provincia dell’abruzzese Lou X, lo stile bolognese di Dee Mò e dell’Isola Posse All Star, fino a SxM, l’album di culto dei Sangue Misto. Si trattò di strumenti di lotta ed egemonia, parti di una guerra asimmetrica diffusa e capillare, condotta da “coindividui” come Luther Blissett, ed esperienze radicali come la rivista Torazine e lo sfondo queer e transfemminista che le aveva rese possibili. > La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione > culturale. Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e > l’Onda Rossa Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento. Dopo l’ennesimo tentativo di sgombero del Leoncavallo nel 1994, i movimenti sembravano sempre più un unico Movimento, riuscendo a trarre una lezione importante dai femminismi degli anni Settanta e dalla loro avversione al maschiocentrismo della sinistra rivoluzionaria. Dopo che certi steccati furono scavalcati, la lotta sembrava unire personaggi diversissimi tra loro, darkettoni, militanti nerd, profeti con il microfono in mano, attivisti transgender e teorici della lotta omossessuale marxista. Novanta potrebbe valere come appendice dell’Escatologia occidentale, scritta dal rabbino Jacob Taubes. Eredi di una tradizione che, come nota Taubes, si muove sul crinale dove apocalittica e gnosi si incontrano, sotto la superficie delle occupazioni, dei cortei, delle comuni fricchettone, pulsa la stessa corrente che, nei secoli, ha animato profeti, settari, comunità perseguitate. I festival di Re Nudo, le comuni, la psichedelia, e poi la Pantera, con il suo improvviso accendersi e il suo immediato propagarsi, ha qualcosa delle ondate messianiche luriane: un’energia collettiva che prende fuoco perché riconosce nel presente la stanchezza di un eone in dissoluzione. Il cyberpunk di Decoder, con il suo “i piedi sulla strada, la testa nei computer”, aggiorna l’antico dualismo gnostico: materia e spirito, corpo e rete, qui e altrove. I rave illegali, contaminati dalle tribù tekno-travellers, recuperano la matrice nomade e comunitaria degli antichi movimenti ereticali, dal manicheismo fino ai Mandei. La militanza degli anni Novanta, dal rap militante dell’Onda Rossa Posse alle Tute bianche, riprende un’eredità che ricorda da vicino la dialettica di Münzer o degli spirituali francescani: la convinzione che un altro ordine sia possibile non per evoluzione graduale, ma per rottura. Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai rave, dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un episodio della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano l’eone presente e tentano di costruire un regno a venire. In questa luce, i centri sociali assumono un profilo quasi conventuale: piccoli laboratori di apocalissi quotidiane, dove la vita comune è un gesto di opposizione e insieme di attesa. Come nelle comunità gnostiche, la salvezza non è rimandata al futuro: si pratica nel qui e ora, nella condivisione dei mezzi, dei linguaggi, dei corpi. È questa la ragione profonda per cui vengono percepiti come minaccia: come gli eretici medievali, i movimenti degli anni Novanta non contestano solo il potere, ma la forma stessa del mondo. L’epica tragica di Novanta mi ha riportato in mente un cult videoludico della seconda metà degli anni Novanta, la saga per Playstation Legacy of Kain. Nel 1999 il secondo capitolo della storia ci introduce a Raziel, il vampiro-lieutenant di Kain, il “padre” tirannico che lo punisce per la sua superbia, gettandolo nel lago dei morti. Contro ogni aspettativa, Raziel riemerge come wraith: un essere spettrale, nutrito e manipolato dal Dio anziano, una divinità lovecraftiana degli abissi, che rende il protagonista capace di oscillare tra il piano materiale, corrotto e decadente, e quello spettrale, un piano dimensionale capovolto, dove l’acqua perde consistenza e il tempo scorre più lentamente. Quando il protagonista ritorna nel piano materiale, Nosgoth, un tempo impero vampirico, è ora una landa desolata, in rovina, i clan e i fratelli di Raziel che la reggevano si erano dissolti in orrende mutazioni, le sue terre desolate erano state ferite dall’equilibrio spezzato dalla hybris di Kain. > Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai > rave, dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un > episodio della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano > l’eone presente e tentano di costruire un regno a venire. Più ci penso e più i centri sociali mi appaiono come “regni vampirici” dove si praticavano riti di resistenza collettiva contro il capitalismo neoliberale. Erano luoghi di iniziazione politica, con musica underground, rave, assemblee e azioni dirette che incarnavano una controcultura viva. Ma come Raziel questo movimento si spinse troppo vicino al sole: la proclamazione di guerra consegnata alla stampa dalle Tute bianche al Genoa Social Forum all’alba di un appuntamento con la storia che avrebbe dovuto certificare la forza del movimento fu l’apice della hybris della militanza degli anni Novanta. Furio Jesi nel suo saggio sulla metamorfosi del vampiro nella cultura tedesca contenuto in L’accusa del sangue, vede nel vampiro un aspetto che va oltre il mostro folkloristico puro, interpretandolo come un’immagine mitologica distorta imposta come marchio su quei movimenti ereticali combattuti dall’ortodossia cristiana. Sconfitti e repressi, gli eretici sono diventati “mostri” notturni, residuati di pratiche rese incomprensibili dopo che il potere costituito ha pronunciato la sua damnatio memoriae. Il vampiro jesiano diventa il volto sfregiato dell’Iniziato, colui che, in società arcaiche, attraversava prove di morte e rinascita per accedere a un piano superiore di conoscenza o potere. La volontà di sfondare la mitologica “zona rossa”, cuore dell’ordine mondiale, portarono rapidamente al crollo di quella fase della storia del panorama antagonista. Il movimento si frantumò e l’equilibrio precario tra autonomia e integrazione si corruppe in un paesaggio di rovine, monumenti di una crisi identitaria, simboli di cooptazione da parte del mainstream, o semplice oblio degli anni Duemila. Come Nosgoth dopo la corruzione di Kain, l’Italia post-G8 vide i suoi “pilastri” crollare in un’era di sorveglianza e securitarismo, oramai non più allucinazioni dei collettivi eretici degli anni Novanta ma realtà effettive. Come già in Remoria (2019), in cui la città di Remo ha la sua occasione di emergere a discapito della città di Romolo, Valerio Mattioli riusa questo schema di ribaltamento negromantico della damnatio memoriae e assume le sembianze del Dio anziano di Legacy of Kain, diventando un narratore sotterraneo, manipolatore di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie della retorica ufficiale. Lo trasforma così in un’arma vendicativa atta a mondare il doppelganger edonista e berlusconiano del decennio perduto. Mattioli è capace di liberare il lettore dal piano spettrale, l’immagine ufficiale degli anni Novanta, fatta di MTV, consumismo e pacificazione, per farlo riemergere sul piano materiale, ossia la memoria militante dei riti sotterranei di resistenza, le lotte dimenticate. > Come già in Remoria Valerio Mattioli riusa lo schema del ribaltamento > negromantico della damnatio memoriae, diventando un narratore sotterraneo, > manipolatore di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie > della retorica ufficiale. Mentre il tempo culturale sta iniziando a rigettare il decennio perduto per produrre cultura rediviva, il lettore di Novanta dovrebbe oggi porsi un interrogativo dirimente: questa rinascita culturale è vera redenzione o solo un altro ciclo di predazione mitica? Di sicuro libri come quelli di Mattioli devono essere visitati non come mausolei della storia antiquaria, perché si tratta piuttosto di modi per comprendere come ciò che è accaduto nel tempo sociale può sempre accadere di nuovo. Novanta è un atto di vendetta che rimette in piedi uno Sheol, la cui geometria costituisce un itinerario di attimi messianici che rendono il passato ancora rivedibile e a disposizione del presente. Il libro riattiva presenze sepolte, restituisce corpo alle possibilità negate, riaccende lampi di un’epoca che non ha mai davvero smesso di bussare. Nei raver che assaltano lo Spaziokamino, nella techno come tamburo di guerra, nelle T.A.Z. di Bey, si intravede un’idea impossibile che ritorna, stavolta non come fantasma, ma come promessa. L'articolo Ciao proviene da Il Tascabile.
Letterature
società
controculture
storia contemporanea
La violenza e noi
P er degli inspiegabili sommovimenti dell’algoritmo, qualche settimana fa sul mio feed è comparso un video postato da un anonimo profilo privato, non dissimile da quello di qualsiasi vostro conoscente o amico. A prima vista il reel postato da @aaayushh245 – questo il nome dell’account – non è troppo diverso dai migliaia di contenuti che ogni giorno invadono Instagram o Tik Tok: una sequenza di spezzoni visivi dalla durata di pochi frame, montati uno di seguito all’altro, con un breve testo in primo piano e un sottofondo musicale d’accompagnamento. Solo che in questo caso, a differenza del solito pattume che dura lo spazio di uno scroll, il reel si differenziava non solo per la scelta musicale, piuttosto dissonante rispetto al contesto, ma anche per il messaggio stesso veicolato dal testo. Sul ritornello di The Winner Takes It All degli Abba, infatti, il video proponeva una sequenza di palazzi in fiamme, rivolte, scontri con la polizia, folle che incitano alla devastazione e al linciaggio. È questa una testimonianza di quanto accaduto in Nepal a inizio settembre, dove, a seguito del divieto di utilizzo dei social media e in risposta agli altissimi livelli di corruzione, giovani e giovanissimi sono scesi in piazza, di fatto rovesciando il governo in carica nell’arco di 48 ore. La “rivolta della Gen Z” – com’è stata denominata a seguito dell’età della maggior parte dei manifestanti – è, a conti fatti, una rivoluzione che – attraverso una votazione su Discord! – ha portato Sushila Karki, ex presidente della Corte suprema, a essere la prima donna premier del Paese. Questo risultato, com’è immaginabile, è frutto di un’ingente e incontrollata dose di violenza, che il summenzionato video non manca di mostrare. Hanno fatto il giro del web le immagini del ministro delle Finanze che, spogliato, viene inseguito nel fiume dai manifestanti. Il Parlamento, come la casa del primo ministro e di altri membri di spicco dell’amministrazione nepalese sono stati dati alle fiamme. Stessa sorte è toccata all’hotel Hilton di Katmandu, alle sedi dei media considerati vicini all’establishment, ma anche alla sede del Nepali Congress, il principale partito di opposizione. Sher Bahadur Deuba, leader dell’opposizione, e la moglie Arzu Rana Deuba, a capo del ministero degli Affari esteri, sono stati filmati mentre venivano presi a calci e pugni. Il bilancio parla di oltre 400 feriti e decine di morti, tra cui anche la moglie dell’ex primo ministro Jhala Nath Khanal, arsa viva quando la folla ha appiccato fuoco alla sua casa. L’elemento di fatale attrazione del video, però, è proprio la consapevolezza dell’autore dell’ambiguità di una protesta dal basso che si alimenta e ha successo attraverso la violenza. Infatti, mentre le immagini scorrono, la scritta in sovrimpressione recita: “Abbiamo vinto! Ma a che prezzo? Forse è quello che serviva. Dobbiamo accettare questo fatto: rivoluzione e violenza procedono mano nella mano. Eppure, resta da capire se abbiamo vinto davvero”. > L’agire esplicitamente violento della protesta nepalese viene situato in una > zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e sulla necessità del > gesto, così come sulle sue conseguenze. Questa testimonianza è eccezionale non tanto perché mostra la geopolitica internazionale in presa diretta, quanto perché è una delle rare volte in cui l’azione politica viene tematizzata in un modo non univoco dai suoi stessi protagonisti. Di conseguenza, l’agire esplicitamente violento della protesta viene situato in una zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e sulla necessità del gesto, così come sulle sue conseguenze. Il caso discretamente istruttivo del Nepal riassume una serie di temi che, nonostante lo strepitio di voci in merito alla violenza fisica e verbale nell’agone politico contemporaneo, sembrano quasi assenti dal dibattito mainstream sul tema. Al di là della retorica del giusto-o-sbagliato, il video di @aaayushh245 esemplifica alcune questioni dirimenti, che toccano non solo le modalità di fruizione della violenza, ma anche la legittimità e le conseguenze di tale posizionamento. Fruizione Sulla scia di Noam Chomsky e del suo classico La fabbrica del consenso. La politica e i mass media (1988), pare oggi vieppiù lampante che la presunta neutralità degli organi di informazione sia minata di continuo, anche nei Paesi considerati fari della democrazia, in un’ottica di costruzione del consenso per mezzi propagandistici. E d’altra parte pare pienamente compiuta la profezia di Guy Debord contenuta in La società dello spettacolo (1967), come dimostra il recente Lo stratega contro (2025) a firma di Gabriele Fadini, che conferma l’attualità del filosofo francese. In una società in cui la spettacolarizzazione della vita quotidiana operata dai mezzi di comunicazione ha raggiunto lo zenith, saturando con la sua presenza ogni momento della vita privata, si decuplicano le possibilità di essere sottoposti a immagini di violenza mediatizzata, ovvero veicolata dai media. Se si considerano insieme la parzialità delle narrazioni mainstream e la spettacolarizzazione dell’oggetto dell’informazione, mi parrebbe utile, posti di fronte all’evenienza della violenza, interrogarsi non solo sul cosa, ma sul come viene veicolata, narrata, propagandata e, spesso, omessa la violenza. Poiché la presenza del medium a fare da filtro tra noi e l’evento reale – una guerra, un omicidio, una rissa tra manifestanti e polizia, continuate voi – non è neutra: provare a capirne la natura parziale e l’effetto che genera sul contenuto potrebbe essere importante per un’analisi che non si fermi alla violenza in sé, ma che provi a porla in rapporto causale con il contesto. È chiaro, per fare un esempio, che le immagini dei militanti dell’Isis che decapitano i prigionieri politici a favore di telecamere porta lo spettatore immediatamente a empatizzare col condannato. Tuttavia, il modo in cui quelle immagini ci sono state proposte, segmentate all’interno al flusso di altre notizie, programmi e pubblicità, rende complesso ricordare che l’ascesa di al-Qaeda – da cui poi avrà vita l’Isis – è frutto anche del vuoto di potere creato dall’invasione statunitense in Iraq nel 2003. > Il processo di spettacolarizzazione del conflitto comporta un livellamento > verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della > violenza a contenuto mediatico. Allo stesso modo, le immagini dei bombardamenti in Ucraina generano subito una risposta emotiva nel pubblico occidentale. Tuttavia, questa ha reso difficoltosa la ricostruzione del complesso panorama geopolitico che ha fatto da sfondo al logorio dei rapporti tra Russia e blocco occidentale. Il processo di spettacolarizzazione del conflitto – iniziato forse da qualche parte tra la prima Guerra del Golfo e l’attacco alle Torri gemelle – comporta un livellamento verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della violenza a contenuto mediatico, a slide di Instagram, a video di TikTok, creato velocemente per essere consumato velocemente e altrettanto velocemente gettato via. Parlando della cultura promossa dai media, Jean Baudrillard diceva che nella società odierna “questa diviene oggetto di consumo nella misura in cui […] diviene sostituibile e omogenea (sebbene gerarchicamente superiore) ad altri oggetti”. Qualcosa di simile si potrebbe dire per la violenza. Nel cyberspazio generato dai media, da un punto di vista di fruizione, non c’è praticamente nessuna differenza, per esempio, tra una guerra e la sintesi di una partita di calcio. Ma capirne le modalità di fruizione è essenziale per stabilire delle contronarrazioni che tematizzino la violenza in senso storico, critico e politico. Il rischio, altrimenti, è quello di relazionarci di fronte a essa nello stesso modo in cui il tifoso prende parte al rito collettivo della partita, in cui si amano i buoni – la propria squadra – e si odiano i cattivi – gli avversari. Riflessione L’omicidio dell’attivista della destra americana estrema Charlie Kirk, colpito da un’arma da fuoco durante un incontro con gli studenti in un campus universitario nello Utah, è abbastanza esplicativo della reazione dell’opinione pubblica di fronte alla violenza. Nonostante in Italia fosse già tarda serata, per puro caso ho avuto l’occasione di seguire in diretta sui media americani la cronistoria dell’evento. Fin dai primissimi minuti il popolo di Internet si è spaccato tra chi glorificava Kirk come martire della libertà di pensiero e del diritto di parola e chi gioiva per l’attentato a danno di un pericoloso promotore di ideologie intolleranti e violente. Questa dialettica degli schieramenti opposti è stata subito fatta propria dai politici statunitensi e poi europei. I repubblicani hanno addossato le colpe dell’omicidio alla sinistra fintamente liberale, rea di incitare all’odio e di voler silenziare chi non la pensa come loro. I democratici, pur condannando in toto l’omicidio, hanno respinto al mittente, dicendo che è invece la destra MAGA (Make America Great Again) a fomentare un clima di violenza in un Paese in cui il tema del possesso delle armi è, oggettivamente, un problema. E tutto questo ben prima che venisse arrestato il presunto autore dell’attentato, il ventiduenne Tyler Robinson che, stando a quanto si conosce al momento, non corrisponde all’identikit del pericoloso leftist radicale a cui si pensava nelle prime ore. > L’omicidio di Charlie Kirk, colpito da un’arma da fuoco durante un incontro > con gli studenti in un campus universitario nello Utah, è abbastanza > esplicativo della reazione dell’opinione pubblica di fronte alla violenza. Nonostante l’omicidio di Kirk rientri in uno scontro tutto statunitense tra MAGA e liberals, anche da noi accuse, controaccuse, strumentalizzazioni e propaganda hanno subito fatto perdere il punto della questione. Il modo in cui l’omicidio è stato narrato, ha fatto sì che si sia passati immediatamente dal fatto, alle possibilità strumentali del fatto. Eradicata dal rapporto di causalità con il contesto americano, la violenza è stata usata solo in senso simbolico per un fuoco incrociato di slogan – che, per inciso, di certo non stemperano gli animi, ma anzi li infiammano, trasferendo sul piano verbale la violenza fisica. Mi pare esplicativo che l’intero spettro della sinistra internazionale abbia speso molte energie per “prendere le distanze” dal killer. Non solo è un paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si ha nessuna vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è naturalmente e giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la condanna della violenza – è un’aporia del sistema. Il fatto che io stesso mi senta qui obbligato a esplicitare la ferma condanna rispetto a quanto accaduto per evitare di incappare in accuse di giustificazionismo è esplicativo di come la violenza, anche a sinistra, sia ormai introiettata nel discorso politico solo per la sua componente spettacolarmente simbolica, mentre manca qualsiasi tipo di analisi materialista. Un’operazione di questo genere non rientra, storicamente, né negli interessi, né, forse, nelle capacità di una destra che trae il suo potere mediatico – e anche il suo appoggio elettorale – dalla semplificazione per estremi e dalla polarizzazione del dibattito, per cui l’uso strumentale della violenza è di supporto alla creazione del consenso e al mantenimento del potere – e qui si guardi, ancora, al già citato Chomsky. Tuttavia, è lecito aspettarsi da chiunque afferisca all’ampio spettro della sinistra un approccio alla violenza in campo politico che sappia interpretarla attraverso l’analisi delle condizioni materiali, delle basi economiche e delle relazioni tra classi sociali, piuttosto che attraverso valori e ideali astratti. Un approccio di questo tipo non è solo legittimo, ma necessario per provare a capire a favore di chi gioca la violenza. Chi trae vantaggio dall’uso della violenza in campo politico? Quali rapporti di forza si nascondono dietro l’uso della violenza? E, soprattutto, quale influenza ha la violenza sull’agentività del nostro schieramento politico nell’ottica di una rinata (ma forse mai estinta) lotta di classe? Al di là dei possibili discorsi etici sul personaggio, se analizzato in quest’ottica, l’omicidio Kirk non sono sicuro vada a vantaggio della sinistra democratica. L’evento, infatti, fornisce alla destra trumpiana – e poi internazionale – non solo un martire, ma il lasciapassare ideologico per l’inasprimento di una retorica securitaria che diventa poi pratica repressiva. E poco importa se il presunto killer non è un radicale, fricchettone, esaltato di sinistra, né che, negli ultimi dieci anni, la percentuale degli omicidi riconducibili alla destra estrema sul numero di azioni violente commesse a fini ideologici negli Stati Uniti sia di oltre il 75% (dati: Anti Defamation League). Tutto ciò, tra l’altro, non sposta di una virgola i rapporti di forza rispetto alle rivendicazioni delle classi sociali povere e delle minoranze nei confronti della repressione statale. > Non solo è un paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si > ha nessuna vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è > naturalmente e giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la > condanna della violenza – è un’aporia del sistema. Dall’altra parte, quello che non si sta riuscendo a fare nel caso di Kirk, è riuscito, almeno in parte, con Gaza. Dico “in parte”, perché ancora una volta l’analisi materialista del genocidio è stata condotta pressoché in toto al di fuori della politica dei partiti e promossa dalla società civile, da attivisti, da organi di ricerca indipendenti e da un’esigua parte della stampa internazionale. Questi attori, però, hanno contribuito a mantenere viva l’attenzione sui crimini commessi da Israele, tanto a livello mediatico che politico, attraverso un’intensa attività di mobilitazione dal basso. Il movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna alla violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed economici che sostanziano l’intento genocidario – poi rilanciati in sede istituzionale dai report della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese (Genocide as Colonial Erasure e From Economy of Occupation to Economy of Genocide). La condanna ideologica, unita a un’analisi materialista del genocidio, non solo ha impedito una lenta, ma spesso inesorabile assuefazione alla violenza, ma ha denunciato in maniera fragorosa la vergognosa complicità nella mattanza di un Occidente “necrocapitalista”, razzista e imperialista. Il successo, almeno parziale, di tale narrazione mi pare verificabile se si considera che anche nel dibattito mainstream molti sono costretti a riconoscere la propaganda sionista per quello che è. Il “conflitto per la liberazione degli ostaggi” è per tanti – anche per l’ONU, ma non per molti vessilliferi del moderatismo – un genocidio. I tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di Israele – come l’invio di influencer nella Striscia per testimoniare i presunti aiuti umanitari da parte dell’Idf – risultano grotteschi. Le parole di ministri come Smotrich e Ben-Gvir non sono più le boutade di qualche estremista, ma le dichiarazioni d’intenti di criminali di guerra. Questo, come si può vedere, non vuol dire che la politica assecondi o sostenga le richieste del movimento pro-Pal. Anzi, tutt’altro. Ma la verità sostanziale dei fatti affiancata a principi di carattere etico-morale fornisce il fuoco ideologico delle rivendicazioni che, nell’intento dei manifestanti, non sono destinate a rimanere solo sul piano simbolico dell’utopia. Azione Per quello che se ne capisce, l’approccio fin qui descritto diventa il minimo comune denominatore necessario nel momento in cui la speculazione teorica vuole diventare pratica attiva. Come dimostra il prima citato esempio del Nepal, è possibile che arrivi un momento in cui sarà doveroso interrogarsi sulla necessità o meno della violenza, su come esercitarla e in che grado. Mi pare superfluo ribadire – ma di questi tempi non è mai troppo – che l’adesione totale alla non-violenza è il presupposto minimo per poter partecipare al dibattito democratico. E tuttavia, il paradosso democratico enunciato da Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici (1945) impone un certo grado di repressione verso gli intolleranti al fine di salvaguardare lo stesso sistema democratico. In termini pratici, come ci insegnano innumerevoli esempi di storia, questo si traduce in una continua negoziazione sulla necessità e sulla legittimità della violenza in senso politico quando le regole del gioco democratico vengono meno. Quale dialettica è possibile con un’ipotetica squadraccia fascista che viene a rastrellare gli oppositori politici? Interrogato sulla questione, Sandro Pertini, figura che difficilmente potrà essere accusata di populismo, la risposta pareva averla molto chiara. E tuttavia, nelle nostre società contemporanee pare un sacrilegio anche solo teorizzare una possibile risposta violenta, pure laddove questa risponda solamente a scopi difensivi. > Il movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna > alla violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed > economici che sostanziano l’intento genocidario. A questo proposito, vale la pena riprendere le parole del sociologo francese Nicolas Framont pubblicate nella newsletter di settembre del progetto di estetica politica Iconografie (@iconografiexxi). Framont sottolinea come, al di là dell’ordinamento giuridico-costituzionale sulla base del quale giudichiamo qualsiasi forma di violenza dal basso come intrinsecamente esecrabile, chi detiene il potere – la “classe borghese”, per lui – esercita nei fatti un grado di violenza altissimo, giustificato in quanto statalizzato. Le élite del potere capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la necessità della violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in spregio a qualsiasi tipo di ordinamento giuridico. Di esempi, anche in questo caso, se ne potrebbero fare molti: dalla repressione violenta delle manifestazioni di piazza da parte della polizia – pratica talmente diffusa che ormai non fa più notizia – alla violenza nelle carceri, fino, per venire a un caso specificatamente italiano, al trasferimento forzato nei centri per migranti in Albania. Per rendersi conto del grado di violenza introiettato e normalizzato da parte degli apparati statali, basta una lettura dei report annuali di Amnesty International. Rispetto a questa legittimazione de facto della violenza da parte di chi detiene il potere – che non vuol dire solo potere legislativo, ma anche economico – mi sembra significativo il post che Trump ha pubblicato su Truth in data 6 settembre, con il quale minacciava Chicago di un inasprimento delle politiche anti-immigrazione e una maggior repressione da parte delle forze dell’ordine federali. Il post, accompagnato da un’immagine generata dall’Intelligenza artificiale con il presidente degli Stati Uniti in panni militari in un chiaro riferimento al film Apocalypse Now, recitava: “‘Mi piace l’odore delle deportazioni al mattino…’ Chicago sta per scoprire perché è chiamato Dipartimento della GUERRA”. Ancora una volta, tuttavia, l’esempio più denso di senso rimane il genocidio in corso a Gaza, per la sua capacità di dare forma plastica – addirittura quantificabile, negli oltre 60.000 morti – alla pratica omicida portata avanti nel nome della “democrazia” israeliana e dell’Occidente “civilizzato”. La radicalità della violenza perpetrata sulla pelle del popolo palestinese è esplicativa della morale vergognosa con cui il consesso delle grandi democrazie dell’Occidente non prova, nei fatti, nessun tipo di moto di fronte all’eccidio di civili inermi, ma si affretta a gettare strali e biasimo su un manifestante che tira un sampietrino durante una manifestazione. Per dirla con le parole di Franco Palazzi, autore di La politica della rabbia (2021), “da una parte lo stato liberaldemocratico fa manifestamente impiego di numerose forme di violenza tanto diretta […], quanto indiretta […]; dall’altra la menzione della violenza appare ammissibile nella sfera pubblica liberaldemocratica unicamente nel registro retorico della condanna”. Per Palazzi, “queste contraddizioni sono il frutto della scarsa capacità contemporanea di pensare la politica al di là dell’ipoteca, a un tempo istituzionale e concettuale, dello stato moderno”. Ma è proprio da questo tipo di squilibri che deriverebbe, secondo Framont, la simpatia di larghe fasce della popolazione verso figure come quella di Luigi Mangione, sospettato di aver assassinato Brian Thompson, CEO del colosso assicurativo UnitedHealthcare. Framont – autore di Saint Luigi (2025), un saggio sul culto mediatico e ideologico riscosso proprio dal presunto killer italoamericano – afferma che di fronte alla crescente, assidua violenza a cui le classi meno abbienti sono sottoposte, gesti estremi come quello di Mangione servono a ricordarci che servirebbe ristabilire un equilibrio tra le parti. > Le élite del potere capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la > necessità della violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in > spregio a qualsiasi tipo di ordinamento giuridico. Tuttavia, al pari dell’assassinio di Kirk, delitti come l’assassinio di Thompson, se condannabili da un punto di vista morale, rischiano di essere perfino controproducenti nell’ottica materialista del conseguimento degli obiettivi. Che l’uso omicidiario della violenza – ma anche, per esempio, la devastazione di negozi e beni comuni durante gli scontri di piazza – possa essere però allo stesso tempo una forma di lotta di classe e un gesto populista non deve trarre in inganno. Stabilita la legittimità ideologica delle richieste degli oppressi verso gli oppressori, c’è poi la riflessione sulle strategie. Fermandosi solo agli esempi fatti fin qui, i gesti eclatanti di Mangione e Robinson non muovono oltre il piano simbolico, privi di qualsiasi potenzialità nell’ottica di una rinegoziazione dello status quo. Di fronte al populismo di questa violenza performativa, è doveroso però che le sinistre internazionali inizino almeno a tematizzare le strategie attraverso le quali difendersi rispetto alla violenza del sistema, catalizzando la rabbia popolare in una lotta dove il nemico non si farà scrupoli ad uccidere se questo assicura il mantenimento fattuale del potere. In fondo, quello che pare domandarsi @aaayushh245 nel suo video sul Nepal è: può esistere una violenza generativa? L'articolo La violenza e noi proviene da Il Tascabile.
politica
Società
geopolitica
comunicazione
media
Il malato immaginato
I l primo aprile 2006 il British Medical Journal (BMJ) pubblicava un articolo che annunciava la scoperta di una nuova malattia chiamata MoDeD (Motivational Deficiency Disorder), o disturbo da carenza motivazionale. Secondo l’articolo, redatto dal fittizio Dr. Leth Argos dell’Università di Newcastle, il disturbo si manifestava con una pigrizia estrema, arrivando nei casi più gravi a ridurre la motivazione a respirare. La cura proposta? Un farmaco immaginario chiamato Indolebant, che avrebbe trasformato un giovane incapace di alzarsi dal divano in un consulente finanziario attivo a Sydney. L’articolo, pur essendo chiaramente una parodia, fu preso sul serio da numerosi media, che lo diffusero come una scoperta scientifica reale. La situazione prese una piega tale che il BMJ fu costretto a svelare lo scherzo poche ore dopo la pubblicazione. Il caso del MoDeD divenne un esempio emblematico di come la definizione di malattia possa essere facilmente ampliata o manipolata, trasformando aspetti della vita quotidiana in condizioni cliniche da diagnosticare e trattare, e anticipava molte delle discussioni successive sulla costruzione mediatica e sociale della malattia. Possiamo spiegare il successo della notizia con la tendenza, consolidatasi negli ultimi decenni, a interpretare come problemi di salute ciò che prima consideravamo semplici varianti naturali della configurazione corporea. Questo processo è noto come medicalizzazione, ed è particolarmente evidente nell’ambito della medicina estetica. La patologizzazione della bruttezza Una piega palpebrale assente, un naso prominente, denti non perfettamente allineati, una pelle dalla texture irregolare. Nella medicina contemporanea molte caratteristiche fisiche hanno subito una trasformazione silenziosa ma radicale: da semplici variazioni non desiderabili, da accettare passivamente, sono diventate oggetto di attenzione medica. Siamo nel campo della medicina non solo perché si applicano competenze e strumenti propri di questa disciplina, ma anche perché spesso c’è una diagnosi di patologia. Se in alcuni casi la patologia è rappresentata da compromissioni funzionali, in altri casi essa coincide con il disagio psicologico e sociale che, anche in assenza di disfunzioni, può scaturire dal senso di inadeguatezza rispetto ai canoni estetici dominanti. In queste circostanze si interviene dunque sul corpo per guarire una “malattia dell’anima”. > Per medicalizzazione si intende la tendenza a trattare come problemi medici > alcuni aspetti della vita ‒ fisici, psicologici o sociali ‒ un tempo ritenuti > normali. Questa metamorfosi culturale, che il filosofo della medicina Yves Saint James Aquino identifica come patologizzazione della bruttezza, si nutre di un meccanismo duplice. Da un lato, la medicina si è appropriata di una sovrapposizione antica, quella tra bello, buono e sano. Un volto con pelle uniforme, privo di segni visibili di malattia o invecchiamento, tende a essere percepito simultaneamente come in salute, virtuoso, giovane e attraente; al contrario, caratteristiche che deviano dagli standard vengono lette come limitazioni funzionali o segnali di una salute precaria. Dall’altro, agiscono strategie attive per inquadrare la chirurgia estetica non come pratica migliorativa, ma come intervento terapeutico. In particolare, Aquino identifica tre possibili concettualizzazioni tramite cui la bruttezza viene patologizzata, che fanno riferimento a tre diverse concezioni della malattia. Malattia come danno, disfunzione e deviazione La prima si basa sul concetto di danno. Negli anni Trenta i chirurghi plastici giustificavano le correzioni dei tratti corporei che causavano disagio psicologico chiamando in causa il complesso di inferiorità; oggi la retorica si è spostata sul modello della disabilità, considerando la bruttezza come uno svantaggio invalidante che può limitare le opportunità socioeconomiche. In entrambi i casi emerge una concezione normativista della malattia, che fonda il concetto di salute sul vissuto personale e su valori socialmente condivisi. Questa visione si intreccia con i meccanismi sociali di riconoscimento e valorizzazione della bellezza: il benessere soggettivo e le traiettorie di vita vengono influenzate da bias cognitivi come l’effetto alone, che attribuisce qualità positive agli individui fisicamente attraenti. In virtù di questi pregiudizi, essere di bell’aspetto si traduce in un beauty premium (traducibile in italiano come “premio alla bellezza”) che apporta vantaggi economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo nelle relazioni. > Diversi studi mostrano come un bell’aspetto spesso si traduca in vantaggi > economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati > scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo > nelle relazioni. La seconda accezione si basa sul concetto di disfunzione: la bruttezza ostacolerebbe l’attrazione di partner sessuali e l’integrazione sociale, entrambe necessarie alla riproduzione. Ci troviamo all’interno di un paradigma naturalista, che concepisce la malattia come una disfunzione oggettiva rispetto ai normali processi biologici di un organismo, indipendentemente da percezioni soggettive o valori culturali. La terza accezione si basa sul concetto di deviazione: la caratterizzazione patologica della bruttezza dipenderebbe da uno scostamento misurabile rispetto a una norma statistica o un canone numerico. Un esempio è il rapporto aureo, utilizzato in medicina estetica per valutare le proporzioni del viso. Quando una caratteristica si colloca oltre i limiti di questa norma, si parla di “deviazione” anche se non c’è un danno soggettivo percepito, né una disfunzione biologica identificabile. In realtà, osserva Aquino, il ricorso alla norma statistica è spesso uno strumento per naturalizzare standard culturali, mascherandoli da criteri biologici universali. La crescente patologizzazione della bruttezza mette in crisi la distinzione tradizionale tra chirurgia ricostruttiva e chirurgia cosmetica e ridefinisce i criteri di legittimità dell’intervento chirurgico: ciò che un tempo era giustificato solo dal ripristino di una funzione corporea mancante o danneggiata oggi può essere autorizzato anche dalla richiesta di colmare un presunto svantaggio biologico o sociale. Quello che sta accadendo con la medicina estetica è considerato da molti un esempio evidente di disease mongering, concetto spesso reso in italiano come “mercificazione della malattia”: si espande il dominio del patologico e quindi il raggio d’azione della medicina, spesso con l’obiettivo di allargare il mercato di farmaci e trattamenti. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. Ciò induce nel pubblico una certa percezione di rischio e deficit, aumentando le possibilità del mercato di identificare target di pazienti-clienti a cui proporre prodotti sanitari come integratori, test diagnostici, programmi di benessere e trattamenti. > Siamo di fronte a un esempio evidente di disease mongering, o mercificazione > della malattia. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, > più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. La ridefinizione concettuale dei confini tra salute e malattia non è però esclusiva dell’ambito estetico. Si tratta di un processo che ha investito la medicina in maniera trasversale, rendendo la salute nel suo insieme qualcosa di incerto, malleabile e negoziabile. Questa evoluzione si è tradotta nella crescente espansione dei codici ICD (International Classification of Diseases), la Classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che oggi supera le 68.000 voci, contro le 13.000 degli anni Settanta. L’osteoporosi e altre zone grigie Un caso particolarmente dibattuto nella letteratura scientifica è quello relativo all’osteoporosi. Inizialmente considerata una condizione fisiologica legata all’invecchiamento, l’osteoporosi è stata riconosciuta come patologia con l’introduzione di criteri diagnostici basati su soglie di densità minerale ossea, fissate a partire dai valori medi di giovani donne sane. Ciò ha comportato la classificazione di milioni di donne in menopausa come malate o a rischio, dal momento che i loro valori si discostavano dalla “norma statistica”, nonostante il rischio concreto di frattura fosse molto basso nella maggior parte dei casi. Questa medicalizzazione della fragilità ossea, sostenuta anche dalla necessità di ridurre l’impatto economico-sociale delle fratture sul sistema sanitario, ha alimentato la commercializzazione di nuovi farmaci. Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo delle industrie farmaceutiche nella promozione di campagne mediatiche per la prevenzione dell’osteoporosi, che insistono sul carattere diffuso e subdolo della malattia, spesso rinforzato da metafore come “la ladra di ossa”, che traduce la fisiologia dell’invecchiamento in una narrazione di pericolo e perdita. Queste campagne invitano all’acquisto di soluzioni farmacologiche anziché all’adozione di strategie preventive più semplici ed efficaci (come mantenere un’alimentazione equilibrata, fare esercizio fisico e non fumare), nonostante i benefici reali delle soluzioni proposte risultino limitati, se rapportati ai rischi e ai costi. La sindrome dell’intestino irritabile, la calvizie, la disfunzione erettile, la sindrome metabolica e l’ipercolesterolemia sono state oggetto di riflessioni critiche analoghe, per citare solo qualche esempio. > Nel caso dell’osteoporosi, la medicalizzazione della fragilità ossea ha aperto > la strada a campagne pubblicitarie che promuovono l’acquisto di soluzioni > farmacologiche anziché l’adozione di strategie preventive più semplici ed > efficaci. Alcuni teorici ritengono che al disease mongering abbiano contribuito i progressi nel campo della biochimica, in particolare la scoperta di indicatori biologici (geni, molecole, cellule, parametri come la pressione o la frequenza cardiaca) in grado di segnalare la predisposizione al rischio di sviluppare determinate patologie. In un recente contributo pubblicato su Frontiers in Sociology, il neurologo Naveen K. Reddy segnala come l’industria farmaceutica stia sempre più influenzando le definizioni di malattia, proponendo di diagnosticare condizioni come l’Alzheimer o il Parkinson in individui completamente asintomatici, solo sulla base della presenza di biomarcatori nel sangue. Questo fenomeno rischia di aumentare le sovradiagnosi, i trattamenti poco efficaci e le spese per sostenerli, alimentando lo squilibrio di potere tra bisogni reali dei pazienti e interessi commerciali. La riflessione di Reddy non riguarda solo le malattie neurologiche: in oncologia, con la tecnica delle biopsie liquide, che rilevano DNA tumorale circolante, si rischia di inglobare nelle definizioni di cancro stadi preclinici che potrebbero non progredire mai verso una malattia sintomatica. In psichiatria, test ematici per marker infiammatori legati alla depressione potrebbero patologizzare risposte emotive normali. Nel caso del diabete, biomarcatori avanzati per la resistenza insulinica potrebbero classificare individui senza sintomi come prediabetici, spingendoli verso l’uso di costosi farmaci. L’era della subsalute L’espansione del perimetro della medicina ha profondamente trasformato il rapporto degli individui con il proprio corpo e la propria salute. Sempre più spesso, la prevenzione non si limita a promuovere comportamenti sani o a monitorare situazioni ad alto rischio, ma diventa una strategia di ipersorveglianza costante e capillare su ogni aspetto dell’esperienza corporea. Questo orientamento trasforma quasi ogni cittadino in un “paziente potenziale” impegnato in screening, check-up, test genetici, autovalutazioni e consulti per scoprire e correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. La promozione della salute, così, non si configura più solo come tutela dal rischio, ma come dovere di perseguire un ideale di benessere ottimale e durevole, da certificare e monitorare costantemente attraverso dispositivi, tecnologie, esami strumentali e consulenze mediche. Il risultato è che l’attenzione si sposta dalla cura della patologia alla gestione ansiosa di ogni segnale di inefficienza, vulnerabilità o affaticamento. > Sempre più spesso, la prevenzione diventa una strategia di ipersorveglianza su > ogni aspetto dell’esperienza corporea, trasformando ogni cittadino in un > “paziente potenziale” impegnato in check-up, test e consulti per scoprire e > correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. È all’interno di questo scenario che ha preso corpo il costrutto di salute subottimale, concepito come un vero e proprio spazio liminale tra salute piena e malattia diagnosticabile. Essa si manifesta attraverso sintomi poco specifici ma persistenti, come affaticamento, sonnolenza, mal di testa, insonnia, difficoltà di concentrazione e cali di memoria. Il termine nasce in Cina per descrivere le percezioni di disagio psicofisico di una crescente fetta della popolazione, soprattutto giovani adulti urbanizzati, che pur non risultando malati secondo i criteri clinici, riportano un generale senso di salute incompleta o precaria, accompagnata da insoddisfazione e preoccupazione. Nel 2025 Lijiaozi Cheng, studiosa di sociologia della salute all’Università di Sheffield, ha esplorato l’utilizzo del concetto di subhealth tra i giovani cinesi, raccogliendo sensazioni che vanno dall’“essere in cammino verso la malattia” a una sorta di “sospensione biografica” all’interno delle routine della vita quotidiana. La subsalute risulta particolarmente appetibile dal punto di vista commerciale, poiché non si basa su parametri oggettivi e misurabili ma su un vissuto soggettivo che, in quanto tale, può esprimersi in forme e intensità differenti, tutte potenzialmente degne di prevenzione. La salute subottimale, infatti, è generalmente concepita come una fase reversibile, a patto di intervenire sullo stile di vita e sulla riduzione dei fattori di rischio. In tal senso, essa rappresenta una vera e propria “zona di transizione”, dove l’individuo si configura come un “paziente in attesa” o un protopaziente, chiamato a correre ai ripari e rivedere le proprie abitudini prima che possano evolvere in malattie conclamate. Se nelle patologie diagnosticabili tramite biomarcatori si è “malati senza sintomi” perché lo dice un test, nella subsalute si è “sintomatici senza malattia” perché lo afferma il vissuto individuale. Eppure entrambe partecipano allo stesso processo: la produzione di una zona grigia in cui medicalizzazione e incertezza diagnostica si intrecciano, lasciando spazio a una molteplicità di risposte sociali, cliniche e commerciali. Il potere del discorso Questo progressivo ampliamento dei confini diagnostici non sarebbe possibile senza l’intervento di strategie discorsive precise, che sfruttano l’ambiguità dei concetti di salute e malattia per costruire legittimità e consenso attorno a nuove categorie patologiche. La letteratura sociologica mostra che le narrazioni veicolate dai media, dalla comunicazione pubblicitaria e dai discorsi istituzionali sono in grado di conferire consistenza scientifica apparente a concetti privi di un sostegno empirico robusto. > Le malattie non vengono soltanto “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al > pubblico, a volte vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso > pratiche linguistiche, narrative e mediatiche che possono prescindere dalla > solidità delle evidenze. Uno studio del 2025 dei linguisti Dermot Heaney e Giorgia Riboni ha confrontato lo Sluggish cognitive tempo (SCT), una condizione documentata in letteratura ma non universalmente riconosciuta come disturbo autonomo e spesso descritta come variante dell’ADHD, con il MoDeD, il disturbo inventato dal fantomatico Dr. Leth Argos. L’analisi di Heaney e Riboni evidenzia un repertorio condiviso di modelli lessicali, fraseologici e retorici che ha reso il MoDeD credibile. Lo studio, basato su articoli e contenuti online, mostra come l’uso di termini tecnici, sigle, casi-studio concreti, dati numerici e citazioni di esperti dia l’impressione di autorevolezza e scientificità. Molti dei contenuti esaminati, ad esempio, riferiscono la stima secondo cui “uno su cinque” sarebbe affetto da MoDeD, fornendo così un dato quantitativo che rende la portata della malattia più fondata e tangibile. Le narrazioni seguono schemi ricorrenti: la condizione è presentata come diffusa ma poco riconosciuta (“molti non lo sanno”), come un progresso rispetto alla comprensione precedente (“per tutta la vita hai creduto di essere pigro; in realtà sei malato”), come un insieme di sintomi da prendere sul serio (“essere sottodiagnosticati è pericoloso”). Così, gli autori mostrano che la medicalizzazione non è un fenomeno puramente medico, ma un processo sociale e discorsivo. Le malattie non vengono solo “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al pubblico: vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso pratiche linguistiche, narrative, mediatiche e retoriche che possono prescindere dalla solidità delle evidenze. Se persino una malattia inventata può risultare verosimile, quali strumenti abbiamo per distinguere ciò che è fondato scientificamente da una patologia costruita ad arte per interessi di mercato? Forse non ci resta che abbracciare la consapevolezza che salute e malattia sono sempre, anche, categorie discorsive, sociali, politiche e commerciali. Riconoscere questa multidimensionalità significa smettere di cercare confini immutabili e oggettivi e interrogarsi invece su chi ha il potere di tracciare quei confini, e a vantaggio di chi. L'articolo Il malato immaginato proviene da Il Tascabile.
Scienze
malattia
medicina
patologia
salute
Il malato immaginato
I l primo aprile 2006 il British Medical Journal (BMJ) pubblicava un articolo che annunciava la scoperta di una nuova malattia chiamata MoDeD (Motivational Deficiency Disorder), o disturbo da carenza motivazionale. Secondo l’articolo, redatto dal fittizio Dr. Leth Argos dell’Università di Newcastle, il disturbo si manifestava con una pigrizia estrema, arrivando nei casi più gravi a ridurre la motivazione a respirare. La cura proposta? Un farmaco immaginario chiamato Indolebant, che avrebbe trasformato un giovane incapace di alzarsi dal divano in un consulente finanziario attivo a Sydney. L’articolo, pur essendo chiaramente una parodia, fu preso sul serio da numerosi media, che lo diffusero come una scoperta scientifica reale. La situazione prese una piega tale che il BMJ fu costretto a svelare lo scherzo poche ore dopo la pubblicazione. Il caso del MoDeD divenne un esempio emblematico di come la definizione di malattia possa essere facilmente ampliata o manipolata, trasformando aspetti della vita quotidiana in condizioni cliniche da diagnosticare e trattare, e anticipava molte delle discussioni successive sulla costruzione mediatica e sociale della malattia. Possiamo spiegare il successo della notizia con la tendenza, consolidatasi negli ultimi decenni, a interpretare come problemi di salute ciò che prima consideravamo semplici varianti naturali della configurazione corporea. Questo processo è noto come medicalizzazione, ed è particolarmente evidente nell’ambito della medicina estetica. La patologizzazione della bruttezza Una piega palpebrale assente, un naso prominente, denti non perfettamente allineati, una pelle dalla texture irregolare. Nella medicina contemporanea molte caratteristiche fisiche hanno subito una trasformazione silenziosa ma radicale: da semplici variazioni non desiderabili, da accettare passivamente, sono diventate oggetto di attenzione medica. Siamo nel campo della medicina non solo perché si applicano competenze e strumenti propri di questa disciplina, ma anche perché spesso c’è una diagnosi di patologia. Se in alcuni casi la patologia è rappresentata da compromissioni funzionali, in altri casi essa coincide con il disagio psicologico e sociale che, anche in assenza di disfunzioni, può scaturire dal senso di inadeguatezza rispetto ai canoni estetici dominanti. In queste circostanze si interviene dunque sul corpo per guarire una “malattia dell’anima”. > Per medicalizzazione si intende la tendenza a trattare come problemi medici > alcuni aspetti della vita ‒ fisici, psicologici o sociali ‒ un tempo ritenuti > normali. Questa metamorfosi culturale, che il filosofo della medicina Yves Saint James Aquino identifica come patologizzazione della bruttezza, si nutre di un meccanismo duplice. Da un lato, la medicina si è appropriata di una sovrapposizione antica, quella tra bello, buono e sano. Un volto con pelle uniforme, privo di segni visibili di malattia o invecchiamento, tende a essere percepito simultaneamente come in salute, virtuoso, giovane e attraente; al contrario, caratteristiche che deviano dagli standard vengono lette come limitazioni funzionali o segnali di una salute precaria. Dall’altro, agiscono strategie attive per inquadrare la chirurgia estetica non come pratica migliorativa, ma come intervento terapeutico. In particolare, Aquino identifica tre possibili concettualizzazioni tramite cui la bruttezza viene patologizzata, che fanno riferimento a tre diverse concezioni della malattia. Malattia come danno, disfunzione e deviazione La prima si basa sul concetto di danno. Negli anni Trenta i chirurghi plastici giustificavano le correzioni dei tratti corporei che causavano disagio psicologico chiamando in causa il complesso di inferiorità; oggi la retorica si è spostata sul modello della disabilità, considerando la bruttezza come uno svantaggio invalidante che può limitare le opportunità socioeconomiche. In entrambi i casi emerge una concezione normativista della malattia, che fonda il concetto di salute sul vissuto personale e su valori socialmente condivisi. Questa visione si intreccia con i meccanismi sociali di riconoscimento e valorizzazione della bellezza: il benessere soggettivo e le traiettorie di vita vengono influenzate da bias cognitivi come l’effetto alone, che attribuisce qualità positive agli individui fisicamente attraenti. In virtù di questi pregiudizi, essere di bell’aspetto si traduce in un beauty premium (traducibile in italiano come “premio alla bellezza”) che apporta vantaggi economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo nelle relazioni. > Diversi studi mostrano come un bell’aspetto spesso si traduca in vantaggi > economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati > scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo > nelle relazioni. La seconda accezione si basa sul concetto di disfunzione: la bruttezza ostacolerebbe l’attrazione di partner sessuali e l’integrazione sociale, entrambe necessarie alla riproduzione. Ci troviamo all’interno di un paradigma naturalista, che concepisce la malattia come una disfunzione oggettiva rispetto ai normali processi biologici di un organismo, indipendentemente da percezioni soggettive o valori culturali. La terza accezione si basa sul concetto di deviazione: la caratterizzazione patologica della bruttezza dipenderebbe da uno scostamento misurabile rispetto a una norma statistica o un canone numerico. Un esempio è il rapporto aureo, utilizzato in medicina estetica per valutare le proporzioni del viso. Quando una caratteristica si colloca oltre i limiti di questa norma, si parla di “deviazione” anche se non c’è un danno soggettivo percepito, né una disfunzione biologica identificabile. In realtà, osserva Aquino, il ricorso alla norma statistica è spesso uno strumento per naturalizzare standard culturali, mascherandoli da criteri biologici universali. La crescente patologizzazione della bruttezza mette in crisi la distinzione tradizionale tra chirurgia ricostruttiva e chirurgia cosmetica e ridefinisce i criteri di legittimità dell’intervento chirurgico: ciò che un tempo era giustificato solo dal ripristino di una funzione corporea mancante o danneggiata oggi può essere autorizzato anche dalla richiesta di colmare un presunto svantaggio biologico o sociale. Quello che sta accadendo con la medicina estetica è considerato da molti un esempio evidente di disease mongering, concetto spesso reso in italiano come “mercificazione della malattia”: si espande il dominio del patologico e quindi il raggio d’azione della medicina, spesso con l’obiettivo di allargare il mercato di farmaci e trattamenti. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. Ciò induce nel pubblico una certa percezione di rischio e deficit, aumentando le possibilità del mercato di identificare target di pazienti-clienti a cui proporre prodotti sanitari come integratori, test diagnostici, programmi di benessere e trattamenti. > Siamo di fronte a un esempio evidente di disease mongering, o mercificazione > della malattia. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti, > più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. La ridefinizione concettuale dei confini tra salute e malattia non è però esclusiva dell’ambito estetico. Si tratta di un processo che ha investito la medicina in maniera trasversale, rendendo la salute nel suo insieme qualcosa di incerto, malleabile e negoziabile. Questa evoluzione si è tradotta nella crescente espansione dei codici ICD (International Classification of Diseases), la Classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che oggi supera le 68.000 voci, contro le 13.000 degli anni Settanta. L’osteoporosi e altre zone grigie Un caso particolarmente dibattuto nella letteratura scientifica è quello relativo all’osteoporosi. Inizialmente considerata una condizione fisiologica legata all’invecchiamento, l’osteoporosi è stata riconosciuta come patologia con l’introduzione di criteri diagnostici basati su soglie di densità minerale ossea, fissate a partire dai valori medi di giovani donne sane. Ciò ha comportato la classificazione di milioni di donne in menopausa come malate o a rischio, dal momento che i loro valori si discostavano dalla “norma statistica”, nonostante il rischio concreto di frattura fosse molto basso nella maggior parte dei casi. Questa medicalizzazione della fragilità ossea, sostenuta anche dalla necessità di ridurre l’impatto economico-sociale delle fratture sul sistema sanitario, ha alimentato la commercializzazione di nuovi farmaci. Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo delle industrie farmaceutiche nella promozione di campagne mediatiche per la prevenzione dell’osteoporosi, che insistono sul carattere diffuso e subdolo della malattia, spesso rinforzato da metafore come “la ladra di ossa”, che traduce la fisiologia dell’invecchiamento in una narrazione di pericolo e perdita. Queste campagne invitano all’acquisto di soluzioni farmacologiche anziché all’adozione di strategie preventive più semplici ed efficaci (come mantenere un’alimentazione equilibrata, fare esercizio fisico e non fumare), nonostante i benefici reali delle soluzioni proposte risultino limitati, se rapportati ai rischi e ai costi. La sindrome dell’intestino irritabile, la calvizie, la disfunzione erettile, la sindrome metabolica e l’ipercolesterolemia sono state oggetto di riflessioni critiche analoghe, per citare solo qualche esempio. > Nel caso dell’osteoporosi, la medicalizzazione della fragilità ossea ha aperto > la strada a campagne pubblicitarie che promuovono l’acquisto di soluzioni > farmacologiche anziché l’adozione di strategie preventive più semplici ed > efficaci. Alcuni teorici ritengono che al disease mongering abbiano contribuito i progressi nel campo della biochimica, in particolare la scoperta di indicatori biologici (geni, molecole, cellule, parametri come la pressione o la frequenza cardiaca) in grado di segnalare la predisposizione al rischio di sviluppare determinate patologie. In un recente contributo pubblicato su Frontiers in Sociology, il neurologo Naveen K. Reddy segnala come l’industria farmaceutica stia sempre più influenzando le definizioni di malattia, proponendo di diagnosticare condizioni come l’Alzheimer o il Parkinson in individui completamente asintomatici, solo sulla base della presenza di biomarcatori nel sangue. Questo fenomeno rischia di aumentare le sovradiagnosi, i trattamenti poco efficaci e le spese per sostenerli, alimentando lo squilibrio di potere tra bisogni reali dei pazienti e interessi commerciali. La riflessione di Reddy non riguarda solo le malattie neurologiche: in oncologia, con la tecnica delle biopsie liquide, che rilevano DNA tumorale circolante, si rischia di inglobare nelle definizioni di cancro stadi preclinici che potrebbero non progredire mai verso una malattia sintomatica. In psichiatria, test ematici per marker infiammatori legati alla depressione potrebbero patologizzare risposte emotive normali. Nel caso del diabete, biomarcatori avanzati per la resistenza insulinica potrebbero classificare individui senza sintomi come prediabetici, spingendoli verso l’uso di costosi farmaci. L’era della subsalute L’espansione del perimetro della medicina ha profondamente trasformato il rapporto degli individui con il proprio corpo e la propria salute. Sempre più spesso, la prevenzione non si limita a promuovere comportamenti sani o a monitorare situazioni ad alto rischio, ma diventa una strategia di ipersorveglianza costante e capillare su ogni aspetto dell’esperienza corporea. Questo orientamento trasforma quasi ogni cittadino in un “paziente potenziale” impegnato in screening, check-up, test genetici, autovalutazioni e consulti per scoprire e correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. La promozione della salute, così, non si configura più solo come tutela dal rischio, ma come dovere di perseguire un ideale di benessere ottimale e durevole, da certificare e monitorare costantemente attraverso dispositivi, tecnologie, esami strumentali e consulenze mediche. Il risultato è che l’attenzione si sposta dalla cura della patologia alla gestione ansiosa di ogni segnale di inefficienza, vulnerabilità o affaticamento. > Sempre più spesso, la prevenzione diventa una strategia di ipersorveglianza su > ogni aspetto dell’esperienza corporea, trasformando ogni cittadino in un > “paziente potenziale” impegnato in check-up, test e consulti per scoprire e > correggere il più piccolo scostamento dalla normalità. È all’interno di questo scenario che ha preso corpo il costrutto di salute subottimale, concepito come un vero e proprio spazio liminale tra salute piena e malattia diagnosticabile. Essa si manifesta attraverso sintomi poco specifici ma persistenti, come affaticamento, sonnolenza, mal di testa, insonnia, difficoltà di concentrazione e cali di memoria. Il termine nasce in Cina per descrivere le percezioni di disagio psicofisico di una crescente fetta della popolazione, soprattutto giovani adulti urbanizzati, che pur non risultando malati secondo i criteri clinici, riportano un generale senso di salute incompleta o precaria, accompagnata da insoddisfazione e preoccupazione. Nel 2025 Lijiaozi Cheng, studiosa di sociologia della salute all’Università di Sheffield, ha esplorato l’utilizzo del concetto di subhealth tra i giovani cinesi, raccogliendo sensazioni che vanno dall’“essere in cammino verso la malattia” a una sorta di “sospensione biografica” all’interno delle routine della vita quotidiana. La subsalute risulta particolarmente appetibile dal punto di vista commerciale, poiché non si basa su parametri oggettivi e misurabili ma su un vissuto soggettivo che, in quanto tale, può esprimersi in forme e intensità differenti, tutte potenzialmente degne di prevenzione. La salute subottimale, infatti, è generalmente concepita come una fase reversibile, a patto di intervenire sullo stile di vita e sulla riduzione dei fattori di rischio. In tal senso, essa rappresenta una vera e propria “zona di transizione”, dove l’individuo si configura come un “paziente in attesa” o un protopaziente, chiamato a correre ai ripari e rivedere le proprie abitudini prima che possano evolvere in malattie conclamate. Se nelle patologie diagnosticabili tramite biomarcatori si è “malati senza sintomi” perché lo dice un test, nella subsalute si è “sintomatici senza malattia” perché lo afferma il vissuto individuale. Eppure entrambe partecipano allo stesso processo: la produzione di una zona grigia in cui medicalizzazione e incertezza diagnostica si intrecciano, lasciando spazio a una molteplicità di risposte sociali, cliniche e commerciali. Il potere del discorso Questo progressivo ampliamento dei confini diagnostici non sarebbe possibile senza l’intervento di strategie discorsive precise, che sfruttano l’ambiguità dei concetti di salute e malattia per costruire legittimità e consenso attorno a nuove categorie patologiche. La letteratura sociologica mostra che le narrazioni veicolate dai media, dalla comunicazione pubblicitaria e dai discorsi istituzionali sono in grado di conferire consistenza scientifica apparente a concetti privi di un sostegno empirico robusto. > Le malattie non vengono soltanto “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al > pubblico, a volte vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso > pratiche linguistiche, narrative e mediatiche che possono prescindere dalla > solidità delle evidenze. Uno studio del 2025 dei linguisti Dermot Heaney e Giorgia Riboni ha confrontato lo Sluggish cognitive tempo (SCT), una condizione documentata in letteratura ma non universalmente riconosciuta come disturbo autonomo e spesso descritta come variante dell’ADHD, con il MoDeD, il disturbo inventato dal fantomatico Dr. Leth Argos. L’analisi di Heaney e Riboni evidenzia un repertorio condiviso di modelli lessicali, fraseologici e retorici che ha reso il MoDeD credibile. Lo studio, basato su articoli e contenuti online, mostra come l’uso di termini tecnici, sigle, casi-studio concreti, dati numerici e citazioni di esperti dia l’impressione di autorevolezza e scientificità. Molti dei contenuti esaminati, ad esempio, riferiscono la stima secondo cui “uno su cinque” sarebbe affetto da MoDeD, fornendo così un dato quantitativo che rende la portata della malattia più fondata e tangibile. Le narrazioni seguono schemi ricorrenti: la condizione è presentata come diffusa ma poco riconosciuta (“molti non lo sanno”), come un progresso rispetto alla comprensione precedente (“per tutta la vita hai creduto di essere pigro; in realtà sei malato”), come un insieme di sintomi da prendere sul serio (“essere sottodiagnosticati è pericoloso”). Così, gli autori mostrano che la medicalizzazione non è un fenomeno puramente medico, ma un processo sociale e discorsivo. Le malattie non vengono solo “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al pubblico: vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso pratiche linguistiche, narrative, mediatiche e retoriche che possono prescindere dalla solidità delle evidenze. Se persino una malattia inventata può risultare verosimile, quali strumenti abbiamo per distinguere ciò che è fondato scientificamente da una patologia costruita ad arte per interessi di mercato? Forse non ci resta che abbracciare la consapevolezza che salute e malattia sono sempre, anche, categorie discorsive, sociali, politiche e commerciali. Riconoscere questa multidimensionalità significa smettere di cercare confini immutabili e oggettivi e interrogarsi invece su chi ha il potere di tracciare quei confini, e a vantaggio di chi. L'articolo Il malato immaginato proviene da Il Tascabile.
Scienze
malattia
medicina
patologia
salute